Sabino Caronia
A ottant’anni da “Il deserto dei Tartari”

Buzzati dei misteri

Spesso l'autore veneto non è stato compreso dalla critica. Cosa spiegabile considerando che il suo impegno di scrittore era libero da condizionamenti o mode, e i suoi temi –il fantastico e l'inquietudine che ne deriva – poco praticati in quegli anni in Italia

Nei confronti dell’opera di Dino Buzzati la critica è stata spesso ingenerosa. Giacomo Debenedetti, riprendendo a proposito dei Sessanta racconti il giudizio estremamente positivo di Emilio Cecchi in una recensione a Il crollo della Baliverna, ne ridimensionava la portata. Secondo il giudizio del critico torinese in quel suo scritto, intitolato significativamente Buzzati e gli sguardi del di qua, lo scrittore «maneggia strumenti nati per creare il brivido cosmico, ne ottiene misurate, sopportabili emozioni». Come il protagonista di un suo racconto, anch’egli «è un borghese stregato, stregato ma borghese, e fedelmente e con educazione così perfetta da diventare anche stile». E ciò, a giudizio del critico, trova conferma nei limiti dello stile: «La sua parola, la sua frase paiono fatte apposta per mantenersi nel modo più ligio, a livello quotidiano delle apparenze. La parola non ambisce di immedesimarsi, impressionisticamente o espressionisticamente, con la materia sensibile o la sostanza ineffabile delle cose. Rimane il segno convenzionale, di cui tutti ci serviamo per la nomenclatura ordinaria. E la frase sembra, per lo più, che si contenti di mettere in ordine quei nomi, di indicarne i nessi, di articolare le azioni, secondo le regole della comunicativa più abituale».

Certo del saggio di Debenedetti (nella foto) non si può non sottoscrivere il seguente giudizio: «Ci sono scrittori di cui si dice, a maggior lode, che per loro il mondo esterno non esiste. Buzzati è invece uno scrittore per cui il mondo esterno esiste, ma a patto che sia anche un indizio o uno stemma di qualcos’altro da ciò che è. Le apparenze contano solo se dai loro tratti familiari e inalterati emani un magnetismo di apparizione. Non debbono, di regola, scoccare uno sguardo speciale che ci metta sull’avviso. Il caso ideale è quando agiscono normalmente su uno o parecchi dei nostri sensi; ma nello stesso tempo, e senza che si disturbino a prendere iniziative fuor via, diventano stimoli del sesto senso». Ma come non dissentire dal grande critico quando considera tutta la narrativa di Buzzati un itinerario ai limiti dell’«universo a noi proibito» che si arresta al di qua, appunto, dei suoi esiti estremi e conclude: «Bisogna essere artisti più invasati, più coatti, e anche più sostanziali di lui, per sentirsi arruolati al servizio ossessivo di un unico tema»?

Giorgio Bocca a proposito de Le notti difficili scriveva che Buzzati è uno scrittore che mi piace, anche se è «reazionario allo stato puro» premetteva indicandone i limiti. Ed ecco, a suo giudizio, i due «rischi» di Buzzati: di essere un «Cretinetti che si balocca con le favole e che rifiuta il nuovo perché non lo capisce; e di stare oggettivamente dalla parte di coloro i quali vogliono che tutto stia fermo com’è per non perdere un solo dei loro privilegi». Ma c’era di più. Bocca denunciava anche il «difetto capitale» di Buzzati: il rifiuto non dico del progresso, ma della storia. Questi rilievi non squalificano Buzzati ma chi li muove, soprattutto se si tratta di uno come Giorgio Bocca il quale a chi, come Pietro Citati, si permette di rivendicare agli scrittori il diritto di innalzarsi al di sopra del proprio tempo risponde con malgarbo accusandolo di presunzione.

Tra i motivi dello scarso consenso critico di Buzzati bisogna ricordare il fatto che egli proveniva dal giornalismo e perciò molti letterati lo guardavano un po’ dall’alto per una sorta di ingiustificato complesso di superiorità. Nel 1933, l’anno del suo esordio narrativo con Barnabo delle montagne, lavorava nella redazione del Corriere della Sera, dove era entrato nel 1928. Inoltre si può aggiungere che i suoi libri, tra i quali spiccano per eccellenza, con Il deserto dei Tartari, I sessanta racconti, con cui vinse il Premio Strega, si iscrivono nella dimensione, poco praticata fino a quegli anni nella nostra letteratura,del fantastico, un fantastico che nasce spesso dalla cronaca o dalla cronaca prende avvio per invenzioni ora angosciose, ora suggestive ma sempre inquietanti sul mistero che circonda la nostra vita e che all’improvviso penetra dentro come da uno spiraglio, da un oblò lasciato chiuso, motivi che sono agli antipodi degli schemi e dei moduli narrativi di impianto naturalistico prevalenti nel neorealismo letterario allora imperante.

Infine, per concludere, ancor più doveva pesare sul giudizio dell’opera di Buzzati la mancanza nell’uomo e nello scrittore di qualsiasi forma di engagement o impegno socio-politico, in ciò in linea con altri grandi del suo periodo come l’autore del Gattopardo e quello del Giardino dei Finzi Contini che dovevano conoscere, accanto a un larghissimo consenso di pubblico, analoghe riserve da parte di una critica non disposta a riconoscere come altro e ben diverso dovesse essere l’impegno, libero da condizionamenti o mode, dell’artista. A quell’impegno rispondono i libri di Buzzati che più sono destinati a durare nel tempo e meglio permettono di conoscere i modi e le forme della sua attività. Esemplare è Il deserto dei Tartari dove la storia del tenente Giovanni Drogo esprime in forma allegorica e simbolica un senso della vita come attesa e solitudine che non può risolversi se non nella rinuncia o nella sconfitta.

Inviato in un fortino al confine del deserto, Drogo vi attende per tutta la vita il nemico e la gloria sperata. Ma solo con la morte dopo anni di vana attesa, egli dà senso alla sua vita, consumata nella dignità del dovere. È un senso concreto della vita e dell’ordine che la esprime, cui lo scrittore non sa e non vuole rinunziare, malgrado tutte le negazioni che giorno per giorno ha dovuto infliggere al suo eroe: «La camera si è riempita di buio, solo con grande fatica si può distinguere il biancore del letto, e tutto il resto è nero. Fra poco dovrebbe levarsi la luna. Farà in tempo, Drogo, a vederla o dovrà andarsene prima? La porta della camera palpita con uno scricchiolio leggero. Forse un soffio di vento, un semplice risucchio d’aria di queste inquiete notti di primavera. Forse è invece lei che è entrata, con passo silenzioso, e adesso sta avvicinandosi alla poltrona di Drogo. Facendosi forza, Giovanni raddrizza un po’ il busto, si assesta con una mano il colletto dell’uniforme, dà ancora uno sguardo fuori della finestra, una brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride». (Nella foto: un’immagine dal film “Il deserto dei Tartari” di Valerio Zurlini).

Se è vero che la cifra della grandezza di Buzzati sta in quell’autocontrollo che ha sempre cercato di esercitare sul lato oscuro del suo temperamento – la tristezza, la sensualità – non meraviglia il fatto che molti critici abbiano provato difficoltà a mettere insieme quella parte dell’opera di Buzzati, i cui motivi sono così fusi nella loro immediatezza espressiva, nella loro contenuta intensità poetica, con la storia che narra gli amori dell’architetto Dorigo e della giovane prostituta Laide, protagonisti di Un amore, l’ultimo romanzo apparso nel 1963. Quali rapporti, è stato detto, possono intercorrere fra l’esposizione dei particolari anatomici ed erotici che rendono appetibile Laide e la contenuta poesia di tante pagine create in precedenza dallo scrittore? Ma giustamente i critici più avvertiti hanno sottolineato la dimensione di «poeta puer»(Eugenio Montale), di «poeta bambino» (Guido Piovene) che colloca il romanzo in una linea di svolgimento da Il grande ritratto (1960) a Un amore (pubblicato nel 1963 ma scritto prima della morte della madre avvenuta il 18 giugno 1961).

Non a caso nel 1960 Buzzati scrive nel Diario: «L’unica cosa, per salvarsi, è scrivere, raccontare tutto, far capire il sogno ultimo dell’uomo alle soglie della vecchiaia. E nello stesso tempo lei, incarnazione del mondo proibito, falso, romanzesco e favoloso, ai confini del quale era sempre passato con disdegno e oscuro desiderio». E nel 1961 in un’intervista a Paolo Monelli dichiara: «L’amore per la donna, dico l’amore, non l’andare al letto, la gelosia, le lacrime di passione, il desiderio di morire e addirittura di uccidersi, il piacere disperato di soffrire per un’ingiusta, per un’infedele. Tutto questo l’ho capito solo in questi tempi». Su quella linea si pone I due autisti che chiude significativamente La boutique del mistero (1968).

In quest’ultimo racconto lo scrittore si chiede che cosa si dicevano i due autisti del furgone funebre mentre trasportavano la madre al cimitero di famiglia, lontano più di trecento chilometri, e rivive il rimorso e il dolore inconsolabile per il proprio egoismo di figlio di fronte alla sofferenza e alla solitudine della mamma malata e conscia di morire: «Allora, mi ricordo, eravamo quasi a Vicenza e il caldo del mezzodì incombeva facendo tremolare i contorni delle cose, pensai a quanto poco io avessi tenuto compagnia alla mamma negli ultimi tempi. E sentii quella punta dolorosa nel mezzo del petto che abitualmente si chiama rimorso. In quel preciso momento – chissà come, fino allora, non era scattata la molla di questo miserabile ricordo – cominciò a perseguitarmi l’eco della sua voce, quando al mattino entravo in camera sua prima di andare al giornale: “Come va?” “Stanotte ho dormito” rispondeva (sfido, a forza di iniezioni). “Io vado al giornale”. “Ciao”. Facevo due tre passi nel corridoio e mi raggiungeva la temuta voce: “Dino”. Tornavo indietro. “Ci sei a colazione?” “Sì”. “E a pranzo?” “E a pranzo?” Dio mio, quanto innocente e grande e nello stesso tempo piccolo desiderio c’era nella domanda. Non chiedeva, non pretendeva, domandava soltanto un’informazione. Ma io avevo appuntamenti cretini, avevo ragazze che non mi volevano bene e in fondo se ne fregavano altamente di me, e l’idea di tornare alle otto e mezzo nella casa triste, avvelenata dalla vecchiaia e dalla malattia, già contaminata dalla morte, mi repelleva addirittura, perché non si deve avere il coraggio di confessare quelle orribili cose quando sono vere? “Non so” allora rispondevo “telefonerò”. E io sapevo che avrei telefonato di no e nel suo “Ciao” c’era uno sconforto grandissimo. Ma io ero il figlio, egoista come sanno esserlo soltanto i figli».

Di particolare interesse è certo il volume L’attesa e l’ignoto. L’opera multiforme di Dino Buzzati, a cura di Mauro Gennari, che contiene una preziosa intervista alla moglie Almerina, sposata da Buzzati nel 1966, di trentacinque anni più giovane. Ma forse l’immagine più viva e più significativa è quella dello scrittore del Deserto dei tartari, ormai malato e vicino alla morte, costretto a fare anticamera di fronte alla porta della direzione del Corriere della sera dove il politico di turno che lo dirige è impegnato in altra conversazione. Così lo descrive Giovanni Mosca nelle pagine conclusive del suo ultimo delicato romanzo, “La signora Teresa”.

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