Raoul Precht
Un romanzo a puntate/1

Castelporziano

Da oggi pubblichiamo, in dieci puntate, un romanzo inedito dedicato alle avventure ormai mitiche del Festival dei poeti di Castelporziano del 1979. La storia di un traduttore che si aggira tra i "giganti" della poesia dell'epoca

Pubblichiamo qui a puntate, con scadenza bisettimanale, il lunedì e il giovedì, un romanzo di Raoul Precht intitolato Castelporziano e dedicato al Festival dei poeti svoltosi sulla spiaggia di Ostia nel giugno 1979. Il romanzo segue le avventure di un giovanissimo traduttore chiamato a occuparsi in particolare dei poeti tedeschi presenti al Festival, e tocca argomenti come l’essenza della poesia, il poeta come personaggio pubblico nonché il confine fra letteratura e spettacolo, unico modo di attirare l’attenzione di un pubblico sempre più distratto.

* * *

Che l’esperienza di Castelporziano sia stata vitale, in senso romanzesco, che è il miglior senso, lo dimostra il fatto che si continuano a scrivere nuovi episodi della sua trama, con distor­sioni notevoli, anche, e falsificazioni e mistificazioni, certo, con rabbie e rifiuti o ingenue adesioni; ma tutto conferma che la storia di Castelporziano è dominata dal “senso caldo” del mu­tamento e della conoscenza, caratteristiche della poesia.
Antonio Porta (Il Manifesto, 22 luglio 1979)

…quell’episodio dell’immaginazione che chiamiamo la realtà.
Fernando Pessoa

L’albergo era fatiscente, situato quasi sulla spiaggia, a poche centinaia di metri dal mare, in posizione sicuramente panora­mica, ma nel suo insieme non evocava nulla, nessun ricordo, nessuna suggestione, non aveva niente intorno salvo qualche casotto scrostato, e non era che un edificio assurdo, incon­gruo e soprattutto, appunto, fatiscente, certo non ispirava al­cun desiderio di metterci piede, era meglio restarsene pruden­temente fuori, sul terrazzo, o più lontano, sulla spiaggia, a riempirsi i sandali di granelli di sabbia, fuori, comunque, come si conviene a tutti i deuteragonisti, i comprimari, cos’altro po­tevo mai essere io, un ragazzo di diciott’anni compiuti da po­co chiamato a ingrossare e rafforzare la corte dei miracoli, ma dopo tanti anni la memoria deraglia, non è più affidabile, co­me non lo sarà per il resto di questo racconto, inutile illudersi, cos’è poi un racconto se non un fascio di luce che chissà per­ché si avventa su un particolare, lo azzanna e non lo lascia più, come se dal particolare si possano mai trarre chissà quali con­clusioni sul tutto, fatto sta che del sedicente albergo non ri­cordo più nulla, meno di niente, salvo che era improbabile come un castello mezzo diroccato, un relitto abbandonato da anni, da quando aveva smesso di servire da laboratorio per un istituto professionale alberghiero, e di quest’abbandono por­tava tutti i segni, moltiplicati dalla prossimità del mare, crepe nei muri, piastrelle scrostate già all’ingresso, salsedine e umidi­tà che penetravano ovunque e ne avevano intriso ogni angolo, senza pietà per i poveri poeti che tre anni dopo la chiusura e l’abbandono sarebbero stati chiamati ad abitarlo in fraterna comunità per qualche notte di passione. Poeti di tutte le origi­ni e provenienze, per la maggior parte già di una certa età, al­cuni dei quali avrebbero affrontato un lungo viaggio per poi trovarsi fra quelle mura umide, senza l’ombra di uno spaccio o bar o ristorante perché nessuno aveva previsto la necessità di un ristoro, poeti e menestrelli vivendo come si sa d’aria e d’ispirazione e in definitiva di poco o nulla, e dunque eccoli lì, a dir poco soli e spaesati, almeno coloro che non provenivano da oltreoceano e che quindi, non essendo americani, erano meno abituati agli incidenti e imprevisti della vita spettacolare, dell’esibizione permanente, eccoli lì stonati e persi, a consu­mare le bottiglie di gin e vodka comprate al duty-free (coloro, almeno, che a questo minimo pronto soccorso avevano pen­sato, per un riflesso di vita pratica che sempre li accompagna­va pur essendo poeti, gli altri niente, nemmeno questo, debito­ri e un bel giorno anche tributari della generosità dei primi) e a cercare un minimo di sollievo fra lenzuola ottenute alla bell’e meglio dall’amministrazione capitolina, con i suoi potenti mezzi di persuasione, in prestito da altri alberghi (veri, questi) della Capitale, ma che in capo a un paio di notti sarebbero sta­te anch’esse intrise d’umidità e da strizzare. Senza pietà, ap­punto.

Almeno quel primo viaggio, il primo di tre, in un mese di giu­gno che ormai volgeva al termine, questo me lo ricordo benis­simo, io lo feci in metropolitana, sfruttando l’incredibile pos­sibilità di salire su un vagone in pieno centro città e riscender­ne mezz’ora dopo a due passi dal mare, quest’impareggiabile privilegio della mia città così come di tutta la mia infanzia e adolescenza, a ben vedere è quello che più mi manca, oggi, benché io non sia un fanatico del mare né del sole né dei ba­gni né tantomeno del nuoto, ma sempre più necessaria mi sembra l’aria, anzi la luce di cui non godo più e che all’epoca nemmeno avvertivo, tanto che scesi dalla metropolitana persi­no con un senso di fastidio, rammento, non so più se per il caldo che a fine giugno sarà stato già afoso, per la gente che si accalcava, per qualche personaggio bizzarro che aveva tentato di avvicinarmi – all’epoca, giovane e biondo com’ero, la cosa non era poi così rara, e non parlo qui solo di poeti, anche se su quella categoria sembravo esercitare un’attrattiva del tutto particolare –, oppure per il fatto che nemmeno quel viaggio mi aveva dato modo di scorgere fra i volti dei viaggiatori le sembianze dell’anima gemella, che avrei riconosciuto, ne ero certo, con una semplice occhiata, a prima vista, non per un banale colpo di fulmine ma grazie a una mutua agnizione, per­ché non immaginavo che la scoperta dell’altra metà potesse avvenire altrimenti, se non scomodando i sensi della prima metà, quella maschile e ancora adolescenziale che mi ospitava con tutte le mie pulsioni, e insomma la metropolitana, così come gli autobus e qualunque mezzo di trasporto pubblico, si prestava in modo perfetto alla ricerca, anche perché ero con­vinto che la mia lei sarebbe stata anzitutto più o meno mia coetanea e in bolletta come me, non si sarebbe mai potuta permettere un’auto propria, e quindi avrebbe dovuto per forza prendere l’autobus o la metro e prima o poi, inevitabilmente, incontrarmi, come in quello splendido racconto di Cortázar che allora non avevo ancora letto, ma su cui in seguito avrei scritto un saggio e tenuto una relazione a Poitiers, racconto che si svolge fra le stazioni del metro di Parigi, dove lui, in cerca di lei, segue tutto un rituale, in realtà per non perderla (o ritrovarla, da igual, e non perdere se stesso), e allo stesso modo anch’io, a ogni salita e discesa sull’autobus o dall’autobus fa­cevo i conti delle occasioni perdute, le grandi occasioni perdu­te dell’adolescenza, e il conto, appunto, era sempre in perdita, così dev’essere stato anche quella volta, quando ho messo piede (o forse no) nel presunto albergo, oppure sono (o non sono) rimasto fuori dall’ingresso, ad aspettare i quattro poeti tedeschi che dovevo incontrare e il poco insigne critico che mi aveva chiamato per affidarmeli, un oscuro docente universita­rio che avrebbe poi fatto carriera rimanendo però oscuro, au­gurandomi nel frattempo di scorgere in quell’infernale andiri­vieni qualcuno dei più famosi, che so, Ginsberg o Evtušenko, con la paura ben celata di non essere probabilmente neanche capace di riconoscerli, avendoli visti pochissime volte, o forse persino mai, in fotografia, forse molti di loro davvero mai, insisto, all’epoca tutte le immagini degli scrittori che circolano oggi sulle quarte di copertina e nelle riviste letterarie non si usavano, e credo di essermene creato un’immagine a mio uso e consumo, più fedele alle loro opere di quanto i loro volti non saranno stati né forse saranno mai. Di Ginsberg avevo visto da qualche parte la pelata e gli occhiali, da questo avrei forse potuto riconoscerlo, chissà, ma di Evtušenko o Ferlin­ghetti, mettiamo, neanche mezzo segno caratteristico, e quindi pazienza, mi sarebbero passati davanti e non me ne sarei nemmeno accorto, tanto peggio, del resto cosa cambiava, cos’avrei potuto ricavare da quel loro passaggio, o cos’avrei potuto dir loro di sensato, niente, evidentemente, tutt’al più una frase imbecille come quella che avevo proferito appena qualche mese prima, in primavera, davanti a Lindsay Kemp, a quei tempi un altro mostro sacro, dopo Flowers o Salomé, uno dei due spettacoli che allora portava in giro, e nei camerini la dissi, la mia frase storica, in perfetto inglese per far colpo sulla ragazza che accompagnavo (e che non aveva nulla dell’anima gemella, come non avrei tardato a scoprire), e in subordine su mia sorella piccola che non so perché era lì con noi anche lei – anzi in realtà lo so, m’è tornato in mente, lo spettacolo non era affatto uno di quelli appena menzionati, ma uno show per bambini e adulti rimasti tali e si chiamava Mr Punch –, forse per una specie di mascheramento delle mie reali intenzioni nei confronti della fanciulla, tipo porto con me a teatro la mia so­rellina piccola così non pensi che ci voglia provare con te, non subito almeno, ci siamo appena conosciuti, insomma devo aver detto qualcosa di sfrontato e ridicolo, la vergogna ha can­cellato in seguito dalla mia mente le parole esatte, com’è giu­sto che sia, ma era qualcosa del tipo “sono onorato di cono­scerla, caro Kemp, lei ha tutta l’ammirazione di noi giovani poeti italiani”, dove l’enfasi stava ovviamente su quel “noi” e su quel “poeti”, il combinato disposto, per dirla in termini giu­ridici, e siccome la frase l’ho pronunciata in inglese (non solo per rendermi più interessante, ma anche per farmi capire dall’illustre mimo, che intanto mi squadrava con una certa cu­riosità), dubito fortemente che la ragazza, Claudia o Francesca o Simona o chissà come altro si chiamava, abbia inteso una sola parola, e men che mai quella fatidica, “poeta”, e ancor meno che l’abbia messa in relazione con il tronfio me di allora (e se l’ha capita si sarà magari guardata intorno per scoprire con chi mai ce l’avevo), fatto sta che dopo averla accompa­gnata a teatro l’ho vista forse un paio di volte ancora e la cosa è finita lì, a prescindere da Kemp e dalla mia possibile figurac­cia con lei (con Kemp invece sicura, mentre con mia sorella no, non penso, era troppo piccola per rendersi conto), in defi­nitiva, anche se me ne vergognavo e non l’avrei mai ammesso, in quegli anni ero a caccia di celebrità, anche se solo di un cer­to tipo, scrittori, poeti, registi, attori, mimi, musicisti che piac­ciono alle avanguardie, non mi sarei mai perso, che so, dietro a un Baglioni, semmai mi sarebbe stato più congeniale uno Stratos, o magari Luigi Nono, che mi era tristemente familiare, familiare strictu sensu, diciamo, perché avevo aiutato i miei geni­tori a tradurre un testo critico per il disco del melodramma Al gran sole carico d’amore, ricordo solo che trattava della Comune di Parigi in modo, mi pare, piuttosto agiografico e dunque fal­so, ma era di gran moda andare a sentire le opere di Nono senza capirci niente e fingendo di apprezzarlo, faceva tanto intellettuale (non necessariamente di sinistra perché non si sentiva alcun bisogno di specificarlo, l’intellettuale non poten­do essere altro per definizione), in ogni caso il testo fu respin­to ai mittenti con una certa durezza e peraltro mai pagato dalla casa discografica per indubbia ignoranza, da parte dei tradut­tori, di qualunque base musicologica, e fu, quella, anche, la prima percezione che ebbi, immediata e palpabile, dell’alea perpetua che governa la vita del traduttore, immerso nel suo bagnomaria d’imperizie e di approssimazioni, perché per poter tradurre con un minimo di cognizione di causa è troppo (e questo vale per chiunque) tutto quel che bisogna sapere, co­noscere, approfondire, come avrei scoperto faticosamente nel corso del tempo e seguendo il filo di repentine dislocazioni spaziali.

L’appuntamento dev’essere stato per il primo pomeriggio, il caldo era asfissiante, la ricerca dell’ombra la prima preoccupa­zione di chiunque, di tutti quelli che ciondolavano, senza saper bene cosa fare, intorno all’hotel, oltre alla necessità assoluta di evitare i nugoli di mosche che imperversavano, mentre la sera quello sarebbe diventato senz’ombra di dubbio il territorio di malefiche zanzare, pensai, per le zanzare io sono sempre stato una preda ambita, quale che ne sia la ragione, sangue partico­larmente dolce o altro, e sapevo di dover fare attenzione pro­prio nei posti in cui invece i miei coetanei si recavano senza timori, ma io no, ero diverso, tutta la mia infanzia, anche la­sciando da parte le zanzare, si è svolta all’insegna della malat­tia, ero per certi versi più delicato e cagionevole degli altri fin da piccolo, fin dalla complessa operazione alle tonsille da cui ho rischiato di non risvegliarmi, assurta in seguito a mito fami­liare, un mito che non è venuto meno neanche in seguito, quando la drammaticità dell’intera questione si era già stempe­rata in una lunga dieta a base di gelati, all’epoca e non so se ancora oggi vera e propria cura e strumento di recupero e convalescenza dopo una tonsillectomia, ma da quei momenti ne era passato di tempo, e adesso avevo parcheggiato la mia magrezza su una specie di steccato che separava lo spazio per così dire privato dell’albergo da quello pubblico e lasciavo ciondolare le gambe in attesa che qualcuno si decidesse ad ar­rivare, sperando che la mia puntualità teutonica non risultasse come sempre inutile e perfino un po’ sospetta, come se uno volesse rinfacciarla al resto del mondo, a mo’ di rimprovero perché gli altri non riescono mai a essere altrettanto precisi, ma da questo non mi è riuscito di guarire né allora né mai, continuo a essere puntuale, anzi talvolta a farmi violenza per non essere in anticipo sui tempi concordati, quasi che questi tempi li condividessimo veramente e non fossero in fondo un’interpretazione alquanto libera che ne dà ciascuno di noi. Ma se anche i poeti che dovevo incontrare quel 28 giugno fos­sero stati, in quanto tedeschi, altrettanto puntuali, io, non avendoli mai visti in fotografia, non avrei comunque potuto saperlo, magari erano lì, stravaccati sui divani della hall, a con­versare amabilmente tra di loro cercando di scacciare un caldo cui non erano abituati, in attesa dell’oscuro germanista che avrebbe dovuto accoglierli e che – ne ero certo – non s’era ancora visto, impelagato in chissà quale riunione o seminario, senza a loro volta sapere nulla di me, di un giovanissimo tra­duttore che doveva incontrarli e farsi dare i loro testi – perché naturalmente li ignoravo, non ne avevo mai letto una sola riga, salvo per il più anziano e famoso tra loro, presente anche nelle antologie che usavamo a scuola –, poi tradurli al volo e leggerli al pubblico al momento dell’esibizione, anche se questo non lo sapevo ancora, perché nessuno me l’aveva chiesto esplici­tamente. Oggi ho motivo di ritenere che nella loro buonafede e fiducia nel prossimo, anche se mediterraneo e dunque inaf­fidabile per definizione, avranno pensato che tutto questo la­voro, in effetti preparatorio, fosse stato già fatto da tempo, che di tutto ciò si fosse occupata l’organizzazione del festival, magari al momento di scegliere proprio loro e di invitarli, si fosse curata cioè della scelta dei testi e della loro traduzione in italiano, e non certo che tutto fosse ancora da cominciare, da discutere e da organizzare.

Ma la verità è che non so come questa scelta fosse avvenuta, in base a quali criteri e alle raccomandazioni di chi, non certo del germanista che mi aveva reclutato e dalla cui perplessità traspariva chiaramente che non sapeva proprio chi fossero, quei quattro, salvo sempre il più anziano e famoso, ma gli altri proprio no, non li conosceva neanche lui, uno del resto era un poeta che si muoveva nella scena underground di Berlino, un altro era autore di poemi criptici ispirati a Ovidio, di cui aveva ripercorso le vicende autoesiliandosi per un periodo sul Mar Nero, senza che fosse troppo chiaro perché e chi ce lo avesse mandato, un terzo scriveva prevalentemente versi politici e faceva in qualche modo il verso al più anziano e famoso, o sarebbe più corretto dire che si iscriveva nella stessa tradizione poetica e a lui liberamente si ispirava, insomma nessuno di loro si era fatto ancora un nome, e se il più anziano qualche riconoscimento non secondario l’aveva ricevuto, gli altri nien­te, vivacchiavano sulla scena letteraria e teatrale delle rispettive cittadine di provenienza, senza aver ancora realizzato il Durch­bruch, lo sfondamento delle linee del nemico, l’imposizione del loro nome e della loro opera al grande pubblico che avrebbe potuto e dovuto consacrarli. Il caldo si faceva intanto sempre più intenso e totalitario, sudavo sotto la mia camicia a mani­che corte e a quadretti bianchi e blu, tipo camicia da boscaio­lo, per intenderci, salvo che era di un cotone leggerissimo che avrebbe dovuto lenire la malignità di quella canicola, e forse ci sarebbe anche riuscito, non fosse stato per i jeans che all’epoca mettevamo sempre, in tutte le stagioni e con qualun­que temperatura, vera martoriante uniforme, ed era quindi dalla parte bassa del corpo, sotto quel cotone ruvido e troppo pesante, che mi proveniva quella sensazione spiacevole di tor­rido e appiccicaticcio, ragion per cui sudavo abbondantemente nonostante tutti i miei sforzi di mantenermi invece candido e profumato, e nemmeno stare all’ombra serviva più a molto, anzi perfino l’ombra dava ormai un’impressione di calore, di vago ma persistente malessere.

Fu allora che sbucò uno strano ometto, alto forse un metro e settanta, rotondo e leggermente traballante, con una camicia bianca su cui, sprezzante del pericolo d’insolazione, portava un gilet nero, come tutto nero era anche il cappello, un bel cappello da clown, pensai, adatto all’approssimazione e alla provvisorietà di quegl’istanti, e capii immediatamente che non poteva che essere uno dei miei poeti, quella gioiosa trasanda­tezza da intellettuale alternativo sembrandomi tipica di una certa scena off, e in particolare, chissà perché, berlinese. Mossi verso di lui pensando che probabilmente avrei dovuto sorreg­gerlo, visto che barcollava vistosamente, e questo non poteva che essere un altro segno, la troppa birra (o vodka) bevuta lo denunciava immediatamente come tedesco o forse russo, ma la scelta un po’ civettuola dei colori e il fatto che la camicia fosse tutta allacciata, tranne l’ultimo bottone, quasi a serrargli il collo taurino, mi fece propendere per la prima ipotesi, che fosse cioè uno dei quattro moschettieri, a prima vista e proba­bilmente il più simpatico, il più accomodante. Credo che an­che lui, scorgendomi là fuori in attesa, abbia pensato che ave­vo un’aria non troppo estranea, che i miei lineamenti e i capel­li biondi gli risultavano vagamente familiari, e quando poi a mo’ di tentativo mi rivolsi a lui in tedesco non ebbe più dubbi, dovevo essere proprio io il famoso traduttore che gli avevano descritto come giovane, sì, d’accordo, ma non uscito diretta­mente dalla culla. Sia come sia, e mettendo fra parentesi la prima impressione che deve aver avuto di me e di cui non sa­prei dire, perché anche in seguito non ne abbiamo più parlato, io gli mossi incontro per un moto spontaneo di simpatia, qua­si che, chiunque lui fosse, avessimo qualcosa da spartire, non foss’altro che per il fatto di starcene là fuori alla mercé del so­le, mentre dentro all’albergo, pur privo di aria condizionata, le condizioni climatiche generali dovevano essere di gran lunga migliori. Lui allora si presentò, molto più compito di quanto l’abbigliamento lasciasse presagire, ma anche questo non è che un riflesso del rispetto per le apparenze e le forme che ogni tedesco, per quanto alternativo, per quanto si senta egli stesso pecora nera del suo paese e del suo popolo, non può non provare, e io naturalmente feci lo stesso, tirando fuori di tasca al contempo una delle Gitanes che all’epoca mi accompagna­vano sempre e che avevano la funzione precipua di tenermi occupate le mani e darmi qualcosa da fare quando mi sentivo in imbarazzo. Lui capì che volevo offrirgliene una, cosa che per inciso sarebbe stato cortese fare, ma che non mi era passa­ta minimamente per la testa, e rifiutò con un cenno gentile, quasi con una certa condiscendenza, come se la sigaretta (quelle sigarette, poi, con il loro pesante carico di catrame) gli sembrasse incongrua tra le mie dita, da poco uscite dall’adolescenza. I capelli biondi lunghi gli scendevano a sini­stra e a destra sotto il cappello, e al centro, dove non se ne vedevano, scorsi qualche goccia di sudore, mentre lui sorride­va e strizzava leggermente gli occhi feriti dal sole e tra noi cominciava una conversazione spezzettata che adesso, a di­stanza di tanti anni, sarebbe arduo e forse anche inutile rico­struire, ma che doveva vertere, ne sono certo, su tematiche serie e ponderose come le facoltà di sopravvivenza dell’arte e della cultura in una civiltà asservita al mercato nonché le scar­se possibilità concrete per qualunque poeta straniero, a mag­gior ragione se tedesco, di farsi intendere quella sera stessa, o la successiva, a seconda dello spazio che i sapienti organizza­tori gli avrebbero assegnato, da un pubblico che delle sue pa­role non avrebbe capito verosimilmente un accidente. All’epoca ero ancor meno interessato alle cerimonie di oggi, adesso sembrandomi esse semmai curiose e degne di atten­zione sotto il profilo antropologico, ma da giovani si è molto più radicali, e sono quindi piuttosto certo di non aver detto nulla di relativizzante, che potesse fargli cambiare idea, o im­pressione, semmai avremo parlato della traduzione dei suoi componimenti e del fatto che qualcuno, magari l’insigne ger­manista che l’aveva invitato, sarebbe dovuto salire sul palco con lui per leggerli in italiano subito dopo, in modo e maniera che il pubblico non si stizzisse troppo, non essendoci noto­riamente nulla di peggio di un pubblico che si senta colto in castagna, ad esempio per l’ignoranza delle lingue o delle forme espressive in uso altrove, come avrebbe dimostrato in seguito il successo – ma ora anticipo, e non dovrei farlo – dei soli show-men americani, gli unici ad ammannire allo spettatore beo­ta un ritmo e un rituale che questi si aspettava, che rientrava nel suo misero orizzonte d’attesa.

  1. Continua
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