Leopoldo Carlesimo
L'ultima parte del "Primo invaso”

Crisi alla diga

«Nei giorni successivi le perdite non fecero che aumentare. L’acqua saliva, a monte, e le falle aumentavano, sia in numero che come portata complessiva. Ormai erano sopra i settecento litri al secondo»

Riassunto della prima parte. A Roghùn, Tajikistan, dove è in corso di costruzione la diga più alta del mondo, Linaldo, capocantiere della diga, è alle prese con tre problemi. Sul lavoro, le perdite d’acqua che appaiono sul paramento di valle della diga, durante il primo riempimento del lago; situazione complicata dalla rivalità con Furio, direttore della diga e suo capo diretto. Nel suo matrimonio con Esther, che lavora anche lei in cantiere, in magazzino, e con cui da vent’anni a questa parte ha un rapporto coniugale complicato da periodici tradimenti e cicli ripetitivi di allontanamento e riavvicinamento; in questo momento, pur vivendo insieme, Linaldo ha un’amante tra le segretarie d’ufficio, Sonja, ed Esther ne ha uno tra i suoi dipendenti di magazzino, Rachid. E nella sua passione per la caccia, che coltiva da sempre in tutti i luoghi in cui si è trovato a costruire dighe; lì in Tajikistan il territorio di caccia sono le prime alture del Pamir, l’inafferrabile preda è l’argali, una specie di muflone di montagna, e il compagno di caccia è Rachid, l’amante della moglie.

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Le aveva fatto assegnare un alloggio singolo, in una stecca di abitazioni abbastanza appartata, in un’area tranquilla del campo staff, il campo dei quadri locali.

Parcheggiò il fuoristrada sul retro del prefabbricato, perché si notasse meno. L’aveva avvisata di lasciare aperto l’uscio, in modo che non fosse necessario bussare. Così, in pochi secondi avrebbe potuto scivolar dentro.

Queste precauzioni non avevano lo scopo di nascondere la loro relazione. Linaldo non si preoccupava affatto di nasconderla. E per Sonja era un vanto. Servivano solo a spargere un po’ di nebbia in giro, a sfocare i dettagli. Fornire meno particolari possibile, meno terreno di coltura possibile al chiacchiericcio di cantiere, che di dettagli vive. Non che Linaldo ne fosse imbarazzato. Solo, non amava esibire le cose. Nemmeno cose più onorevoli. Non provava nessun piacere a soddisfare la platea.

Fu una visita breve e servì solo in parte. Per una mezz’ora, col corpo di Sonja tra le mani, riuscì a dimenticare la faccenda del cofferdam e tutto il resto. L’inquietudine, l’ansia che montava. Sonja per un po’ allontanava quella roba. Ma la faccenda era lì. Lo scoglio nero. Subito fuori dalla porta di quella stanza.

E mentre aveva quella ragazza sotto di sé, si colse a riflettere d’aver avuto, nel pomeriggio, dopo la discussione con Furio, la tentazione di ripassare in magazzino. E vedere se per caso quella maledetta Nespresso avesse intenzione di riattivarsi. Incombeva anche questo, forse. Un ritorno di bonaccia? Non sapeva se sperarlo o temerlo, ma era nell’aria. Possibile, possibile mai che le sue capacità di previsione fossero così scarse? Così rudimentali? Che dopo tanto tempo, non sapesse ancora coglierne i segnali, essere certo – come lo sono alcuni marinai – che il vento sta per cambiare? Niente, lui doveva aspettare che accadesse. Attendere, avere pazienza. La sua dote peggiore.

Aveva resistito alla tentazione, non era passato da Esther. E adesso era lì, con quella giovane straniera che ansimava sotto di lui, fingendo orgasmi…

Dopo, mentre erano a letto a fumare, non sapeva perché le parlò di caccia, della sua caccia all’argali. Le raccontò dell’ultima battuta con Rachid. Quasi con la sensazione di rompere un patto. Lei s’interessò. Era un argomento, l’argali. Fu lei a parlargli per prima del plov.

“Tu portalo,” aveva detto. “So io a chi farlo scuoiare. Vedrai, sono brava in cucina.

Mentre si rivestiva, le fece promettere che non avrebbe parlato a nessuno di quella faccenda dell’argali. Lei aveva riso, non capiva perché se la prendesse tanto. Era notte fonda quando uscì.

***

Ai piedi del cofferdam era comparsa un’altra risorgenza. Non proprio sull’unghia, stavolta. Un po’ più su. Pessima notizia. L’acqua si faceva strada nel corpo del rilevato, trovava altre vie per infiltrarsi a valle. Non era più solo la polla, lì al piede, che le pompe si sforzavano di asciugare. Un rivoletto d’acqua aveva fatto capolino sul paramento, una decina di metri più in alto.

Chiamò per radio il capoturno. La notte era di turno Vaime, come responsabile del cantiere. Ma Vaime non rispose. Rispose invece Toni, un ragazzotto di appena vent’anni che faceva l’assistente ai movimenti terra. Linaldo gli disse di raggiungerlo ai piedi del cofferdam. Non aveva tempo di cercare quel fannullone di Vaime, né voglia di scoprire dove fosse andato a cacciarsi.

Toni arrivò in meno di cinque minuti. Era un ragazzino, però aveva la faccia sveglia. Linaldo gli mostrò la risorgenza, sul parameto di valle del cofferdam. Gli disse di non muoversi di lì fino all’alba. Di far portare altre torri faro e illuminare bene quel pezzo di scarpata. E di tenere gli occhi aperti, casomai vedesse apparire altre risorgenze, in qualunque punto del paramento. Gli disse anche di predisporre il lavoro per la mattina dopo. Far portare rotoli di geotessile e viaggi di sabbia e ghiaia e roccia, ai piedi del cofferdam. L’indomani avrebbero rivestito quella zona, la zona in cui il cofferdam perdeva.

“Posso cominciare stanotte,” disse Toni.

“No,” disse Linaldo. “Non è un lavoro da fare col buio. E’ delicato. Lo facciamo domattina. Tu fa’ solo arrivare la roba. Prepara e basta. Alle sette, con la luce, lo tappiamo.”

Ora non restava che andare da Esther.

***

Poche ore dopo uscì, prima che facesse luce. Il respiro di Esther, accanto a lui nel letto, era pesante, quasi una sorta di debole russare. Restò in ascolto, mentre abbrancava tastoni, al buio, i panni che aveva ammucchiato sulla sedia e si vestiva silenziosamente. Una novità, quel respiro pesante. Non gli dispiacque scoprire che aveva cominciato a russare. Finito di vestirsi, restò per qualche istante ad ascoltarla.

Non s’era ancora alzato il sole quando arrivò al cofferdam e vide che Toni non aveva solo fatto portare la roba, ma aveva anche già eseguito il lavoro. Aveva fatto tappare la falla. Di notte. Contravvenendo alle sue istruzioni.

Non andò neanche a controllare come l’aveva tappata. Sentì quella rabbia montare, rompere gli argini da qualche parte dentro. E la lasciò sfogare, aprì quella, di valvola. Chiamò per radio Toni, con la voce strozzata e la parlata lenta di quando tratteneva per poco ancora l’ira. Quel tono che in cantiere tutti avevano imparato a conoscere.

Quando Toni arrivò, pochi minuti dopo, Linaldo non gli lasciò il tempo di parlare. Lo aggredì. Lo maltrattò davanti a tutti, alzando brutalmente la voce. Lo cacciò via in malo modo, offendendolo mentre s’allontanava. Toni non ebbe nessuna possibilità di rispondere, di spiegare. Sarebbe stato come tentare di spiegare a un orso. Se ne andò. Strinse i denti. Si vedeva che tratteneva a stento le lacrime. Era un ragazzo.

Solo dopo, Linaldo s’arrampicò sul cofferdam, sul paramento di valle, aiutato da alcuni operai tajiki, e andò a controllare come era stato fatto il lavoro, e vide che era stato fatto abbastanza bene. La falla era turata, l’acqua era incanalata in un sandwitch di geotessile sabbia e ghiaia e veniva drenata a valle, senza erodere il paramento; e la roccia, foderando quel rivestimento dall’esterno, lo sosteneva. Era un lavoro ben fatto. Quel ragazzo aveva voluto prendersi il rischio, disobbedendo.

***

Appena finita l’ispezione al cofferdam, dovette parlarne con Furio. Metterlo al corrente di quella nuova perdita. Avrebbero litigato, probabilmente. Ma stavolta, si disse Linaldo, non avrebbe ceduto; stavolta, cascasse il mondo, non avrebbe ceduto…

Invece lo fece. Le segretarie, dal loro stanzone, sentirono le voci di quei due alzarsi come non avevano mai sentito. La cartapesta delle pareti divisorie tremava, le ragazze in segreteria non sapevano se ridere o spaventarsi… Che strano, riuscì a pensare Linaldo in un momento di lucidità mentre si urlavano addosso, lui e Furio, quasi a conclusione della lite. L’analisi del problema che facevano era identica, tutto il ragionamento filava esattamente sullo stesso binario; ma a un certo punto, poco prima della conclusione, prendevano due strade completamente diverse. E le conclusioni divergevano.

Il cofferdam perdeva, concordavano. Concordavano sulla meccanica e sulle ragioni delle perdite. Ma per Furio l’azzardo poteva ancora riuscire, era una situazione borderline, ma gestibile. Sarebbe stato peggio non continuare. E a Furio, che era il capo, spettava l’ultima parola.

Le discussioni con lui erano per Linaldo – da anni a questa parte, e una volta di più – una delle maggiori fonti di frustrazione nel suo lavoro. Con la sua flemma, coi suoi ragionamenti, col suo superiore senso logico, Furio riusciva sempre a smontarlo. Linaldo ne usciva sconfitto, con una sensazione d’avvilimento dentro di sé e d’impotenza verso l’esterno: avere dalla sua la ragione – perché era convinto di aver ragione – e non riuscire a farla valere.

Se la rifece con Vaime, quello scansafatiche. Lo fece chiamare in ufficio e lo trattò malamente, in modo gelido e sprezzante. Vaime lo meritava, si disse Linaldo, oppure con Vaime se lo poteva permettere. Una delle due, risultato identico. Aveva ingoiato fin troppi rospi, quel mattino.

Lo levò dalla posizione di capoturno. Gli assegnò un’occupazione da nulla, in un infimo angolo del cantiere. Vaime protestò. Ebbe il coraggio di protestare.

“Il capoturno non lo puoi fare,” gli disse Linaldo. “Il capoturno lo deve fare uno che, quando lo cerco, si fa trovare. Tu puoi fare solo qualcosa che, quando ti si cerca, non conta un cazzo se ti si trova o no. Puoi fare solo un lavoro che non conta un cazzo. E’ quello che ti ho assegnato.”

Vaime parlò di demansionamento. Una parola che mandò Linaldo fuori dai gangheri. Lo cacciò dall’ufficio. Fu una giornata vivace, per le ragazze della segreteria. Assistettero a un po’ di movimento.

***

C’era ancora un conto da regolare. Con Toni. Non lo fece chiamare. Andò a cercarlo lui, in cantiere. Lo trovò nelle zone di cava. Era lì che Duran lo aveva mandato, per tenerlo un po’ lontano dalla linea di fuoco, dopo lo scontro del mattino. Duran si diceva che, quando si fosse calmato, a Linaldo gliel’avrebbe spiegato lui che quel ragazzo aveva sbagliato, sì, ma aveva fatto un buon lavoro. Lo conosceva da vent’anni, Linaldo, sapeva come prenderlo, sarebbe riuscito a sistemare la faccenda.

Non ce ne fu bisogno. Linaldo cercò Toni e lo trovò, a bordo del suo pick-up, laggiù in cava. Gli disse che d’ora in avanti si sarebbe occupato lui, Toni, del cofferdam. Visto che ci teneva tanto. Era suo. Era il suo nuovo incarico. Ne avrebbe parlato con Duran. E che d’ora in avanti obbedisse, quando gli si dava un ordine.

***

Nei giorni successivi le perdite non fecero che aumentare. L’acqua saliva, a monte, e le falle aumentavano, sia in numero che come portata complessiva. Ormai erano sopra i settecento litri al secondo. E ne erano apparse altre tre, di risorgenze sul paramento di valle, a quote più alte. L’acqua continuava a farsi strada nel corpo del rilevato e lo erodeva, scavandolo dall’interno. Si apriva via via nuove strade. Quanto erano vicini al crollo, fino a che punto avrebbe voluto spingerlo, Furio, quell’azzardo?

Toni, quel ragazzo, di volta in volta turava le falle. Ormai sapeva come fare. S’arrampicava sulla scarpata, con le sue macchine: dumper escavatori e dozer. Costruiva rampe d’accesso, a tornanti, appiccicate al paramento di valle o alla parete di roccia, per salire fino ai punti in cui sgorgava l’acqua. Rampe così appese che in certi tratti parevano balze verticati quanto i dirupi sui quali gli scappava quel maledetto argali. Ci s’arrampicava cogli escavatori da cinquanta tonnellate, che lì appollaiati, in bilico sul nulla, foderavano le falle con quegli strati multipli di geotessile-sabbia-ghiaia sostenuti da puntoni di roccia – toppe, nient’altro che miserabili toppe – che drenavano l’acqua verso valle e la convogliavano al piede del rilevato, limitando i danni.

Non era una situazione sostenibile, un rischio con cui si potesse dormire. Volle fare un ultimo tentativo con Furio. Se lo ripromise per l’indomani, lunedì. E si sarebbe ben preparato, dati tecnici alla mano, training autogeno e tutto. Si sarebbe battuto fino in fondo, stavolta, avrebbe saputo opporsi; e se Furio si fosse intestardito a proseguire contro la sua volontà, allora… Ma prima, quella domenica, volle staccare di nuovo, volle prendersi un’altra pausa di compensazione, andarsene nuovamente a caccia.

***

Partirono ch’era ancora notte, lui e Rachid, alle prime luci dell’alba erano già in vista dei dorsi rocciosi che precedono il brusco profilarsi del Pamir.

Fine ottobre. Sulle vette di quel tratto d’altopiano, oltre i duemila, erano già cadute le prime nevi. Ma la strada era sgombra e il terreno soffice, non ancora gelato. Cosa rara per quelle valli dal clima generalmente secco e continentale, in fondo ai fossi e lungo i tratti bassi galleggiavano piccoli banchi di nebbia, sul fondovalle ristagnava dell’umidità. Si avvicinavano al territorio dell’argali, il suo habitat autunnale. Là dove la vegetazione diradava e si facevano più frequenti e più ampi gli affioramenti di roccia. Quella fascia di confine oltre la quale gli alberi scomparivano e chiazze d’erba e sterpaglia secca s’alternavano a ghiaioni brulli.

L’avvistarono. Molto lontano. Appollaiato sopra un’altura, fuori dalla portata certa dei loro fucili: un colpo a quella distanza avrebbe forse potuto, con un po’ di fortuna, centrarlo, forse ferirlo, forse perfino abbatterlo; ma avrebbe più probabilmente ottenuto semplicemente l’effetto di metterlo in fuga. E da così lontano non avrebbero mai potuto iniziare un inseguimento, era perduto per sempre. A meno d’averlo ferito, e seguire poi le tracce del sangue.

Non imbracciarono i fucili. Abbassati i binocoli si mossero lungo il sentiero che girava attorno all’altura, cercando di avvicinarsi il più possibile. Arrivati ai suoi piedi, dove il sentiero cambiava pendenza, si divisero. Linaldo avrebbe proseguito in direzione dell’argali, mentre Rachid avrebbe fatto il giro largo attorno alla collina, per portarsi alle sue spalle.

Trascorso il tempo pattuito, Linaldo s’avviò. Cominciò a salire lentamente, tenendosi il più possibile al riparo dei radi tronchi e dei cespugli che ancora punteggiavano il declivio. Più in alto, quei ripari sarebbero scomparsi del tutto e avrebbe avuto solo chiazze d’erba, terreno arido e grigi affioramenti di roccia come campo mimetico.

Ma s’era alzata una leggera brezza e questo era un punto a suo favore. Soffiava dalla montagna, dritta in faccia, e allontanava il suo odore. Mentre era un handicap per Rachid, che saliva dal versante opposto e avrebbe avuto la brezza alle spalle. Con ogni probabilità, l’argali l’avrebbe fiutato. E sarebbe fuggito in direzione di Linaldo, il colpo era suo.

Infatti, pochi minuti dopo, dall’orlo del crinale vide affacciarsi l’argali. I rami delle corna, sopra un masso scuro, poi il muso, il collo – la sua parte più nobile – e tutt’intero l’animale. Era ancora lontano. Linaldo si schiacciò contro il terreno, dietro una balza, e puntò il fucile appoggiando delicatamente la canna a una scanalatura della pietra, cercando di muoversi e segnalarsi il meno possibile.

Non era ancora abbastanza vicino, da quella distanza facilmente l’avrebbe fallito. Però se alle sue spalle Rachid stava ancora salendo il pendio, e presto avrebbe scollinato, con un po’ di fortuna l’avrebbe spinto proprio dalla sua parte. Aspettò, fin quando vide in lontananza qualcosa muoversi tra i cespugli, molto oltre l’argali, lungo il crinale.

Non poteva essere che Rachid. Un movimento quasi impercettibile. L’argali fiutava l’aria, inquieto. A un tratto ruppe in una corsa precipitosa verso valle. I duri zoccoli percuotevano il terreno sollevando piccole nuvole di polvere. Nuvolette chiare, che s’alzavano in leggero anticipo rispetto ai rintocchi della corsa. Correva dritto nella sua direzione, mentre la sagoma di Rachid emergeva dal crinale, oltre il dorso dell’animale in fuga. L’aveva avvistato anche lui, e l’inseguiva, cercando di portarsi a distanza di tiro.

Linaldo prese la mira, tenne per qualche istante nel collimatore la bestia – e alle sue spalle Rachid – respirando sul calcio del fucile e adeguando leggermente la linea della canna agli scarti dell’animale, e quando il bersaglio fu a non più di una ventina di metri sparò.

***

Quel lunedì mattina, quando Furio lo batté di nuovo, Linaldo non se la prese più di tanto. Molto meno di quanto avrebbe creduto. Molto, ma molto meno di quanto l’avvilì aver fallito così maldestramente l’argali. La palla era andata a vuoto. Rachid l’aveva avvertita sibilare a non più di un paio di metri sulla destra e poi insaccarsi nel terreno alle sue spalle. Gli ci volle una sorsata abbondante di vodka, dopo. Gli offrì la fiasca, fissandolo di traverso. Aveva uno sguardo torvo. Linaldo notò che gli tremavano le mani. Non piacque a nessuno dei due, lo sguardo che si scambiarono. Linaldo respinse la fiasca, non volle mescolare all’alcol il morso di quel duplice, avvilente fallimento. Li teneva. Sulla canna del suo fucile, entrambi. Cos’era successo, all’ultimo momento, perché quell’esitazione, perché il braccio aveva tremato… E li aveva mancati. Tutt’e due.

***

Non alzarono neanche troppo la voce, Furio e Linaldo, chiusi nel loro ufficio. Nulla, rispetto alla volta prima. Le segretarie, dalle loro scrivanie, coi risolini mascherati dietro gli schermi dei computer, furono testimoni di un diverbio quasi sanato.

Linaldo aveva semplicemente esposto i fatti: acqua alla millequarantacinque, bisognava salire di altri dieci metri; portate di filtrazione a novecento litri al secondo, tre volte più del massimo consentito: un fiume. Tredici risorgenze sul paramento di valle, a quote variabili tra la novecentottanta e la milletrentadue. Mezza organizzazione di cantiere interamente dedicata a turare le falle, notte e giorno: ventidue escavatori, tredici dozer, cinquanta dumper arrampicati sulle pendici di quella scarpata, agli ordini di un ragazzo, quel Toni, che praticamente viveva notte e giorno dentro un container lì sotto. E turava, rivestiva, asciugava ventiquattr’ore su ventiquattro. Quanto mancava alla piuma che avrebbe fatto stramazzare il cammello?

Avrebbe dovuto esser sufficiente quest’esposizione fattuale e oggettiva di dati, per convincere chiunque a fermarsi. Per convincerlo che, ovviamente, era meglio affrontare l’ira del Primo Ministro piuttosto che il fiume. Ma invece non bastò.

Anche stavolta Furio si mise lì, con la sua flemma, smontò la parte irrazionale del discorso di Linaldo, impostò in modo a suo dire corretto l’analisi di rischio, illuminò la zona oscura, la razionalizzò… Concordava con Linaldo su tutti i dati. Ma Linaldo trascurava le contromisure: avevano disposto una rete di strumenti che consentivano di monitorare il comportamento del cofferdam – piezometri nel corpo del rilevato per misurare la pressione dell’acqua in diversi punti, riferimenti topografici sul suo profilo e in profondità, per seguire al millimetro spostamenti e cedimenti – e tutti questi strumenti venivano letti due volte al giorno, ogni dodici ore; e c’era un modello di calcolo che elaborava tutti questi dati e attestava che la risposta del cofferdam era ancora buona, il rilevato era stabile, la catastrofe non era vicina; avevano definito, in base a diverse configurazioni che tutti quei parametri potevano assumere, una linea gialla, oltre la quale fermare la salita dell’acqua; e una linea rossa, raggiunta la quale bisognava cominciare a scendere e svuotare l’invaso; tutte queste verifiche venivano svolte ogni dodici ore, e per il momento il profilo tracciato dalla lettura di tutti quei parametri era ancora lontano dalla linea gialla. Il cofferdam teneva; era un buon cofferdam, merito di chi l’aveva costruito; merito suo, di Linaldo, e della sua squadra, il rilevato si comportava molto meglio del previsto, era un ottimo cofferdam, molto migliore del suo progetto, ben superiore a quelli assunti dalla normativa. E avrebbe voluto buttar via tutto questo, quando erano a soli dieci metri dal traguardo? Stringere i denti, tenere duro, la situazione era ancora sotto controllo. Se si fosse davvero avvicinata al limite, alla linea rossa, Furio sarebbe stato il primo a ordinare lo svaso, non era un pazzo, non ci sarà obiezione dei tajiki che tenga, in quel caso. Ma fino ad allora…

E se ci fosse stato qualcosa che non andava, in quel modello di calcolo? E se tra tutti quegli strumenti e la loro lettura bi-quotidiana si fose annidato un errore? Furio stava violando il loro mondo, s’era da un pezzo inoltrato in territori vietati. Era il loro mondo, non quello dei tajiki. Linaldo lo sapeva. Aveva ragione, ne era convinto. Ma anche stavolta mollò. Non alzò neppure la voce, s’arrese subito.

***

Cedeva le armi. Sentiva la zona di bonaccia avvicinarsi, ormai…

Al cofferdam – quando l’acqua raggiunse quota millecinquantacinque e le risorgenze sul paramento di valle passarono da tredici a venticinque, e la portata complessiva di filtrazione crebbe fino a milleduecento litri al secondo – gli ultimi giorni prima della cerimonia furono una festosa volata. Nessuno si preoccupava più del rischio, tutti sentivano vicino il traguardo, ormai.

La cermonia era fissata per il sedici novembre e il giorno prima Linaldo se ne andò a caccia. Andò solo, stavolta. Non portò Rachid con sé. Glielo disse, però, en passant; e Rachid mise su una scusa, bofonchiò qualcosa sugli impegni che aveva con tutti quei preparativi per la cerimonia… Linaldo gliene fu grato. Gli fu grato della paura di entrambi e di quel commiato incruento.

Grossomodo, gli parve di riconoscere la montagna. La stessa zona in cui l’aveva mancato quindici giorni prima. Parcheggiò il fuoristrada. Indossò tracolla e cartucciera, imbracciò il fucile e salì a piedi.

***

La festa del primo giro di turbina fu organizzata in grande stile il 16 novembre 2018, alla presenza di quattro capi di stato: Afghanistan, Pakistan, Uzbekistan; oltre naturalmente al Presidente del Tajikistan. I quattro paesi che si sarebbero spartiti l’energia. Il Presidente premette un bottone e la valvola si aprì, la girante della turbina si mosse. Il cruscotto del quadro comandi, proiettato sul megaschermo, ingigantì a dovere i numeri digitali: dieci, quaranta, cento, centosettanta, duecento megawatt d’energia prodotta… Avrebbe continuato a generare per tutti gli anni a venire, via via più megawatt a mano a mano che la diga saliva e rimpiazzava il cofferdam e il battente cresceva da ottanta fino a trecento metri e le unità aumentavano da una a sei, fino ai tremilaseicento megawatt finali.

Fecero festa, in cantiere, i dodicimila operai e le loro famiglie. E si tenne un ricevimento di gala, a Palazzo, coi quattro capi di stato e i membri del governo e le rappresentanze diplomatiche di diversi paesi e, per conto della Compagnia, Furio e Linaldo.

Ebbero un tavolo neanche troppo distante dal palco presidenziale, nel grande salone delle feste carico di stucchi e di fregi, coi finestroni appesantiti da dorature un po’ eccessive e le balconate sopra le colonne addobbate con festoni e bandiere, e illeggiadrite da bellissime composizioni floreali in cui le donne tajike sono maestre.

Dopo la cena, che durò tre ore, e dopo il discorso del Presidente, l’orchestra sul palco laterale cominciò a suonare. Musiche tajike, naturalmente, motivi patriottici; che si stemperarono un po’ alla volta in canti popolari, via via più festosi e ballabili. Finché si fece spazio tra i tavoli e si aprirono le danze. Quelle danze tajike, marziali, per soli uomini, coi corpi eretti, il mento alto e lo sguardo fiero, mentre braccia e pugni e gambe disegnano nell’aria, quasi al rallentatore, gesti di sfida e di lotta.

Nessuna delle non numerose donne tajike sedute ai tavoli partecipò. Danzavano esclusivamente gli uomini. Sola, l’ambasciatrice di Francia, un’esile signora sulla cinquantina, scelse di rompere il protocollo e si unì a quelle danze maschili, mimando anche lei, su un registro più aggraziato, quelle mosse guerriere. E gli uomini, dopo un primo momentaneo imbarazzo, la accolsero e danzarono assieme a lei – generali tajiki in alta uniforme e ministri tajiki con file di decorazioni appuntate sul petto – trattandola da pari a pari. Da quelle parti una volta arrivò Alessandro, forse sapevano cos’è un’amazzone; o forse, semplicemente, una donna intelligente, colta e vivace che aveva voglia di ballare.

***

L’argali – che Linaldo abbatté poco lontano dal punto in cui quindici giorni prima l’aveva mancato – era legato al cassone del pick-up, con la gran testa leggermente sporgente al disopra del tettuccio della cabina, le corna fissate con due lacci ai montanti.

Una palla l’aveva preso poco sotto la spalla, fracassando l’arto. Le seconda, quella che Linaldo sparò a meno di cinque metri di distanza sull’animale sanguinante che arrancava a terra cercando inutilmente di sfuggirgli, era penetrata alla base del collo e uscita sul dorso, finendolo. Non era stato facile, poi, arrivare fin lassù col pick-up e ancor meno issare sul cassone la carcassa della bestia.

Quando portò a casa il trofeo, Esther era alla finestra. Lo vide avvicinarsi, sulla pista polverosa di cantiere. Il fuoristrada aveva i fari accesi anche se era giorno e quella testa mostruosa sporgeva sopra il tettuccio della cabina. Linaldo entrò infangato, con le maniche della camicia e i calzoni macchiati di sangue. Buttò in un angolo fucile e cartucciera e si lasciò cadere sul divano.

Lei andò alla mensola dove teneva la moca e la Nespresso, che avevano ripreso a funzionare assieme.

“Beh, Esther, c’è una bestia là fuori,” disse Linaldo. “Più tardi la scuoio. Proviamo a farci un plov…”

Lei lo fissò per qualche istante con disprezzo. Linaldo lesse quel disprezzo. Non abbassò lo sguardo. Lo resse il tempo che serviva e vederlo sciogliesi in qualcos’altro.

“Contentati del caffè, stronzo,” disse lei sedendoglisi accanto.

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2. Fine. Clicca qui per leggere la prima parte.

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