Raoul Precht
Periscopio (globale)

Istanbul a Roma

Si può parlare di una mostra chiusa per coronavirus? Sì, se per raccontare la Istanbul di Ara Güler ci si può appellare al libro di Orhan Pamuk che alle immagini del grande fotografo fece quasi da controcanto

Di passaggio per Roma, nelle scorse settimane sono riuscito davvero per un caso fortunato a vedere, al Museo di Roma in Trastevere, le suggestive fotografie di Istanbul scattate da Ara Güler durante la sua lunga carriera di fotografo. In altri tempi, voler condividere l’esperienza con il lettore sarebbe stato un riflesso normale. Ma, abbrancati dalle spire del coronavirus che ora ci obbliga tutti a un’estenuante reclusione, la normalità sembra davvero sospesa. Mi sono chiesto a lungo se fosse il caso, malgrado tutto, di scrivere di una mostra purtroppo sbarrata, di cui il lettore non può fruire; poi mi sono detto che vale comunque la pena lasciare almeno una traccia di un piccolo evento riservato per forza di cose a pochi fortunati, per il quale fra l’altro, non essendo stato previsto alcun catalogo, la documentazione è scarsa. Racconterò quindi per sommi capi di una mostra off limits, teoricamente allestita ma inaccessibile, che difficilmente tornerà a esserlo prima della scadenza, fissata al 3 maggio. Non si sa nemmeno se dopo essere state esposte a Londra, Parigi, Kyoto, New York e appunto Roma, le immagini raggiungeranno Mogadiscio, tappa finale del tour, e potranno esservi esibite.

Al Museo di Roma è (sarebbe) esposta una selezione minuscola, appena un’ottantina di foto, dell’immensa produzione del fotografo, il cui archivio è stimato a circa ottocentomila immagini (ma c’è chi parla anche di ben due milioni di scatti). A parte qualche bel ritratto di personaggi famosi, si tratta in gran parte di fotografie di Istanbul, città natale con cui Güler viveva in rapporto simbiotico e alla quale ha dedicato praticamente tutta la sua attività. Nato nel 1928 e morto novantenne, primo corrispondente di Time-Life per il Vicino Oriente, socio dell’Agenzia Magnum – all’amico Cartier-Bresson riconoscerà una forte influenza sulla sua opera –, insignito del titolo di Master of Leica, macchina fotografica con cui scatta negli anni Cinquanta e Sessanta i ritratti più suggestivi della sua città, Güler è un fotografo che piace a tutti, alle persone comuni quanto a intellettuali raffinati. Fra questi va senz’altro ricordato il concittadino Orhan Pamuk, che nel 2003 con le foto di Güler costruirà una specie di controcanto alle sue memorie cittadine nel volume Istanbul. Del resto, Pamuk non è né il primo né l’ultimo: fin dagli anni Sessanta Güler ha collaborato solertemente con decine di autori, a mano a mano che il suo nome si affermava quale vero e proprio “occhio di Istanbul” e massimo interprete della street photography nel paese. Monumento vivente di Galatasaray, negli ultimi decenni della sua vita Güler ospiterà nel distretto di Beyoğlu, da proprietario delle mura, anche l’Ara Kafé, una semplice caffetteria tappezzata di sue fotografie, dove lo si poteva incontrare molto spesso e dove erano messe a disposizione gratuita dell’avventore cartoline postali che riproducevano le sue più famose immagini.

Vista l’inaccessibilità della mostra, il primo invito al lettore è quello di procurarsi almeno il libro di Pamuk, edito in Italia da Einaudi, da cui prenderemo le mosse. Non c’è luogo, dichiara Pamuk, in cui la Istanbul in particolare di quei due decenni, appunto gli anni Cinquanta e Sessanta, sia meglio documentata, preservata e custodita delle fotografie di Güler, il quale, con immagini apparentemente anodine e oggettive, vero spaccato della vita reale, riusciva a dare implicitamente un’idea anche delle condizioni di vita, spesso difficili o addirittura miserabili, della popolazione. Quanto allo stesso Güler, egli parla della propria fotografia come di un momento magico, catturato e trasmesso alle generazioni future, ma solo per creare una documentazione oggettiva, ed enfatizza la dimensione documentale e giornalistica (o, se si preferisce, mimetica), escludendo pertanto qualunque velleità artistica. Güler era convinto, e non per falsa modestia, di non essere un artista, ma un semplice testimone, e ha mantenuto questa posizione con una certa testardaggine, benché con gli anni diventasse sempre più evidente il contrario, come anche Pamuk finirà per riconoscere implicitamente nel suo libro. In altre parole, Güler si considerava uno storico che aveva scelto l’immagine come mezzo di documentazione più che d’espressione, un fotoreporter impegnato anzitutto a scoprire e descrivere il mondo che lo circondava, forse addirittura un antropologo – e questo spiegherebbe la preminenza della presenza umana nelle sue foto – mandato a documentare le più diverse forme di vita sociale. Va aggiunto però che, a differenza di altri fotografi coevi dall’approccio più “istintivo”, Güler era uno che leggeva e si documentava, uno che dava un’enorme importanza alla cultura, ed è questo un altro elemento che spinge a maneggiare con cautela le sue professioni di modestia. La fotografia, diceva infatti Güler, non è solo questione di uno scatto, più o meno fortunato, ma richiede preparazione, studio, conoscenza del mondo: perché il mondo che fotografiamo anzitutto va capito.

Con il passare degli anni, e soprattutto a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, la percezione generale della sua fotografia è cambiata, ha assunto sfumature che Güler stesso forse non aveva previsto. Le sue immagini sono diventate cioè emblemi della nostalgia, nostalgia di un’epoca e parallelamente, in quell’epoca ormai per sempre tramontata, di una città che come tutte le grandi metropoli è stata sventrata e distrutta per far posto all’illusione e alle esigenze della modernità. Né poteva essere altrimenti: nelle immagini di Güler, nella sua stessa tecnica di presa fotografica, non manca mai quello che i turchi chiamano lo hüzün, un senso di profonda malinconia che forse potremmo apparentare alla saudade – con qualche distinguo, perché anziché essere individuale è collettivo e riguarda dunque l’intera città – e che caratterizza un po’ tutte le sue immagini, in particolare quelle che tra i loro protagonisti annoverano l’acqua, le barche, le navi. Si prenda a titolo d’esempio solo la foto che documenta il rientro in porto dei pescatori del quartiere di Kumkapi alle prime luci dell’alba, con un marinaio in primo piano in giacca e cravatta e con l’eterna sigaretta fra le labbra, seguito da altre barche più piccole in una processione apparentemente interminabile. O quella del marinaio in precario equilibrio su un’ancora, impegnato, sembrerebbe, a dipingere la fiancata della nave. Immagini che nella mostra sono ben presenti e che con la loro caratteristica sgranatura contribuiscono alla creazione di una caratteristica aura d’incertezza e d’innocenza.

Il paradosso è che questa riscoperta in senso rievocativo delle immagini di Güler può essere datata al 1993, quando Istanbul divenne capitale della cultura e il governo turco diede il via a una serie di eventi celebrativi, fra i quali anche un’esposizione dedicata al fotografo più rappresentativo del paese, per presentare ai turchi stessi e naturalmente al mondo la storia e le memorie della città, in una fase di sviluppo globale che avrebbe presto portato a un’insanabile dicotomia con la capitale moderna, Ankara, rispetto alla quale Istanbul risultava irrimediabilmente sporca e decadente. In altre parole, l’intenso sfruttamento commerciale che da quel momento sarà fatto dell’opera di Güler risponderà anche a delle esigenze sociopolitiche, cui non è estraneo il tentativo di ricreare una mitica verginità e innocenza della città, prima dell’esplosione demografica dovuta all’innesto di masse di contadini provenienti dalla disprezzata Anatolia. Nella vulgata dell’epoca sono questi cittadini incolti di serie B a impedire la modernizzazione della città, mentre restano in secondo piano le condizioni di vita cui erano costretti dalle pesantissime condizioni di lavoro vigenti. Molto meno diffuse saranno infatti, non a caso, le fotografie che Güler aveva scattato in altri reportages in cui appunto ritraeva le condizioni di vita dei più sfortunati e la decadenza dei quartieri, sebbene conservando sempre un approccio volutamente oggettivizzante e scevro da qualunque impegno politico immediato.

Quale che sia l’angolazione critica prescelta, si tratta in ogni caso di un fotografo che ha mantenuto per tutta la sua lunghissima carriera un’invidiabile coerenza interna, producendo per accumulo e sovrapposizione d’immagini un omaggio alla sua città paragonabile forse, nella storia della fotografia, solo a quelli rivolti a Parigi da Doisneau e Boubat. Nei suoi volumi di fotografie, e in  particolare in Istanbul smarrita, come scrive Orhan Pamuk “ha evidenziato, con una sensibilità molto poetica, il tessuto particolare della città nato dal declino della pomposità del passato e degli edifici statali, opere dell’occidentalizzazione ottomana, (…) sottolineando la stanchezza, l’invecchiamento e la tristezza della città.” Per parafrasare un altro famoso titolo di Pamuk, Güler allestisce con le sue immagini in bianco e nero un vero e proprio “museo dell’innocenza” dedicato, con controllata equanimità e ispirata partecipazione, alle varie anime di Istanbul.

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