Francesco Arturo Saponaro
Ultima replica all’Opera di Roma

L’eleganza di Onegin

Una fremente vicenda romantica rappresentata senza ridondanza. Regge bene al tempo la messa in scena newyorchese dell’opera di Čajkovskij, tratta dal romanzo in versi di Puškin, nella versione di Robert Carsen e James Conlon

La messa in scena è quella prodotta nel 1997 al Metropolitan di New York, poi acclamata negli anni in varî teatri esteri, e fissata anche in un dvd. Si sarebbe anche potuto temerlo, un velo di polvere del tempo, su quel progetto visivo. E invece no. Il Teatro dell’Opera ha offerto un’edizione di Evgenij Onegin – (Eugenio Onieghin), scene liriche del 1879 di Pëtr Il’ič Čajkovskij – proponendo con aperto successo l’impianto scenico newyorchese, che in Italia non si era ancora visto, con repliche fino a oggi, sabato 29 febbraio. La regia è di Robert Carsen, che a Roma si è avvalso di Peter McClintock quale regista collaboratore, su scene e costumi di Michael Levine, luci di Jean Kalman, coreografia di Serge Bennathan. Altrettanto merito va a James Conlon, direttore d’orchestra, e alla compagnia di canto, che hanno garantito una resa musicale molto pregevole.

Profonda suggestione nella scenografia, minimalista, di Levine. Solo immensi fondali sui tre lati del palcoscenico, nudo, a parte pochissimi, frugali arredi. E su questi fondali si dispiega, a incorniciare e sottolineare la vicenda, un disegno luci di eloquente, straordinaria suggestione: autunnale nell’iniziale scena campestre, con il corredo di alcune simboliche betulle e un vasto tappeto di foglie secche, azzurro notte con falce di luna nella scena della lettera, grigio plumbeo nel duello, e così via. L’essenzialità degli spazi corrisponde alla sobrietà del progetto registico di Robert Carsen, che per questo assume un’intensità di avvincente pregnanza. Non una sbavatura, non una ridondanza nei movimenti dei personaggi e del coro, pur impegnati in una fremente vicenda romantica. Ed è tale connotato di fondo che rende questa messa in scena ancora perfettamente moderna e attuale, pur a distanza di tempo. Ammaliante, alla fine dell’atto secondo, la scena del duello sul fondale grigio e nebbioso, nel quale gli interpreti risultano ombre in movimento. Dopo di che, con un geniale colpo di teatro, e le spoglie di Lenskij ancora in scena, Carsen inventa la vestizione di Onegin a opera di una schiera di valletti, anticipando senza soluzione di continuità le danze, con la celebre polacca, che introducono l’atto terzo a seguire. Un’ideazione sontuosa, e gravida di tensione.

Sul podio dell’Opera, la direzione d’orchestra di James Conlon ne conferma l’abituale affidabilità. Alla sua quarta esperienza in Evgenij Onegin, fra teatri diversi, egli si muove agevolmente nella partitura, forte anche dello studio della fonte letteraria, l’omonimo romanzo in versi creato da Puškin negli anni Venti dell’Ottocento. E tratteggia così una concertazione ben calibrata, che evita facili accensioni e impeti di una certa tradizione “slavizzante”, ma sa quando è il momento di fare posto e portare in superficie l’orchestra, e quando invece occorre identificarla con le voci in scena. Perché, a differenza di Puškin che racconta con una certa distanza, con Čajkovskij si affonda nei sentimenti e nella vicenda. Fedele a tale linea, la lettura di Conlon ha dipanato una limpida, equilibrata conduzione di colori e accenti, offrendo il sostegno opportuno ai varî momenti vocali. Così guidata, l’orchestra ha risposto con una prova molto lodevole; come il coro del resto, assai impegnato anche scenicamente, e attestato su una resa encomiabile grazie alla preparazione del suo maestro, Roberto Gabbiani.

Per curiosa coincidenza, i tre interpreti maschili debuttavano nei rispettivi ruoli: Onegin, Lenskij, e Gremin. Nel personaggio eponimo, il baritono austriaco Markus Werba ha reso egregiamente il distacco indolente e cinico di Onegin, dandy apatico e anche antipatico che, nel primo duetto con Tat’jana, di lui innamorata, l’allontana con snobistico moralismo, quasi sprezzante; salvo poi cedere tardivamente nell’incontro finale, dopo anni, alla vana, sopravvenuta passione ormai respinta dalla donna. Una prova musicale e attoriale impeccabile, quella di Markus Werba, sorretta da consapevole, solida vocalità e da elegante fraseggio, che emergono nitidi nei momenti solistici come in quelli d’insieme, anche se si sarebbe desiderato un maggior peso vocale. Morbido, rotondo il timbro vocale della protagonista femminile, Tat’jana, affidata al soprano russo Maria Bayankina, bene in parte sia nella ritrosia adolescenziale della prima parte, sia nella dolente fermezza da donna matura del duetto finale. Con simili mezzi vocali e tecnici, l’incedere della carriera le permetterà di esprimere più duttilmente gli altalenanti palpiti dell’aria della lettera, clou di quest’opera; pur apertamente applaudita al termine della celebre scena, l’esperienza offrirà alla Bayankina una più sensibile tavolozza di accenti e di chiaroscuri interpretativi, in linea con la stoffa di questa giovane artista.

Addirittura sorprendente il Lenskij del tenore italo-albanese Saimir Pirgu, considerando il suo debutto in questo ruolo. Convinta la padronanza nel suo fraseggiare, agiato il dominio del disegno vocale anche in registro acuto – così come in mezza voce o nei pezzi d’insieme – disinvolta la resa scenica. Da segnalare anche la prova del basso canadese John Relyea, che dà al principe Gremin uno spessore non comune, con opportuno peso nel registro grave, supportato da agevole controllo dei fiati. Tornando alla compagine femminile, bel contributo è giunto da Yulia Matochkina, contralto dal timbro caldo e brunito, nei panni di Ol’ga. E degnamente hanno adempiuto Irida Dragoti al ruolo di Làrina, e Anna Viktorova a quello della balia Filipp’evna. A completare la schiera dei comprimari, altrettanto meritorie le prove del basso Andrii Ganchuk, Zareckij, e del tenore Andrea Giovannini, Triquet.

 

Facebooktwitterlinkedin