Giuliana Vitali
Cronache dall'Italia sospesa

Il turista

«Dobbiamo tornare a casa. E poi senti la tosse di quello nell’altra cella? Ha pure la febbre alta. È positivo al virùs e ai piani alti non ce lo dicono perché ‘o sanno che poi facimm ‘o burdello – fa l’uomo»

Immagini di Roberto Cavallini

– ‘O turì, tu non vieni ai colloqui? – fece l’amico di cella mentre oltrepassava a passo lento il blindo appena aperto dalla guardia. Così chiamavano Amadeo, il turista, perché dentro ci sarebbe rimasto per pochi mesi, al massimo un anno se si fosse disintossicato per bene.

– Mo’ vengo – rispose. Se ne stava sdraiato con le mani dietro al collo, sulla brandina al piano superiore del letto a castello, con gli occhi che fissavano il vetro della finestra che dava sul quadrato recintato dell’ora d’aria. Pareva il campo di calcetto dove giocava da ragazzino, a due passi da casa, ma quello era più grande, c’era pure l’erba finta e s’affacciava sulle colline dei Camaldoli.

– Nun ci pensà! – diceva il secondino strizzandogli l’occhio e abbozzando una mezza risata di scherno – Vedi che ti stanno aspettando, ci sta tua madre.

Gli lanciò una delle mascherine verdi da infermiere, arrivate la mattina stessa nell’istituto – anche se non sarebbero bastaste per tutti –  viste le ultime disposizioni del Governo sull’emergenza Virus. La guardia appoggiò appena le labbra all’orecchio dell’altro uomo sussurrando qualcosa che Amedeo non riuscì a intendere. Poi una pacca sulla spalla, l’incontro di sguardi come a stringere un patto.

Amedeo fece per alzarsi e appena in tempo si ricordò, prima di mettersi seduto sulla brandina, di tenere la testa a uncino per non colpire il soffitto. Poi saltò giù scansando con agilità il piccolo tavolo, le scarpe del vicino di letto. Intanto si infilava – un po’ goffo – la mascherina sul naso aquilino che quasi pareva deformare la faccia magra.

– E il metadone quando ce lo date? – chiese all’agente che però non disse una parola.

Adesso erano in fila per entrare uno alla volta nella grande sala colloqui. Non aveva voglia di vedere la madre, anzi lo infastidiva pensare che stavolta si sarebbero trovati da soli, l’uno di fronte all’altro, senza il ronzio delle voci intorno degli altri detenuti e delle loro famiglie, il trapestìo delle loro scarpe, lo scricchiolare delle sedie, il rumore delle buste di plastica mentre preparavano i tavoli con snack e bevande analcoliche. Cominciò a sudare, si strofinava la fronte con le dita mentre qualche gocciolina cadeva sulla tuta nera e per terra. La nuca formicolava, sentiva come un peso costante sul basso ventre dove l’elastico dei pantaloni si appoggiava largo.

– Avanti, tocca a te – gli fece la guardia dandogli un colpetto sulla schiena e un po’ spingendolo verso la porta d’ingresso.

La madre l’aspettava seduta sulla sedia di metallo con la nevrosi negli occhi di un azzurro smorto con le venuzze rosse e che si muovevano a destra e a manca come a rincorrere la luce di un faro. La bocca era protetta dalla mascherina tenuta ben stretta al mento e alla mascella. Strofinava il dito sul banco, con i guanti bianchi in lattice, pareva volesse cancellare la pittura verdognola che lo rivestiva.

Appena Amedeo si avvicinò il puzzo di lattice gli salì al naso – pure la bocca sua era coperta ma gli odori lo stesso li sentiva – e subito dopo essersi seduto l’odore si mischiò alla naftalina del vestito blu della donna che le arrivava a mezza gamba. Quella finalmente fermò gli occhi, facendoli riposare sulle mani del figlio. Lui subito le ritrasse.

– Ueh ammammà, e che è successo? Stai sciupato. Ti trattano bene qua, o no? ‘U magnà t’o danno?

– Sì sì mà, non ti preoccupare. Nun abbià a me fa’ venì l’ansia. Per piacere. E poi non ti avvicinare troppo. Dobbiamo stare a un metro di distanza – fa il ragazzo, tirandosi un po’ indietro con la sedia.

– Ma nun ‘o vire come sto tutta bardata? Pare ‘e stà ncoppa a neve. ‘E guardie m’hanno fatto pure ammisurà ‘a frève ma io per precauzione m’aggia pigliata a tachipirina primma ‘e ascì. L’altro giorno  nu cristiano è dovuto tornare indietro perché tenév qualche decimo. Trentasetteeddue m’ pareve.

Amedeo intanto continuava a tamburellare con il piede sul pavimento mentre la madre parlava, parlava. Non gliene fregava un cazzo della cugina rimasta incinta e il suo terrore che la creatura potesse nascere col virus o degli audio che giravano su whatsapp di complottismi politici sul contagio e delle notizie rivelatrici su imminenti scenari apocalittici. E poi tutta la giaculatoria sulla mancanza di entrate di soldi a casa. La voce della donna rimbombava in modo curioso, quasi comico, come se fosse sott’acqua. Ogni tanto lui tossiva ma non per malattia, era una tosse nervosa che gli serviva per respirare meglio, per buttare fuori il senso di oppressione alla pancia. Non sopportava la madre, a lei interessavano i soldi che lui portava a casa con qualche lavoretto che ogni tanto lo facevano finire lì dentro. E lei lo sapeva, lo sapeva cazzo che da quattro anni il figlio non solo vendeva l’eroina ma se la sparava pure nel braccio e nei polmoni. Eppure la gente del quartiere la rispettava, era una donna con le palle ché si era cresciuta sei figli tutta da sola.

La stanza era mezza vuota, solo qualche foglio plastificato d’avviso sulle pareti – Vietati baci e abbracci. È vietato togliersi la mascherina. Rispettare l’orario e il tempo di visita – e un debole fascio di luce colpiva il muro di fronte alla finestra disegnandolo di striature nere e gialle. Smaniava dalla voglia di andarsene, di tornare in cella e aspettare il turno per la dose di metadone. Ogni tanto buttava un occhio sull’orologio e i minuti sembravano non passare mai.

Ecco che la porta si aprì.

– Finita la visita! Forza, torniamo dentro – fece la guardia.

– Arrivederci mammà – e subito Amedeo si diresse frenetico verso l’uscita. Aveva lo stimolo di pisciare.

– Ti amo troppo, arrivederci  figlio mio! Ah! Domani sento l’avvocato e vediamo che ci dice…

Appena rientrato in camera l’agente gli intimò di lavarsi le mani. Ma il sapone era finito, la saponetta era diventata sottile e asciutta come un’ostia.

– Eheh, il nostro turista non c’ha il cash per comprare! Turì, devi fare la domandina! – esclamò il vicino mentre si sfilava le scarpe da ginnastica seduto sulla branda. Amedeo tornò a stendersi sul letto ma proprio non riusciva a stare fermo, forse la posizione più comoda era a pancia all’aria con il braccio sinistro disteso sul cuscino sopra alla testa. Pareva che così il respiro affannoso diminuiva, la circolazione si faceva fluida e portava più ossigeno al cuore e al cervello.

Turì, preparati che forse domani usciamo. Lo sai che mi ha detto la guardia? Oggi erano le ultime visite per colpa del virùs. Sti cinesi di merda! Domani saliamo sul tetto e là restiamo. Scioperiamo e se è necessario sfasciamo tuttocose. ‘E guardie ‘o sanno. Ci siamo organizzati. Dobbiamo tornare a casa. E poi senti la tosse di quello nell’altra cella? Ha pure la febbre alta. È positivo al virùs e ai piani alti non ce lo dicono perché ‘o sanno che poi facimm ‘o burdello – fa l’uomo.

Amedeo continuava a guardare il soffitto senza dire una parola.

– E che fai? Non rispondi? Non sei dei nostri?

– Sì – rispose secco chiudendo gli occhi.

Fu svegliato dal secondino che gli fece ingoiare rapidamente la dose serale di metadone. Pochi minuti e sentì la testa galleggiare nel buio intorno. Il battito regolare e i pensieri, gli accadimenti della giornata adesso parevano trovare un ordine ben preciso. Domani tutti gli altri avrebbero preso d’assalto il carcere o almeno i ragazzi del padiglione Firenze. Volevano l’indulto, i domiciliari e non morire come topi. La sommossa sarebbe partita nella sala ricreativa-didattica, prima dell’ora di pittura. Anche lui avrebbe fatto parte di quella giornata memorabile.

La mattina dopo Amedeo se ne stava ancora assonnato, seduto vicino alla piccola finestra nella sala mensa. Fuori, solo una lingua di cemento che divideva dall’altro padiglione di fronte. Beveva il caffè della macchinetta che era buono ma troppo dolce, a casa era solito prenderlo amaro. Subito dopo la colazione e l’abituale sigaretta, Amedeo si diresse insieme agli altri verso la stanza ricreativa e proprio lì davanti d’improvviso si levarono fischi e urla d’incitazione. Le guardie si svincolavano, si allontanavano dalla calca mentre i detenuti presi dalla furia, staccavano via i piedi delle sedie da usare  come bastoni.

– Sul tetto! Sul tetto! – gridavano. Amedeo invece non riusciva a muovere un passo e si ritrovò da solo nella saletta didattica. Lo scalpiccìo cominciava a farsi più lontano. Ma altre voci provenivano da fuori, dall’entrata dell’istituto. Le famiglie dei detenuti – le donne soprattutto – erano  lì sotto a chiedere libertà, indulto e arresti domiciliari perché la pena dei loro uomini doveva essere scontata a casa con loro, al sicuro. Gli parve che anche la madre gridasse il suo nome:

– Amedeeeeo! Aro’ staie? Amedeeeeo!

Eppure quel richiamo – che via via si faceva più chiaro –  non lo rafforzava, più ascoltava e più voleva che si disperdesse tra le altre voci, i rumori. Ma quello insisteva:

– Amedeeeeo! Amedeeeeo!

D’un tratto ritrovò vigore nelle gambe che prima barcollavano e si lanciò sui barattoli d’acrilico posizionati in ordine, in orizzontale uno vicino all’altro, sul tavolo di lavoro. Con la spatola toglieva via i tappi e poi immobile davanti alla tela ocra appoggiata sul cavalletto. Con la mano raccolse la pittura rossa e cominciò a stenderla col palmo su tutta la tela, con lentezza. Poi con le dita dipingeva dei puntini blu e gialli per cercare la luce, cerchi concentrici che via via si facevano sempre più ampi e intensi che quasi parevano bruciare la tela. Intanto il fischio delle sirene si faceva sempre più vicino. La voce giovane al megafono della torretta intimava ai detenuti di ritornare nelle proprie stanze, la polizia stava arrivando. Amedeo accese una sigaretta, la fumava seduto con le gambe incrociate davanti al suo lavoro. Poi si accostò e col mozzicone bucò la tela proprio al centro. La guardava con gli occhi pieni di lacrime mentre afferrava il barattolo della pittura nera e con tutte e due le mani, i polsi continuava a strofinarla sui colori finché scomparvero del tutto. Accese un’altra sigaretta e di nuovo si accovacciò per terra. Gli sembrò ancora una volta di sentire la madre gridare il suo nome:

– Amedeeeeo! Aro’ staie? Amedeeeeo!

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