Pier Mario Fasanotti
Su “L’arsenale di Svolte di Fiungo”

L’altro Settantasette

Loris Campetti racconta la sua disavventura giudiziaria: nel '77, in pieni anni di piombo, fu accusato di aver creato un deposito di armi. Che invece era stato allestito da estremisti di destra con la complicità dei servizi. Ritratto di un'Italia rimasta opaca

Una storia incredibile? Certamente, ma è una delle tante che caratterizzarono gli anni Settanta: estremismo di sinistra, attentati dell’estrema destra e collusione con i servizi segreti “deviati”, agitazioni sindacali, femminismo di stampo estremistico (non volevano maschi nei loro cortei) e così via. Qui raccontiamo la vicenda che ha costretto alla latitanza Loris Campetti, marchigiano, ora redattore del Manifesto. Su segnalazione di Roma, i carabinieri del capitano D’Ovidio (poi promosso colonnello) trovano in un cascinale poco distante dall’università di Camerino un arsenale militare. È il 10 novembre del 1972. Non si tratta di scacciacani. Questo l’elenco: una mitragliatrice tedesca, un mitra Thompson americano, un moschetto italiano, una canna per arma da guerra, munizioni, cartucce e pallottole in quantità, bombe a mano americane, tritolo e due timer. Infine un certo numero di carte d’identità rubate, sacchetti di biglie per fionde, documenti misteriosi scritti in codice che verranno decrittati dagli esperti del capitano CC come riferimenti a una pagina “pericolosa” del libro dello studioso e docente universitario francese Régis Debray, il quale, assieme a venti comunisti raggiunse Che Guevara. Debray fu poi accusato di aver partecipato all’attentato in cui morì “il Che”, in Bolivia.

Dopo la scoperta dell’arsenale, esce sul Resto del Carlino un articolo in cui si legge: «Secondo alcune notizie trapelate, sembra comunque che i documenti provino inoppugnabilmente l’attività eversiva e paramilitare di taluni gruppi della sinistra eversiva, particolarmente distintisi in questi ultimi anni in azioni dinamitarde e comunque di violenza politica». Segue l’accenno a episodi sovversivi a Trento, Macerata, Perugia e Bolzano. Peccato che queste segnalazioni siano sconosciute agli stessi inquirenti. È indubbiamente uno scoop. L’autore è Guido Paglia, figlio di un ammiraglio e noto per un passato di dirigente di Avanguardia Nazionale (estrema destra), fondata dal “famigerato” Stefano delle Chiaie, detto “il caccola”, sospettato di essere a libro paga del Sid (Servizio Informazioni Difesa, fondato nel ‘66 e sciolto nel’77).

Secondo gli inquirenti, il bersaglio del gruppo maceratese sarebbero stati il procuratore della Repubblica di Camerino, caserme di carabinieri, Polstrada e Finanza. Uno degli accusati è proprio Loris Campetti, che nel frattempo si era laureato in chimica. Uno degli indagati, assieme ad altri tra cui uno studente greco, è proprio Campetti. Il quale sale sulla sua Cinquecento gialla e accetta l’ospitalità d’un amico a Gallipoli, in Puglia. Ha seguito il consiglio del suo avvocato, che è anche deputato del Pci: «Fai perdere le tue tracce, stanno spiccando quattro mandati di cattura; ci sei anche tu».

Intanto c’è la perquisizione a casa della madre (sarta, vedova). Il mandato dice che l’operazione è valida “anche di notte”. L’autore di questo libro (L’arsenale di Svolte di Fiungo,  editore Manni, 169 pagg., 14 Euro) confessa che la sua più grande ingenuità è quella di aver comprato una carta dell’Istituto geografico militare che riproduce in modo dettagliato la zona tra Camerino e Fiungo. Nella cartina non ci sono segni né crocette. L’ha comprata a Firenze. Un’ingenuità di cui non si darà pace. Dirà: «La uso, come altre che vedete nella libreria, per andare a funghi». Quella cartina è un macigno a favore dell’accusa.

Quegli anni non sono certamente favorevoli a un giovane che si dichiara di sinistra. Si parla delle Brigate Rosse, l’editore Giangiacomo Feltrinelli è trovato cadavere vicino a un traliccio di Segrate, c’è lo stragismo nero (piazza Fontana), la morte del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, l’attentato al treno del Sole del 22 luglio ’70 (sei morti), il fallito golpe del principe Junio Valerio Borghese, voci sull’attività di Gladio (gruppo di destra), un’auto fatta saltare in aria a Peteano nel maggio ’72 (tre carabinieri morti). Insomma: strategia della tensione. Senza contare l’omicidio del commissario Calabresi nel maggio del ’72 (poco prima Lotta continua che lo aveva chiamato “assassino”). Sotto torchio sono quelli della sinistra. C’è anche la fuga di Renato Curcio dal carcere e la morte della sua compagna Mara Cagol.

Per Campetti è vita da latitante. Accetta addirittura l’incarico di collaudare l’auto sovietica Zigulì, sulle strade del Lazio del sud. Smette di comprare l’Unità, che accusa di fare troppi distinguo. Coraggiosa oltreché molto arguta è la frase di Rossana Rossanda, aderente al Manifesto: «Definire fascisti quelli delle Brigate Rosse come fa il Pci è una rimozione, oltreché una sciocchezza, la verità è che sono figurine nell’album di famiglia della sinistra».

Intanto i terroristi rossi alzano il tiro. Gambizzano o sparano al cuore i cosiddetti reazionari (e la loro scorta). Campetti frequenta i sindacalisti della Fiat e segue i loro scioperi. A Torino la Fiat la chiamano “la feroce”, anche se viene ridotto l’orario di lavoro. Il latitante fa anche il docente in Piemonte. E trova una fidanzata. Tiene a freno la voglia di tornare dalle sue parti e riabbracciare la madre. Viene a sapere da un amico sindacalista della Fiat che nei bagni compare la stessa a cinque punte delle BR., a volte con nomi e cognomi. Parlano spesso e arrivano a una conclusione amara: «Eppure, il consenso ai loro programmi deliranti (delle BR, ndr) cresce, ma cresce soprattutto un’area grigia che non aderisce ma non prende le distanze apertamente dal terrorismo». Torino, scrive Campetti nel suo libro autobiografico (c’è da dire, francamente che ha un brutto titolo, per nulla accattivante) che Torino è una città in guerra. Pier Paolo Pasolini, prima di essere ucciso a Fiumicino scrive su Corriere: «Io so chi ha messo le bombe, ma non ho le prove». Altri si distanziano da un’Italia continuamente martoriata: «Né con lo stato, né con le BR». Loris riceve, pur essendo figlio di madre vedova (un tiro mancino?) la cartolina precetto: servizio militare a Vacile di Spilimbergo, al confine con la Jugoslavia.

Prima di tornare alle vicende processuali suona come un’assoluzione l’inchiesta di Romano Cantore, giornalista di punta di Panorama. Ci sono due interviste, a Stefano delle Chiaie e a Marco Pozzan, il fascista connivente con Freda e Ventura. Pozzan racconta di essere fuggito in Spagna proprio grazie al Sid diretto dal generale Maletti. Gli elementi di destra raccontano la verità sull’arsenale attribuito alla sinistra. Pozzan ammette «i suoi incontri con il capitano Labruna per la messa a punto del piano per organizzare la strage di Milano, facendo riferimenti a riunioni precedenti cui aveva partecipato un altro fascista ben noto, Pino Rauti». Insomma le armi di Fiungo sono state piazzate lì da Labruna «per far scattare una crociata anticomunista». Le vendite di Panorama vanno alle stelle.

Torniamo alle vicende processuali. Il legale di Campetti gli comunica il rinvio a giudizio dinanzi alla corte d’assise di Macerata, ma non conosce l’esatta imputazione. C’è un altro guaio: la corte d’appello di Ancona non ha confermato la sentenza di proscioglimento emessa dal giudice istruttore. La sentenza messa in Camera di consiglio è stata depositata in Cancelleria il 29 gennaio 1977. A Campetti viene voglia di fuggire di nuovo, ma ci ripensa.

Inizia il processo davanti al presidente, un giudice togato e sei giudici popolari (tre uomini e tre donne). Nella lettura dei capi d’imputazione e sulla ricostruzione della finta pista rossa, «trapelano i dubbi sulla logica che ha portato al rinvio a giudizio di persone evidentemente estranee ai fatti». È il 7 dicembre ’77. Prima che la corte si ritiri, Campetti vuole fare una dichiarazione: «Non mi basta l’assoluzione, ho il diritto, e tutti ce l’hanno dentro e fuori quest’aula, di sapere i nomi e i cognomi dei responsabili, chiedo verità e giustizia che sono condizioni per scrivere la parola fine su questo capitolo buio dello Stato italiano, dei suoi corpi separati e dei suoi servizi segreti». Assoluzione «perché il fatto non sussiste». Scatta l’applauso del pubblico. Il legale dell’imputato è scettico: «Guarda – gli dice – che la sentenza era già stata scritta prima che iniziasse il processo e la breve durata della Camera di consiglio me l’ha confermato. Dubito che i veri responsabili finiscano alla sbarra. Troppi interessi, troppi segreti, troppi nomi importanti. Ma è giusto battersi perché ciò avvenga». Sollievo e amarezza. È questa la sintesi di una vicenda contorta.

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