Pier Mario Fasanotti
La prima parte di una storia inedita

Dentro una cornice

«Senza rendersene conto Bertot aveva per un attimo sfiorato uno dei tanti capricci della comicità. Spenta la radio, era poi rimasto per più di un’ora con testa poggiata sui palmi delle mani. A riflettere. Grande errore...»

Teresio Bertot era un uomo pallido e gracile. E talvolta così assorto, o così smarrito, da parere uno di quegli uccelli che si stacca dallo stormo per fatica oppure solo per voglia di solitudine, in mezzo a folate di vento cattivo.

Faceva il corniciaio e godeva di gioie equilibrate. Non mancava di ironia, ma per esercitarla doveva prendere tempo, buttare aria dentro i polmoni piccoli, pensare alle battute da scegliere per adattarle alle circostanze. Tutto questo era un grande sforzo, cui però non voleva rinunciare perché era convinto che volare più in alto fosse una grande opportunità, un modo di staccarsi anche per un po’ da una vita che di tanto in tanto, per dare un po’ retta a commenti di altri, aveva il sospetto fosse essenzialmente opaca e sedentaria.

Stava però bene nella sua “bottega” – così la chiamava tra sé e sé, con innato senso dell’antico lessicale – che considerava una specie di grotta, al riparo dalla tristezza, da certe ossessioni, dalle noie della vita di strade, autostrade, svincoli e bretelle. Gli capitava sovente di uscire, fermarsi sul marciapiedi, guardare attorno, ascoltare i rumori del quartiere, prestare attenzione alle facce antipatiche che notava nella via, e poi sfregarsi le mani, come fanno certi anziani, piemontesi come lui, e dire: – Se questo è il mondo, ora me ne torno nel mio cantuccio. Qualche passante, sentita per caso questa frase, lo fissava con un vago compatimento.

A volte, nella bottega che s’affacciava su un cortile, vociante o del tutto silenzioso a seconda dei giorni e delle ore, gli veniva spontaneo porsi diversi interrogativi, sempre con lo sguardo sui legni e la fantasia su sagome di nessun materiale. Avvertiva in sé una prolifica confusione. Si domandava e quasi sempre si rispondeva. Arguzie solitarie che avrebbe voluto condividere con altri per fare mostra di sé: ogni tanto, mica sempre, lui che s’era messo comodo nel cavo di un’esistenza senza vanto. Alzava allora gli occhi e fissava uno di quegli scaffali che, per ciò che contenevano, erano l’orologio del suo mestiere: lì c’erano foglietti con ordinazioni, scadenze, misure, nomi. Voleva sorridere alla buona riuscita di un dialogo immaginario. Talvolta ci riusciva. Subito dopo si rammaricava d’essere solo. Va bene, c’era Antonio ma era come se non ci fosse a parte il lavoro di tutti i giorni. Quel giovanotto allampanato e di pelle chiarissima, era diligente e basta: mai un sorriso, mai un’idea, mai una curiosità nemmeno con le donne che entravano nella bottega. Bertot sapeva che non lo avrebbe mai potuto afferrare e sbattere dentro il suo garbuglio di fantasie. Era impermeabile, come se lavorasse con metà cervello riservando l’altra metà a chissà quale altra cosa.

Al pari di molta gente, il corniciaio immaginava a volte il lavoro che avrebbe potuto e voluto fare: scrivere commedie radiofoniche. Esibirsi in pubblico no, per carità, ma ascoltare la sua voce provenire da quelle scatolette colorate con l’asticella di ferro lucido, eh sì, sarebbe stato divertente. I dialoghi, bisogna dire, gli uscivano veloci.

Il guaio era che aveva timore della carta, dove avrebbe dovuto ovviamente fissare per sempre i volteggi della sua fantasia. Se ci si metteva, magari la sera con il sottofondo di quella musica sinfonica che gli pareva tutta uguale, improvvisamente iniziava a sudare e provava una crescente vertigine. Addirittura si alzava per controllare se fosse ancora capace di stare fermo con le gambe. Anni prima un tentativo era andato in porto e si era illuso di poter continuare. Aveva scritto: “Primo uomo: tu sei intelligente? Secondo uomo: dipende sempre dagli altri. Primo uomo: allora sei una figura allo specchio… Secondo uomo: no, sono solo uno specchio”. La trovata lo aveva entusiasmato, anche se aveva intuito che quello era da considerarsi solo un inizio, che il bello doveva ancora venire, forse limando qua e là, o con qualche aggettivo messo al posto giusto o in un posto dove gli altri non lo avrebbero messo affatto.

Senza rendersene conto Bertot aveva per un attimo sfiorato uno dei tanti capricci della comicità. Spenta la radio, era poi rimasto per più di un’ora con testa poggiata sui palmi delle mani. A riflettere. Grande errore: se fosse stato in compagnia dei suoi strumenti di lavoro e in mezzo alla polvere del legno, avrebbe trotterellato spedito, rinviando le correzioni. Invece proprio l’ossessione di correggere e migliorare lo aveva fatto inciampare e uscire dai cardini.

Risultato: Bertot concluse saggiamente, e malinconicamente, che il suo secondo lavoro non era altro che una delle infinite possibilità che di solito accompagnano la vita di un uomo, un oggettino invisibile da tenere in tasca e toccare ogni tanto nei giorni in cui lo scirocco dei discorsi al condizionale ti fa venire il mal di testa. Leggera malinconia, ma non il vetriolo del rimpianto. Certo, una stizza gli prese lo stomaco, ma per poco. Del resto non aveva scelto a caso di fare il corniciaio e quindi il ricordo di quella consapevolezza lo raddrizzò. Di nuovo in piedi con il morale, ma sapeva che era minacciato da un terribile movimento ondulatorio. Dovuto, pensava il corniciaio, forse a una malformazione cerebrale, a sinapsi guaste. Si osservava come un computer che ormai risponde poco o male ai comandi di chi digita sulla tastiera.

“Dita da pianista” gli diceva sempre sua madre che avrebbe voluto – lei e non lui: giusta distinzione – studiare al Conservatorio. Poi le vicende della vita, la scarsità di mezzi, si sa, si sa. Il padre, meno romantico, lo voleva meccanico. Teresio, per coincidenze che gli parvero qualcosa di simile alla fortuna di chi si muove in un bosco immenso, andò come apprendista da un corniciaio. Poi si mise in proprio. Un gran passo imprenditoriale: e questa parola altisonante gli infuse coraggio e ambizione, tutte cose necessarie per sopportare colloqui col direttore della banca, firme, avvalli, garanzie e altre umiltà contabili, quelle che ti spogliano nudo davanti a persone che non si vuole che facciano mai parte della propria vita. Il tempo della salita professionale, con apprensioni notturne e il travaglio delle attese, lo svuotò della capacità di fare battute e di rispondersi brillantemente.

Si appassionò al lavoro, dette prova di diligenza e persino di vocazione all’inventiva. Poi, già uomo in tutto e per tutto, scovò dentro di sé la ragione della scelta. E fu quella anche l’occasione di dare una spiegazione a chi gli chiedeva perché avesse scelto quel mestiere. “Perché” – così lui rispondeva, ma solo a se stesso visto che non glielo avrebbero mai più chiesto” mi piace guardare il mondo dentro una cornice”. Controdomanda: “Ma che cavolo di stranezza è questa? Lavori il legno o sfogli libri di filosofia?”. Teresio Bertot non si lasciò intimorire dall’invisibile interlocutore: “Il mondo è un gran casino e a guardarlo per intero, si fa per dire, la testa gira e io a quei giramenti sono refrattario”. E l’altro a incalzare: “Ma che minchione: e come ti regoli con tutto quel che rimane fuori della cornice?”. Come risposta un’alzata di spalle e una frase secca come uno sparo: “Non mi riguarda. Uno deve pur scegliere”.

C’è da dire che visse coerentemente a quella convinzione, venuta fuori con la stessa velocità di una battuta teatrale: non fu un caso che s’accorse proprio quel giorno di mettere a fuoco con più lucidità se stesso e tutto il resto seguendo un copione, domande e risposte senza la faticaccia delle descrizioni, qualcosa di agile e soprattutto di essenziale. Ma rimuginava quella faccenda la sera, quando era stanco e guardava la televisione. Diceva che la tv sciacqua il cervello.

Ma quel concetto spaziale che gli era sbucato fuori all’improvviso, un modo spiccio ma anche profondo per sancire il dentro e il fuori, si radicò e divenne anche un’ossessione.

Col figlio, che studiava da geometra, per spiegare le cose buone e cattive della vita diceva spesso: “Ah, questo è fuori cornice, non se ne parla proprio”. Gli scappò di dire “fuoricornice” invece di “fuoricampo” guardando una partita di calcio. Il figlio talvolta lo guardava con una certa accondiscendenza, allora lui avvertiva la necessità di dilungarsi: “La vita bisogna inquadrarla, bisogna ingabbiarla…sì, sì, proprio ingabbiarla…collocarla in limiti ben precisi…è un po’ come un cane: senza museruola abbaia troppo o può mordere. E poi, caro il mio ragazzo, mica siamo nati per vedere tutto, siamo mica Dio, eh no, e poi ci vuole coraggio a restringere il campo… non vederla come una sconfitta. Su, dammi retta: la cornice è fatta apposta per misurare la vita, dentro ci vedi quel che è necessario vedere, fuori è il caos”.

Il figlio ascoltava fino alla fine e poi: “Certo, papà”. Era chiaro che quelle frasi entravano in un orecchio per uscire quasi subito dall’altro. Il padre avvertiva un atteggiamento pietoso e paziente, dovuto alla buona educazione più che a un solido convincimento.

Alla moglie, che in casa girava sempre con larghi grembiuli bianchi, spiegava che la loro vita, tutto sommato si agitava dentro la cornice giusta. Le ripeteva queste considerazioni durante le passeggiate domenicali al parco, quando lei non sembrava più un’infermiera. Magari riprendeva l’argomento quando uscivano da un cinema, lui un po’ agitato per un film dove, apparentemente, non c’era alcun ordine, anzi tutto sembrava una sequela di contraddizioni. “Non ti sembra anche a te, Maria?”.

“Ma… scusami” le disse una sera “come mai ti fa tanta fatica commentare un film?”

E lei, sorridendo appena: “Ma che c’è da dire? Un film lo si guarda e basta…”.

“Ma è pur sempre un’occasione per scambiarci opinioni, non credi?”

“Tu sei uno che dovrebbero invitare ai dibattiti televisivi. Parole, parole…e che servono alla fin fine, me lo dici? Uno vede un film e basta. Se è buono ci si diverte, altrimenti si spera che vada meglio la prossima volta. Tutto qui”.

“La fai facile”.

“ Caro mio, tu fai sempre della filosofia. Scusa se te lo dico, ma rischi di essere pedante. Vivi e basta, santiddio, che altro cerchi? Me lo sai spiegare”.

Teresio non rispose. Si rattristì.

E la donna, agghindata per la modesta occasione mondana, continuava ad assentire spesso, anche quando non andavano al cinema. In altre parole non aveva più parole. O meglio: le teneva per sé.

Aveva fianchi larghi e vita sottile e per questo attirava gli sguardi degli uomini. Il suo bel sedere, alto e tondo, dentro una cornice avrebbe fatto l’effetto di un’orchidea infilata in una scatoletta di plastica. “È vero, Teresio, è vero” rispondeva quando il marito, magari alla fermata dell’autobus, la guardava insistentemente per poi dirle che aveva un corpo formidabile”.

“Lo so. E grazie a Dio. Non credi? O a mamma che m’ha fatta così. Non c’è altro da dire. Un corpo è un corpo…”.

“Maria, ma su un corpo si potrebbe scrivere addirittura un libro…”

“Fallo, allora. Se ti rende contento e se, magari, riesci a farci dei soldi”.

Frasi, quelle della moglie, rivolte più all’asfalto che alle orecchie del marito. Come non volesse innescare una conversazione, una serie di contatti mentali. Pareva voler spiegare: ho delle belle cosce? Sì? Allora toccamele, accarezzamele, ma non farci della filosofia. La carne è carne. Il culo è il culo. Stop”.

Per il ripetersi di quelle tiritere su dove bisognava collocare persone cose e addirittura la vita, Maria, quando si trovava sola, fantasticava con qualche malizia su quanto non era da delimitare dalle cornici. Era attratta dal fuori-cornice. Che sia stata contagiata da quello strano uomo che ho sposato? Pensiero in lei ricorrente, galleggiante su una indefinibile amarezza. E rifletteva ancora: è la stessa fantasia di chi abita su una sponda del fiume e non raggiunge mai l’altra: su questo si tormentava, ma sempre da sola, alla ricerca di una spiegazione, o un alibi quando l’immaginazione si scaldava un poco, la signora Bertot nelle ore lunghe di casalinga, quando non le capitava di battere al computer tesi universitarie, modesto lavoro che le forniva modeste somme, però tutte sue.

Col passare del tempo, non solo in casa aveva cominciato a covare quei pensieri senza risposta. L’altra sponda sconosciuta e pericolosa s’illuminava improvvisamente anche quando andando a fare la spesa e s’accorgeva che molti uomini seguivano con lo sguardo il suo sedere, le sue gambe e i suoi fianchi. Un cenno d’ancheggiamento, questo sì, ma subito dopo un’autocorrezione. Con una severità superficiale.

A volte si scuriva in viso.

“Ma che hai, Maria?”.

“Niente, niente… Sai Teresio, francamente io ti invidio un po’”.

Magari la donna, con l’inizio di quel turbamento, si stava accostando al marito in maniera più intima? Domanda che però non s’era mai posta.

“Sarebbe a dire?” chiese Teresio.

“Be’…tu hai le tue cornici, sei un uomo ordinato, anche dentro capisci? Ordinato nel tuo io…”

“Ma anche tu, cara”.

“Sì, sì” mentì lei “Comunque non ci badare, sono scemenze di donna le mie…”

“Malinconia, forse…” e poi a voce più bassa “non è che ti debbano venire le tue cose? Sai, è naturale…”

“Sì, è per questo” mentì ancora. Poi pensò come sarebbe stato buffo mettere in cornice anche il suo ciclo mestruale, ma che storia sarebbe stata quella, un quadro astratto con righe e macchie, ma che mi passa in testa!

“Perché ridi adesso” le domandò suo marito.

“Niente, la malinconia…quella che hai detto, quella che sai…che ha i suoi alti e i suoi bassi. Un’altalena. Il gioco dei bambini, che certe volte, a furia di dondolare e di voler salire in cielo, vomitano”.

“Eh già”: questo il solo commento del marito, un po’ sorpreso dall’uso che Maria aveva fatto di una metafora. Pensieri fino ad allora tenuti nel cassetto? Volontariamente o per la noia di dirli all’uomo che aveva sposato e col quale dormiva con l’indifferenza mascherata da qualcosa che assomigliava alla dignità. O alla freddezza del cuore, voluta e perseguita chissà per quali scopi. Forse erano stati anni di autopunizione. Il corniciaio, in quel gomitolo di formule ipotetiche sapeva di rischiare di smarrire l’orientamento. Si soffermò su una parola e l’appiccicò a sua moglie: il disprezzo. Ma non quello di lui per lei. Proprio l’inverso. Ecco che gli anni coniugali erano diventati uno specchio deformante dinanzi a uno simile e complementare.

Ma con quegli “eh già” Teresio Bertot non risolveva niente. Manco l’aiutava un poco. Le guardò la schiena perché lei si era avvicinata alla finestra e aveva cominciato a pensare a quel rappresentante di commercio che ogni tanto incontrava per strada. Abitava vicino- lo aveva scoperto per caso- e le lanciava certe occhiate mentre scendeva dalla macchina color caffelatte… E lei ridacchiava, e camminava più lentamente. Occhiate lunghe come una cometa, ma non volgari. O così a lei pareva: e questo alla fine è qualcosa che apre meglio un portone o lo tiene aperto.

Un giorno quel corteggiatore silenzioso riuscì a parlarle, finalmente. Cominciò con lo scusarsi perché la portiera dell’auto si era aperta nel momento in cui Maria passava, vicinissimo no, ma a una distanza tale da giustificare a voce una distrazione, che fosse studiata oppure no, lei non si accorse e nemmeno ci pensò.

Parlarono, lui abile a inanellare una frase con un’altra, e ad affiancarsi con naturalezza in quel tratto di strada senza domandarle dove andasse, ma soprattutto se la sua presenza le dispiacesse. E così passeggiarono nel rione, imprudentemente. Maria si dispiacque d’ avere in mano il sacchetto con la scritta rossa del salumiere e non una borsetta di vera pelle, magari da far dondolare con allegria in circostanze che non le si erano mai più presentate dopo il matrimonio. Quella plastica molliccia non sapeva dove metterla, mica poteva nasconderla o lasciarla cadere a terra. Non una vergogna, ci mancherebbe, ma era così stonata al confronto con sua ritrovata elasticità, svagata e addirittura un po’ mondana. Rimediò col movimento degli occhi e anche delle labbra. Cosa che Bertot, se l’avesse notato e analizzato, non l’avrebbe infilata di certo in una cornice di famiglia. Per lui sarebbe stata una specie di scarto, un mucchio di segatura da far sparire con la ramazza.

Dopo alcuni mesi lei si decise a riferire quella “circostanza”- questa la parola che usò- al marito, in un pomeriggio domenicale di pioggia fine. Erano sul bordo del terrazzino dove Maria si ostinava ad accumulare piante e pianticelle, senza mai curarle con la necessaria costanza.

Teresio le fece domande a ripetizione, come se avesse imbracciato un fucile di guerra moderna. Fu un grande sbaglio, anzi enorme, avrebbe ammesso dopo. Ma fu più forte di lui la tentazione di capire, di isolare un episodio, cercare connessioni tra questo e magari altro, che certamente ignorava visto che lei raccontava sempre così poco di sé.

(fine prima parte)

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