Gino Agnese
Riflessione sull’emergenza virus

C’è guerra e guerra

Dopo 75 anni di pace, l’assalto del covid 19 ci ha preso di sorpresa. Il benessere di cui godiamo ci rende più esposti alla paura. Ma paragonare la situazione attuale a un conflitto armato, come fu quello combattuto in Europa nel 1939-’45, è un azzardo...

La chiamano guerra quella che ci ha dichiarato oggi il covid 19. Paragone improponibile. Dipende dal fatto che, fortunatamente, oggi non si sa, e nemmeno s’immagina, quale fosse il tempo di guerra. Ciò per la ragione che dal 1945 in Europa non s’è mai più data una esperienza di guerra. Non si ha idea dei numeri della guerra, rispetto ai quali i numeri del coronavirus, compresi quelli cinesi, sono il resto di niente. E le lunghe sofferenze delle popolazioni: anni! Noi registriamo l’assalto ai supermercati. Allora, sul finire del conflitto, specie nelle città, si andava a fare la spesa e si tornava con la borsa vuota, o quasi. (A eccezione di quei pochi che, denaro sonante, potevano comprare di contrabbando il necessario).

Ah se si sapesse come può restare nella memoria il ricordo di un fanciullo di quel tempo: un piatto di vermicelli al burro, a metà mattina. Oppure stare in fila allegri per avere da un soldato Canadian Army il latte nel bricco. Restano indimenticate le spericolatezze dei piccoli aerei da caccia italiani in impari duello con i venti, trenta “B24 Liberator”, le “fortezze volanti”, in pieno sole o nel cielo stellato. Gli storici (posso citare i libri di Aldo Stefanile e di Gabriella Gribaudi) non hanno accertato quanti napoletani morirono, furono feriti o risultarono dispersi durante i cento bombardamenti – quasi tutti anglo-americani – che straziarono la città. Diecimila? Di più? In una sola incursione, 4 agosto ’43, la conta a spanne fu di 400.

Io ho donato allo Stato, al Museo del ‘900 di Napoli, 21 disegni eseguiti da Emilio Notte nell’abituale ricovero antiaereo di via Materdei: e le immagini di quella silenziosa umanità in attesa impressionano i visitatori, come pure i naviganti che esplorano il Museo in rete. La sirena d’allarme, che spingeva la gente a rifugiarsi, poteva essere fallace. Segnalava uno stormo in arrivo, ma era possibile che la rotta di questo sfiorasse soltanto la città e che il “bombing” toccasse ad altro obiettivo. Perciò un’incertezza spaccacuore. Altro che coronavirus!

Dicevo dei numeri. Quante furono le vittime della battaglia di Stalingrado? Oltre un milione: russi e tedeschi, morti feriti e dispersi. A Napoli, cronista ai primi passi, andai nell’Emeroteca Tucci per vedere come i giornali avessero riportato la sciagura militare del febbraio ’43, a Capri, nella quali morì a 35 anni mio padre artigliere con altri 20 commilitoni. Volta pagine, torna indietro, forse ho sbagliato, guarda bene: nulla. La censura bloccò la notizia. Ma all’epoca i problemi erano di sopravvivenza: forse nessuno badò ai giornali.

Il coronavirus, subdolo, sfuggente, ci mette paura. Certo, e non occorre ribadirlo: la prudenza è necessaria nel caso dell’agente patogeno che i cinesi sono riusciti a far fuori. Ma il fatto è che si teme tutto. Dietro la porta abbiamo i ladri, gl’immigrati, i rovesci finanziari, il bau bau di finire sotto un ponte. Si temono le pirotecnìe di Capodanno (anche perché spaventano i cani). C’è qualcuno che ha sentito dire dell’antica, nobile valenza simbolica dei colori lanciati contro la notte? Temiamo lo scioglimento dei ghiacciai, il freddo e il caldo («mai sofferta un’estate così»); il bradisismo, il ritornante “pericologiallo”, la scomparsa del panda, la mancanza d’acqua (intendendo la minerale), il declino demografico («perché, come si fa? Lei lavora, e la baby sitter costa»). È come se ci mancasse la terra sotto i piedi.

C’è tutta una letteratura sull’ombra, come si sa. Ma qui ognuno ha paura dell’ombra sua. Se un giovane compie un atto di coraggio, ad esempio si tuffa per salvare un bambino dai marosi, è subito chiamato in alto loco e decorato. Quando mi occupavo di comunicazione con la mia rivista Mass Media (1982-1995), alcuni autori e io stesso riflettemmo molte volte sulla signorìa del tempo presente, indotta dal medium televisione e oggi confermata dai social. E dunque dell’irrilevanza del passato, come del futuro. E da un bel po’ di tempo quella signorìa è sotto gli occhi di tutti. Viviamo l’epidemia del coronavirus come una sventura senza precedenti. Peste, tifo, colera, vaiolo, la “spagnola”, l’“asiatica”, la “suina”. Tutto non è mai successo. Si esagera a ogni piè sospinto. Grazie a Dio abbiamo vissuto settantacinque anni di pace, al Capo di Stato Maggiore la guerra gliela raccontò il nonno. E oggi a causa del coronavirus si dice che “siamo in guerra”.

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