Arturo Belluardo
A proposito di “Tropicario Italiano”

Tropico del Patriarca

Fabrizio Patriarca compie un viaggio negli orrori dell'Italia di oggi e li racconta con il suo linguaggio anticonvenzionale. Per lui, la vita e la pagina oscillano tra alto e basso; e la parola, per avere senso, deve essere muscolarmente “violentata”

Con il suo Tropicario Italiano (66th and 2nd € 15), Fabrizio Patriarca entra a modo suo, e cioè a piedi uniti in scivolata laterale su un fianco, nella letteratura di viaggio. Viene subito da chiedersi in che zona (d’ombra?) si collocherà questo carnet: siamo dalle parti delle cronache moraviane sull’Espresso, o siamo in prossimità di Manganelli e del suo Viaggio in Africa? Siamo dalle parti di Levi-Strauss e dei suoi Tristi Tropici? O stiamo affondando con Foster Wallace e il suo Una cosa divertente che non farò mai più?

La risposta, per quanto banale sia, è che siamo dalle parti esclusive di Fabrizio Patriarca, e che vale la pena di conoscerlo, anche anagraficamente: basta dare un’occhiata al suo profilo Instagram per capire che Patriarca è un apaxlegomenon della letteratura italiana, uno che oscilla tra incipit e tricipiti. Serio praticante del filibustering narrativo, spiazzante e spiazzato, disturbante e disturbato, editor accurato e mimetico, raffinato studioso di Leopardi in salsa trendy (da true fashion-victim), adepto praticante e depilato del body-building, (lo si vede “spignere ghisa” sulla panca mentre recita l’Ezechiele 25:17 di tarantiniana memoria).

Scordatevi, con Patriarca, l’immagine dello scrittore compunto frequentatore di gruberiani studi televisivi con il flou a là Helmut Newton, scordatevi le moralizzatrici giaculatorie gramelliniane e le decataldiane cravatte giudicanti, scordatevi i guizzi camurriani: Patriarca lo vedrete, forse, apparire da Bruno Vespa, o meglio ancora, da Barbara D’Urso, a presentare (come il suo alter-ego in L’amore per nessuno) una fiction su Medea con protagonista Annamaria Franzoni. E possibilmente steso su un sudario di velluto nero, istoriato di cupio dissolvi, tra una botta di morfina, un preservativo alla fragola e il XV canto del Paradiso di Durante Alighieri.

Questa è la dimensione di Patriarca: oscillare, nella vita e nella pagina, tra alto e basso, violentare muscolarmente la parola, brucebannerizzarla all’estremo, per far spalancare la mascella al lettore e fargli proferire: “Ma questo come cazzo scrive?”.

Ecco come veniamo proiettati, nel primo capitolo, nel girone dantesco dello smistamento dei turisti all’aeroporto delle Maldive (aeroporto la cui «mole cetacea (…) glissa su un tratto bituminoso d’oceano»), a seconda dell’atollo di destinazione finale: «la schiera dei cartelli con segnato il nome del resort a un balzo d’idrovolante, gli apparecchi che dondolano, e rosseggiano e gialleggiano a filo d’acqua secondo i loghi della Compagnia, il mare scintilla con modestia un suo turchese corrotto, ha la grana pastosa del fondotinta, e tu devi avventurarti fra i pericoli dei carrelli in slalom, nel fitto di fumatori in crisi d’astinenza, gente tremenda, che un poco ti somiglia. Altri fumi e fumini melensi al cherosene salgono dagli shuttle che vomitano i turisti nelle loro bianche euromollezze».

E così verremo precipitati, grazie a una penna-bisturi (di Meredith Grey) feroce e sarcastica, tra gli agguati dei cani randagi a Bora Bora sullo sfondo dell’elucubrata bellezza di Ramatea, «sospesa come una forzuta cresta verde selvaggio sul diamante dell’oceano», alle spiagge ragionieristiche e catastali dei surfisti australiani di Paradise Beach, dalla bruttezza di Bangkok, dove «il tuo corpo si sta inesorabilmente colliquando», e dove Patriarca deve fantozzianamente assecondare il suo Capo Dipartimento, spiegandogli in chiamata intercontinentale come cambiare il toner, alla Dubai costruita sul niente, post-futurista o vetero-futurista, talmente nulla da far rimpiangere Roma e le sue altre piogge…

Patriarca si rivela crudele spin-doctor della parola, compiaciuto affossatore delle manie turistiche nazionali, situazionista comico e beffardo da teatro di rivista alla Carlo Dapporto, sfatatore del romantico mito del viaggiatore: «Sicché non ti ha mai sfiorato l’idea di considerarti un viaggiatore. Sei una creatura aviotrasportata, a brain in the vat. Sei un turista, e il turista, il cui destino è soccombere a tutto quello che incontra, in fondo è un personaggio invincibile».

Eccoci ritratti, e Patriarca con noi, turisti soccombenti alla plastica immonda della quale siamo bionicamente composti, e destinati a essere inaffondabili, a galleggiare riempendo gli oceani, aggrumandoci in atolli sintetici fatti di paperelle da vasca da bagno, di palloni Super Santos sgonfi, di buste di plastica della Esselunga.

Ma alla fine (e quindi all’inizio del libro, come dichiarazione programmatica) il nucleo vero del Tropicario, risiede nel melanconico ricordo, nell’esercizio morale della memoria. Non possiamo non commuoverci, non ammirare Patriarca quando ci confessa lo struggente privilegio di figlio di un dirigente Alitalia: «Insomma dentro Alitalia ci sei cresciuto, a otto anni parole come CARGO, TPF, MEMIS erano un ambiente semantico naturale. Alitalia non era Pan Am, ma veniva percepita nel bagliore di una mitologia dell’affinità, nella quale era delizioso affondare i denti, perché lontanissima, certo, ma comprensibile: la dimensione uranica del motore a reazione, l’aura semidivina dei comandanti di flotta, quelle creature a prova di troposfera».

E, poi con un twist da maestro, eccolo esplodere in uno sberleffo ammantato di crudele realismo, damnatio memoriae, madeleine infetta dal coronavirus: «Sei grato ad Alitalia, con tutto te stesso. Impossibile staccarti da quell’immagine di romantico privilegio, perché nel frattempo anche la storica 610 per JFK ha cambiato faccia, adattandosi ai rovesci globali: qualche anno fa era in corso un’agitazione del personale di volo, tu sedevi in economy e masticavi il surrogato di un cracker mentre un assistente dal soma taurino percorreva il corridoio sbraitando:
“Ahò v’ho detto che dovete da stare seduti e cinturati, mannaggia la zozza!”.
“Signora glielo ripeto, peccortesia, seduta e cinturata!”.
Ma forse no, il Mito non tramonta, non smette di parlare (l’epopea di Alitalia chissà quale determinazione a non morire o quale ostinazione di fallire vuole raccontarti), sei solo tu che hai perduto i benefici di un tempo – rasségnati».

Facebooktwitterlinkedin