Nicola Fano
Su “Alla mia patria ovunque essa sia”

Nostra patria nomade

Un pamphlet di Filippo La Porta affronta un tema oggi cruciale: quale cortocircuito segna la relazione tra patria, identità e nazionalismo? La tradizione (e quindi la "patria") è quella che ciascuno di noi decide di scegliere

«Patriottismo, nazionalismo e razzismo stanno fra loro come la salute, la nevrosi e la pazzia», scrive Filippo La Porta, citando Umberto Saba, nel suo prezioso saggio Alla mia patria ovunque essa sia (Gog, 90 pagine, 11 Euro). Con la consueta lucidità e senza timori reverenziali, il celebre critico affronta un tema cruciale nella nostra cultura sociale, politica e letteraria: quello dell’identità italiana. Una questione scottante non solo per ciò che ha rappresentato nella storia di quel luogo geo-culturale che da quasi un millennio viene chiamato Italia, ma anche perché nel suo nome oggi si combattono una autentica battaglia culturale e una finta disfida politica. Diciamo, restando alle categorie di Saba, che il rovello intorno a ciò che ci unifica dovrebbe aiutarci a guarire le nostre nevrosi sociali, mentre le becere speculazioni di chi s’appella a un non ben identificato sovranismo sono quelle che hanno condotto il nostro paese sull’orlo della pazzia collettiva.

Chissà se Filippo La Porta avrebbe riscritto uguale, questo saggio, oggi, dopo il terremoto coronavirus? Io credo di no, perché qualcosa di buono la devastante pandemia forse la porterà: quando finirà l’emergenza, potremo valutare con buona chiarezza se ne saremo usciti diversi o uguali a sempre (personalmente, propendo per questa seconda ipotesi). E allora sarà più facile, per esempio, inserire il razzismo tra gli elementi caratterizzanti la nostra identità profonda.

Ma per giungere a questa conclusione occorrerà ancora aspettare. Restiamo al dunque, allora.

Filippo La Porta mostra una palese idiosincrasia per il concetto stesso di identità italiana propendendo il più largo principio di carattere nazionale: all’analisi di Ernesto Galli della Loggia (L’identità italiana, Il Mulino, 1998) preferisce quella di Giovanni Aliberti (Carattere nazionale e identità italiana, Nuova Cultura, 2008). Galli della Loggia ha ricostruito la nostra identità lacerata da questioni storiche legate sia alle differenze nord/sud (autonomia e indipendenza comunale/dipendenza dalla monarchia centralizzata) sia a una divisione est/ovest della penisola (fino a un secolo fa gli Appennini impedivano contatti reali tra le due Italie), mentre Aliberti, ampiamente citato da La Porta, si concentra su comportamenti condivisi e, come tali, storicamente vantati, analizzati e dunque accettati.

Ma in realtà, questo libro spazza d’un colpo la vecchia contesa tra storia e sociologia e propone un’altra via: la patria è quella che si sceglie. Per caso, per necessità, per sensibilità culturale. Un sentimento legato da un lato alla globalizzazione (e alla messa in comune dei valori condivisi ovunque e da chiunque) e dall’altro alla evaporazione delle tradizioni specifiche. Dobbiamo fare i conti con il nostro continuo vagare tra idee, informazioni e luoghi: «L’unica soluzione è vivere questo nomadismo universale fino in fondo – senza attaccamenti nazionalistici – e tentando di farne una risorsa: mettersi cioè in una posizione di transito, di “soglia”, rispetto al luogo dove ci si trova ad abitare». Quello che conta, aggiunge Filippo La Porta, è la scelta di un immaginario comune (e, nel caso, condiviso). Mi permetto di aggiungere che questo è il senso stesso del teatro che si occupa da millenni di creare tale immaginario e metterlo in comune tra attori e spettatori. Cioè fra tutti. E non è casuale, a mio modo di vedere, che proprio il teatro sia alla base della nostra identità: l’Italia è l’unico luogo d’Occidente che possa vantare una piena continuità teatrale lunga duemila e cinquecento anni. Ma questo è un altro problema.

Insomma, l’avrete capito: Filippo La Porta combatte una sacrosanta battaglia contro i nazionalisti d’accatto dell’ultima ora (che nemmeno sanno di che cosa parlano) e contro chi – forse – a costoro ha fornito inconsapevolmente un qualche terreno di coltura. Sempre, infatti, l’autore mette in contrapposizione il concetto di patria calpestato miseramente dal fascismo e quello combattuto dalla sua generazione (quella che si è formata negli anni Sessanta/Settanta). All’inizio degli anni Novanta (esattamente nel 1992) uscì un prezioso volume collettivo intitolato, appunto, Patria: lo pubblicò la casa editrice Theoria (una piccola e preziosa impresa culturale, nella quale debuttarono molti degli scrittori e intellettuali oggi di maggior peso) chiamando a esprimersi intorno a quella scivolosa parola una serie di giovani scrittori (da Severino Cesari a Giampiero Comolli, da Mario Fortunato a Sandro Onofri, da Sandra Petrignani a Lidia Ravera, da Sandro Veronesi a Valeria Viganò). La risposta fu sostanzialmente univoca e andava nella stessa direzione indicata ora da Filippo La Porta: la mia patria sono io. La lingua, le tradizioni, la cucina, la musica, la letteratura rappresentano un caleidoscopio di opportunità all’interno del quale ognuno trova il proprio percorso. Ma quel nomadismo identitario che allora era rivendicato con molto di timore e una buona dose di ideologia, ora diventa una scelta di campo forte e limpida contro l’omologazione globale.

Insomma, siamo finiti proprio dove eravamo partiti: questo bel libro sarebbe stato uguale se fosse stato scritto dopo lo sconquasso del virus? Il Covid ha sconfitto o no la globalizzazione?

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