Luca Zipoli
Visto al Teatro Quirino di Roma

Al cuore di Williams

Mariangela D'Abbraccio è Blanche Du Bois in una nuova edizione (formata da Pier Luigi Pizzi) del capolavoro tempestoso di Tennessee Williams. Un tuffo nella tradizione e nel crollo del sogno americano

«È un’opera poetica e umana, divertente e strappacuore: indimenticabile». Così ha definito il capolavoro di Tennessee Williams uno dei massimi registi americani, Francis Ford Coppola. Un tram che si chiama Desiderio (“A streetcar named Desire”), appare in effetti come un dramma inafferrabile, al tempo stesso piacevole e inquietante, ben calato nell’epoca che rappresenta (l’America degli Anni Cinquanta) ma senza tempo, capace di suscitare un sorriso distaccato ma anche una risentita amarezza. Un’opera dalle diverse anime, dalle tante sfaccettature, che lascia sicuramente un segno indelebile nel suo spettatore grazie agli interrogativi e ai dilemmi che gli pone davanti: quanto pesano gli errori del passato nella definizione di una persona? Come reagire se questa è sull’orlo della follia? A quali eccessi si può spingere il maschilismo della società?

Allestita per la prima volta a Broadway il 3 dicembre 1947, la pièce ottenne subito un grandissimo successo di critica e di pubblico, vincendo il Premio Pulitzer per la drammaturgia e diventando nel 1951 un film pluripremiato, con Vivian Leigh e Marlon Brando nelle parti dei protagonisti. La storia è quella di Blanche Du Bois, ricca ereditiera del Mississippi ormai caduta in disgrazia, che per sfuggire al suo passato ingombrante e ricominciare una nuova vita, decide di prendere quel tram chiamato Desiderio e riparare nell’umile monolocale della sorella Stella, a New Orleans. In un contesto sociale e culturale tanto diverso da quello di appartenenza, Blanche si troverà a fronteggiare il rozzo marito di Stella, Stanley Kowalski, incapace di provare empatia per lei e pronto solo a inchiodarla ai suoi errori del passato, e che attraverso una sequela di maltrattamenti psico-fisici finirà per minarne l’equilibrio mentale e spingerla alla follia. Il dramma di Williams distrugge alla base il mito dell’American Dream, e ci fa vedere come dietro quel velo di positività acritica si celi una realtà fatta di ipocrisie, disagio sociale, e violenze di genere.

Su questo tram, che negli ultimi cinquant’anni ha viaggiato attraverso molteplici riletture, è ora salito Pier Luigi Pizzi, artista versatile, dedito tanto all’opera quanto alla prosa, e fondatore della “Compagnia dei giovani”. Novant’anni e in splendida forma, il regista in questo spettacolo firma anche adattamento, scenografie e costumi, con il supporto di Gitiesse Artisti Riuniti e AMAT. La scena unica che fa da sfondo al dramma ritrae l’appartamento dei Kowalsky, caratterizzato da colori grigi, tinte fredde e mobilio anonimo che ben restituiscono l’atmosfera di squallore in cui si svolge la storia. L’impostazione registica predilige un ritmo altalenante, ora più concitato nelle scene di gruppo animate da Stanley ora più rallentato nei monologhi trasognati di Blanche, mostrando tutta la differenza tra il bruto realismo dell’uomo e la dimensione stralunata della donna. Interessanti anche le musiche di Matteo D’Amico, che con un’alternanza di tratti melodiosi e sonorità inquietanti sottolineano efficacemente gli instabili passaggi della mente della protagonista. Da menzionare, infine, i giochi di luce, o piuttosto di oscurità, organizzati da Luigi Ascione, che con la scelta di una penombra livida che pesa sui tre atti esalta l’atmosfera smorta e desolata in cui si muovono i personaggi.

Sul piano degli attori, si distingue fra tutti Mariangela D’Abbraccio, che, reduce dai successi di Filumena Marturano per la regia di Liliana Cavani, regala una Blanche molto convincente. In scena quasi ininterrottamente per due ore e trenta minuti senza intervallo, l’attrice mantiene una concentrazione ferrea per tutta la durata dello spettacolo, passando con disinvoltura dai torni nervosi dei dialoghi con Stanley a quelli languidi dei propri vagheggiamenti. D’Abbraccio opta per una dizione leggermente alterata, che suona quasi straniera, e che riesce a restituire tanto quell’ascendenza francese millantata con orgoglio da Blanche, quanto l’instabilità psichica che la pervade fin dall’inizio. Interessante lo Stanley di Daniele Pecci, che si contrappone fortemente alla protagonista attraverso l’uso di una mimica volgare e l’aggiunta di diverse espressioni di turpiloquio nell’adattamento della sua parte. Lo spettacolo, apprezzato dai tanti presenti in sala, ha avuto il merito di rimettere in circolo, dopo tanti anni di assenza dalle platee capitoline, questo spaccato di dinamiche famigliari e sociali attuale oggi come lo era nell’America degli anni Cinquanta.

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