Andrea Carraro
Su “Ai sopravvissuti spareremo ancora”

Tempo di sopravvivere

Il romanzo d'esordio di Claudio Lagomarsini sorprende per la solidità dello stile e per la capacità dell'autore di muoversi nello spazio di un caseggiato esemplare. Un'avventura di formazione con colpo di scena finale

Colpisce, di questo esordio di Claudio Lagomarsini, giovane scrittore toscano che ha già pubblicati racconti su Nuovi Argomenti e altrove, Ai sopravvissuti spareremo ancora (Fazi), il dominio dello stile anzitutto, che sa piegarsi alle ragioni del racconto; con una lingua ricca, colta, ma anche comunicativa, spigliata nei dialoghi, che non perde mai di vista le ragioni del lettore. Il racconto è concentrato su pochi personaggi, accesi nelle fisionomie, trasfigurati espressionisticamente, ma anche a loro modo verosimili, eroi di una provincia che sappiamo toscana, alle pendici delle alpi apuane, che si intravedono qua e là, in certi fondali dove prevale il blu, in certi scorci fra le case e gli alberi, al crepuscolo e di notte,  ma che ci appare molto italiana in senso lato, figure di un’Italia minore che immediatamente ti diventano familiari: la Nonna, la Mamma, il suo amante e attuale convivente soprannominato John Wayne (il marito si è fatto una nuova vita in Brasile), per i modi ruvidi e spicci e i suoi discorsi maschilisti e omofobi, il fratello maggiore Marcello, timido, riservato, che segretamente scrive un romanzo-diario per nulla pietoso, anzi perfino cinico a tratti, di quegli eventi passati, quasi scandalizzando il narratore, quando si troverà a leggerlo da adulto, – un ragazzino foruncoloso, chi narra, soprannominato il Salice, nelle pagine del fratello, e innamorato di una coetanea che lo snobba e lo fa soffrire; poi, il Tordo, un vicino di casa vecchio, ma ancora arzillo sessualmente, che spacconeggia e corteggia tenacemente la Nonna, che però lo tiene sulle spine, fa la preziosa, non vuole concedersi finché non muore l’anziana moglie paralitica… “E io dovrei stare ad aspettare che lei si spenga come una candela, mentre io invecchio di un altro anno, mente invecchi anche tu cara mia, non abbiamo tempo, lo capisci? L’amore è adesso, questo cuore batte adesso, domani potrei anche essere…”.

Il racconto sembra avvitarsi concentricamente attorno al cortile condominiale, a un gazebo, a certi spazi verdi, semicoltivati, dove si affacciano tre case, quella del protagonista che racconta, quella della Nonna, quella del Tordo con la moglie paralitica, – e dove si affrontano – come in un’arena, o in un palcoscenico teatrale – i vari eroi della vicenda – che dapprima ti pare leggera, comica, pure scollacciata, quando fruga nella sessualità dei vecchi, per esempio, con l’occhio curioso del ragazzo, quasi da commedia all’italiana di Scola, o di Dino Risi; poi cambia leggermente registro, compaiono come per caso delle armi, una strana rapina, pare di trovarsi quasi in una commedia nera dei fratelli Cohen, o di Tarantino, con personaggi fuori dalla righe, anche grazie alle generose bevute, a pasticche di droga che filtrano chissà come in quel microcosmo di provincia, che potrebbero inventarsi qualsiasi follia da un momento all’altro.

Ma forse, senza scomodare i Cohen, pensiamo al nostro Ammanniti, a  L’ultimo capodanno dell’umanità, anch’esso tutto ambientato in un comprensorio, o a qualche racconto nero condominiale di Aldo Nove o Tiziano Scarpa, per il modo di esasperare i toni del racconto, attraverso le parole ma anche affidandosi alla fisicità dei personaggi soprattutto maschili, alla loro maniera di atteggiarsi, di sfidarsi, di mettersi in mostra davanti alla donna, all’universo femminile, alle donne vecchie e giovani, indifferentemente – ci pare una cosa da segnalare, questa – la nonna del narratore per esempio, di cui non ci viene detta l’età, ma immaginiamo settantenne, o giù di lì, ma ancora piena di passione per la vita, per i riti del corteggiamento, per i piaceri della cucina, ancora romantica, ancora capace, eccome, di apprezzare i sapidi doppisensi del Tordo, o di John Wayne, ma anche lei, la Nonna, capace di produrne in proprio, quando scherza pesantemente con l’uno o l’altro, quando litiga con la mamma, quando racconta quel mondo arcaico della sua giovinezza, fra bordelli e incesti e sodomie tenute nascoste, ecc.

Un umorismo nero colora spesso la pagina di Lagomarsini: “Mentre parla (sta raccontando di un viaggio fatto in gioventù a Montecarlo, su una lambretta rossa) non posso fare a meno di studiare il volto di sua moglie, l’espressione fissa, le rughe che, in punti diversi della faccia, prendono un’ombra di giallo, di verde o di viola. Può essere che lui la picchi davvero? Un ceffone uno strattone, non per ucciderla – no, certo –, ma per punirla, di essere ancora in vita, di ostacolarlo: maledetta larva giallo-verde-viola, tutta piena di sostanze velenose”. Il finale abbastanza imprevedibile, accidentale, tragico, viene rivissuto passo passo dal protagonista ormai adulto, leggendo l’ultimo quaderno, il quinto, del lungo diario di Marcello, fino a un momento prima dell’ineffabile conclusione, e segna forse un momento di passaggio, nella sua vita, nel congedo definitivo da quel mondo arcaico, sessista, gretto, provinciale, ma anche vitale e autentico, della sua infanzia e adolescenza, verso un futuro vago, quasi inesplorato, in un altro continente, in Brasile, dove suo padre si è costruito una nuova vita e dove ha intrapreso una carriera qualunque nel ramo commerciale.  Per concludere: un sorprendente romanzo di formazione costruito quasi come un thriller/noir familiare che si svela definitivamente al lettore solo all’ultima pagina.

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