Loretto Rafanelli
“Consegnati al silenzio” di Paolo F. Iacuzzi

A tu per tu con Iac

Vita, sentimenti, memorie, dolori, malattia, afasie, segreti. Mischiati, ingarbugliati, chiariti. È complessa la nuova raccolta del poeta pistoiese. Certo una prova di maturità poetica, tutta tesa a «scavare paesaggi individuali e collettivi». Così l’autore da singolo si fa doppio che si fa singolo…

Il poeta Paolo Fabrizio Iacuzzi, dopo sei raccolte tra il 1996 e il 2018, offre ai lettori una nuova prova di maturità poetica con questo volume dal titolo emblematico: Consegnati al silenzio. Lo pubblica Bompiani, e questo ci permette di dire del recente importante impegno di questo editore rispetto alla poesia, con la nascita della collana CapoVersi, intesa come «versi capitali… come mappe, direzioni e punti cardinali» della grande poesia internazionale, con l’uscita di volumi dedicati ai poeti John Ashbery, il grande poeta del postmodernismo, Vladislav Felicianovič Chodasevič, russo dei primi del Novecento e Nicanor Parra, il poeta cileno morto nel 2018 a 104 anni; ma, fuori collana, ecco anche i versi di Leonard Cohen, di Erica Jong e Alberto Moravia, a testimonianza di un interesse per la poesia che si spera sia sempre più puntuale e strutturato, in un momento di difficoltà editoriale per questo genere letterario.

Il libro di Iacuzzi ci pare fortemente meditato e ‘scavato’, strenuamente teso a parlare dei passaggi individuali e collettivi di una vita. E lo fa incrociando i ‘dati’ dell’uno e dell’altro versante, mischiando, chiarendo, ingarbugliando, giocando, riflettendo su sensazioni, storie, dolori, sentimenti dei suoi anni, dalla più tenera infanzia all’oggi, e dei suoi congiunti recenti e passati, quasi come una saga familiare. Approccio singolare il suo, direi quasi unico nel panorama poetico, per la forma e l’insieme dei riferimenti, multiculturali, storici, ecc. Una lunga scia di vicende, un crogiolo che è sicuramente un canto, che è sicuramente originale espressione poetica e meditata riflessione sulle cose dell’esistenza, rintracciabile peraltro in tutte le sue raccolte, fin dal libro d’esordio, “Magnificat”, del 1996.

Poesia ardua nella sua lettura, da leggere e rileggere, perché l’intarsio, l’ordito, la trama, i riferimenti sono sicuramente affascinanti ma pure complessi. E anche se la nota finale posta dall’autore molto aiuta, si sa la poesia è campo di luci e ombre, di acquisizioni e di segreti, di un singolo che si fa doppio che si fa singolo o prolifica fino all’infinito o all’estenuazione, come peraltro mi pare ci dica lo stesso autore in alcuni versi che sembrano una dichiarazione di poetica: «Natale. Se questo libro mi è dettato non so. Se lui / me lo dettasse non avrebbe senso. Parla attraverso / di me un altro. Scampato a un bombardamento. / Così adesso la nevrosi mi dà forse l’ultima tregua. // Il tempo di guerra e la guerra del tempo. Il tempo / della peste e la peste in tempo. Perché si intrecciano / da sempre e fanno nodo. Oppure un cappio rosso. / Un tempo avrei detto il fato. Il mito parlante ma… // Ma ora che sono malato nel tempo dove la peste / dorme. Centrifugato negli organi del mio corpo. / Pronto ad azzannare. Per un piccolo cedimento. // Questo carteggio non mi assolve da responsabilità. / Finora ho immaginato la vita a quadri. La reticenza. / Quadri stesi ad annaspare. Pittore spettatore insieme».

In questa raccolta la memoria e il dolore sono gli elementi essenziali. Molto fa il ricordo dell’infanzia vissuta tra sorprese e affetti, tra misteri e gioie, tra emozioni e scoperte, da bambino che guarda il volgere delle cose mentre avverte i primi slanci del dolore. O da grande nel dolore mentre si vede bambino: «Disteso sulla panca di me bambino / chiudere gli occhi nel sole per sempre. // Mentre gira la verde chioma. La verde pancia / di una lucertola trafitta dal sole. / Il male cucito al male cucito al male». Dicevamo: il dolore, e ancora il soliloquio, con quel Iac, quel sé, immerso nel nero di una soluzione sospesa, come scrive in questi bei versi: «Insieme a quel compagno a lui cucito / dallo stesso ago a punta dell’Apocalisse».

Dicevamo: la malattia, quella «Ruvida sveglia delle sei. La corsa in fretta allo spedale / per analisi di rito ogni sei mesi». Ruvida asprezza della vita consegnata alla sveglia della malattia, riassunta in un ripetersi asfissiante, ticchettio pungente come una punta d’acciaio che buca l’occhio, il cuore, l’esistenza fino a fare della malattia una condizione, una compagna fedele seppure malvagia, un punto di vista sulla vita, dove mette radici, ma dove anche porta a cercare ungarettianamente «un paese / innocente», o un amore, perché nonostante che Consegnati al silenzioappaia come un catalogo di drammi e di sofferenze, ci appare anche allo stesso tempo uno sguardo alla ricchezza della vita: «Sperando per il bene cucito al bene cucito al bene». E questo nonostante le ferite personali che lo inseguono («Iac che sempre malato è escluso dal mondo. / Mozzato nel suo cognome. Lo scatto secco / di una cerniera lampo che più non si chiude») e quelle familiari, l’incomunicabilità con parte del mondo, la morte dell’amico Simone Cattaneo, il ricordo delle vittime dell’eccidio nazista nel Padule di Fucecchio («S’alzano / vittime della palude a stormo. Raso acqua e terra / e fuoco») e altro.

Tutto questo è la pena che la vita apporta. Testimoniata anche icasticamente dalla costante presenza dell’Ospedale, anzi dello Spedale, quello del Ceppo di Pistoia, antico e glorioso presidio (anche presente nella mia memoria, con la sua artistica facciata), dove si incentra parte della trama poetica di questo libro. Iacuzzi infatti sente il Ceppo come tratto della sua storia: spiega in una nota che alcuni suoi antenati furono parte di quella struttura, da Gio Batta che nel 1816, scolpì il nome e il cognome su una colonna dello Spedale, quella che sostiene proprio la corona con lo stemma del Ceppo, al quadrisavolo Francesco Pacini medico nel periodo della peste del 1855, per arrivare all’autore stesso lì nato nel 1961. E gli incroci fra virus, figure familiari, architettura della struttura, aspetti artistici, malattia, sofferenze, morti e nascite finiscono per essere essenza del libro, quasi che quello sia il suo Carso, la sua ‘società umana’. Ma, curiosamente o come dato del destino, il Ceppo è anche il celebre Premio che si tiene a Pistoia di cui Iacuzzi è il presidente, di cui fecero parte come giurati Luzi, Bo, Piccioni, Parronchi e Bigongiari.

Dicevamo di una raccolta originale, ma Iacuzzi giunge fin da subito a una sua individualità poetica, derivante, penso, dai fatti della vita, piuttosto che dal suo impegno come studioso di poesia, come critico (anche d’arte) e come curatore dell’opera di Bigongiari. Questo gli ha dato materiale sufficiente per orizzontarsi e muoversi in un certo modo, ma come volli sottolineare fin da Magnificat, Iacuzzi ha scolpito da subito la sua via. Un poco estranei, rispetto ai suoi versi, possiamo pensare infatti sia Bigongiari, maestro e ‘padre’, col suo vasto movimento interrogativo basato sull’ossimoro, sia Luzi, immerso nel ventre di uno slancio spiritual. Iacuzzi è invece situato, com’era e com’è, a cercare voci che ‘sostengano’ maggiormente il suo vissuto che preme, fatto di incunaboli e labirinti: quindi ecco il suo sguardo rivolto a poeti (Pound, Walcott, Eliot) assai lontani dai suoi maestri. Semmai se un’influenza va individuata è quella di Giovanni Giudici, col suo feroce sarcasmo e costante amaro sguardo, a cui Iacuzzi dedica la poesia iniziale.

Voglio concludere queste note segnalando la bella poesia che Iacuzzi dedica a Leone Piccioni, (a cui meritevolmente riservò a Pistoia un importante Convegno), che fu pistoiese per un certo periodo giovanile della sua vita, quando il padre Attilio vi si trasferì da Torino. Versi carichi di affetto e di vicinanza, con la bella immagine del grande caro Leone in bicicletta nelle vie della città, tra, aggiungo, il Liceo Forteguerri e il Corso. Eccola:

“Bizzarro unico amore
(per Leone Piccioni, 1925-2018)”

Quando riporti in vita il cuore lo fai

con una sintassi secca e rapidissima

altèra e incalzante. Gli opposti in bilico

 

sopra quella tua antica bicicletta

di ragazzo nella tua Pistoia in corsa

“dietro qualche inventata immagine”.

 

L’equazione sublime degli opposti.

Tu nella fuga dei bizzarri che brucia

in solitaria ogni traguardo. Toccato

 

l’apice del discorso ti stringi tutto

tiri il male e unico calzi sempre

perfetto. Lo scatto e arrivi in vetta.

 

Tocchi improvviso il mondo. È tutto.

 

Facebooktwitterlinkedin