Raoul Precht
Periscopio (globale)

Agnon, il Patriarca

A cinquant'anni dalla morte, ritratto di Shmuel Yosef Czaczkes, in arte S. Y. Agnon, primo e unico scrittore di lingua ebraica a vincere il Nobel: un riferimento costante per la letteratura delle identità

In alcune letterature la figura del patriarca ha un impatto fortissimo, al punto che gli scrittori delle generazioni successive non possono scrivere praticamente nulla se non occupandosene, spesso usandola come metro per misurare le proprie forze e comunque, sempre, facendoci i conti. È senz’altro il caso della letteratura ebraica contemporanea, che ancora paga un fondamentale tributo – attraverso i suoi vari Oz, Yehoshua, Appelfeld, Grossmann, ciascuno peraltro originale e diverso dall’altro – a un grande patriarca, appunto, qual è stato Shmuel Yosef Czaczkes, in arte S. Y. Agnon.

In occasione del cinquantenario della morte, avvenuta a Rehovot il 17 febbraio del 1970, è interessante cercare di capire appunto quanto del magistero di Agnon sia andato irrimediabilmente perso e quanto i suoi continuatori abbiano saputo e voluto mantenere, sia pure adottando spesso una salutare distanza critica. Il percorso biografico e letterario di Agnon è piuttosto esemplare: nato in una piccola cittadina della Galizia, Buczacz (oggi l’ucraina Buchach), nel 1888, pubblica la prima poesia a quindici anni e scrive per tutta la prima fase della sua produzione, prevalentemente giornalistica, in yiddish, pur conoscendo perfettamente tanto l’ebraico quanto il tedesco. Nel 1907 è a Leopoli, ma già l’anno successivo si trasferisce nella terra promessa, in Palestina, dove vivrà per alcuni anni, pubblicando nel 1912 il primo romanzo, E il torto diventerà diritto (Bompiani, 1966). Prima ancora di questo romanzo era uscito tuttavia un suo racconto, Agunot, storia di un matrimonio fallito, dal cui titolo avrebbe derivato in seguito il nome d’arte di Agnon – letteralmente: “tagliato fuori”, “escluso”, dal termine legale agunah, (il cui plurale è appunto agunot) che designa le donne alle quali i mariti rifiutano il divorzio.

Durante la prima guerra mondiale Agnon si sposta in Germania, dove collaborerà con Martin Buber e conoscerà la futura moglie, Esther Marx; un altro incontro importante di questi anni è quello con l’editore Schocken, il quale nel corso dei decenni pubblicherà su vari giornali e in volume tutte le sue opere. Del 1924 è il ritorno definitivo in Palestina, e tuttavia non a Jaffa (oggi parte di Tel Aviv), dove aveva soggiornato in precedenza, ma a Gerusalemme. Il ritorno farà seguito a un evento traumatico, l’incendio della casa dove abitava a Bad Homburg, con la distruzione di tutti i suoi libri, molti dei quali rari, e di tutte le sue carte, manoscritti compresi. Una maledizione che peraltro si ripeterà cinque anni dopo a Gerusalemme, a causa delle sommosse antiebraiche.

Premio Nobel per la letteratura nel 1966, ex-aequo con la poetessa tedesca Nelly Sachs, Agnon è il primo e unico scrittore in lingua ebraica ad aver ottenuto tale riconoscimento. L’abbinamento con la Sachs è tuttavia curioso: nell’opera della poetessa l’Olocausto è ben presente, se non addirittura dominante, mentre occupa un posto molto modesto nella produzione di Agnon, più legata da un lato al periodo interbellico e alla ricostruzione di un’esistenza edenica negli shtetl dell’Europa centro-orientale, dall’altro alla costituzione nel 1948 dello Stato d’Israele e alla città di Gerusalemme, di cui sarà cittadino onorario, quale porto finale dell’ebreo errante. Soprannominato da Gershom Scholem “l’ebreo degli ebrei” per la sua estrema ortodossia, derivante forse anche dall’aver avuto un padre e un nonno che erano stati dei rabbini ufficiosi, Agnon è fortemente permeato di storie bibliche, sebbene quest’influenza sia temperata da una profonda conoscenza della letteratura europea, e in particolare di quella tedesca. La filiazione biblica, oltre che nelle storie narrate e nell’angolazione prescelta, è evidente soprattutto nel linguaggio, basato su fonti tradizionali rabbiniche e a volte, con le sue infiltrazioni di vernacolo yiddish e di tedesco, piuttosto distante dall’ebraico moderno, che tuttavia Agnon ha contribuito come pochi a modellare. Il lettore ideale di Agnon, in parole povere, dovrebbe avere una profonda familiarità non solo con l’ebraismo e i suoi rituali – come avverrà anche per lo scrittore-rabbino statunitense Chaim Potok -, ma con l’intera tradizione letteraria, folclorica e religiosa sottesa ai suoi libri, il che con il passare del tempo si fa però sempre più raro.

A titolo d’esempio per il filone biblico della sua opera si prenda il racconto allegorico Nel cuore dei mari (BiLevav Yammim), scritto nel 1926 (Adelphi, 2013). In questo lungo racconto il protagonista, Hanania, guida un gruppo di pii ebrei della Galizia polacca verso Israele, lungo un itinerario messianico e mistico-simbolico contrassegnato da sogni, visioni, fantasticherie, scherzi sorprendenti del destino e soprattutto una serie di prove da superare, che fanno del viaggio una specie di rito iniziatico. Non manca l’autore stesso, che sarà l’ultimo a raggiungere l’eterogeneo gruppo con il nome di Rabbi Shmuel Yosef, e di cui viene detto che ha una certa facilità affabulatoria, da vero contastorie. Per dare un’idea dello stile adottato basti qui la descrizione della capitale ottomana, in cui Agnon sembra fare il verso alla letteratura odeporica: “Stambul è una grande città senza eguali al mondo, vi sono molte fortezze e vi abita gente di tutte le nazioni, e il sultano le governa stando sdraiato su un letto d’avorio che gli induce sonnolenza. Talvolta dorme mezzo anno, talvolta un anno intero. Davanti a sé ha uno scrigno pieno di tabacco da fiuto, e sullo scrigno è appollaiato un uccello d’oro. Quando è ora di alzarsi l’uccello apre lo scrigno, si accosta al re e gli infila tabacco nelle narici, il re starnutisce e l’uccello gli dice: salute. Subito accorrono tutti i ministri, i pascià e i duchi e gli chiedono come sta.”

Questa breve citazione introduce a un altro dei capisaldi della scrittura di Agnon, e cioè l’onnipresente ironia. Ironia di toni e situazioni, ironia soprattutto nei confronti delle istituzioni sociali ebraiche, che Agnon sparge come una spezia anche nelle storie più cupe o complesse, facendone quasi il contrappeso della preoccupazione con cui guarda al declinare della spiritualità e del semplice buonsenso nelle comunità ebraiche dell’Europa orientale. Sono queste ultime, infatti, almeno fin da Hakhnasat Kalla (Il baldacchino nuziale), scritto fra il 1920 e il 1931 e inedito da noi, a essere al centro della sua attenzione critica, ed è questa la società di cui canta in definitiva la decadenza. Non è un caso che in molte delle sue opere venga ritratto nostalgicamente, sotto mentite spoglie, il luogo di nascita, Buczacz, per il quale Agnon sceglie però il nome letterario di Szybusz, che in ebraico ricorda la parola shibush, ovvero “declino” o “crollo”, ma anche, nel linguaggio comune, “cosa di poco conto”. Parte del fascino dei suoi racconti risiede nella contraddizione fra la necessità di lasciare lo shtetl natale, perché l’unico posto adatto a un giovane è la Palestina, e il fatto che abbandonare il villaggio significa condannarlo alla distruzione per mano dei nazisti. Al tempo stesso, solo una volta scomparso esso potrà diventare, nella pietà del ricordo, davvero mitico. Ma la decadenza di uno shtetl è data anzitutto, per Agnon, dalla perdita di fede nella Torah e dal venir meno del senso di pietà e di altruismo nei suoi abitanti; non di rado il protagonista dei suoi romanzi è una persona umile, povera, gentile e relativamente passiva, che soffre per determinate cose che gli accadono e cui cerca di porre rimedio, coinvolgendo, o cercando di coinvolgere, nella sua disarmante resistenza l’intera comunità.

Anche la vicenda di Blume Nacht e di Hershl – Una storia comune (Sippur Pashut), del 1935 (Adelphi, 2002) – prende le mosse da un evento esterno, la morte della madre di Blume, che costringe quest’ultima, ancora ragazzina, a riparare in casa di certi lontani parenti che vivono appunto a Szybusz, dove sono proprietari di un prospero negozio di alimentari. Boruch Meir Hurvitz e sua moglie Tsirl non respingono Blume, ma non sono neanche entusiasti di accoglierla; Tsirl, che in quel momento ha giusto bisogno di un aiuto domestico, le offre di lavorare in casa e in negozio per loro, senza prevedere che il figlio Hershl potrebbe, come poi indefettibilmente accadrà, innamorarsi della ragazza. Ma per Hershl le ambizioni della madre sono ben diverse: deve sposare Mina Ziemlich, discendente di una ricca famiglia ebraica. (Qui bisognerà introdurre una parentesi per sottolineare l’importanza dei nomi in Agnon, nomi che sono tutt’altro che casuali: Blume Nacht rievoca in tedesco il fiore e la notte, mentre Ziemlich vuol dire “abbastanza” o “piuttosto” – e vedremo ora il perché.) Naturalmente Hershl finisce per sposare Mina e Blume sarà allontanata, ma la storia non termina qui: non nella mente di Hershl, quanto meno, il quale dopo il matrimonio combinato prende a disprezzare la moglie in tutte le sue manifestazioni e si attacca sempre di più al fantasma della giovane lontana che ama o crede di amare, al punto da finire, dopo lunghe notti insonni e varie crisi, in una clinica psichiatrica per un attacco di follia. Ora, se la storia finisse qui, magari con un bel suicidio, ci troveremmo nell’ambito di un comune e banale melodramma; ma Agnon ci sorprende, giacché, grazie anche alla nascita del secondo figlio, ma soprattutto alle cure del dottor Langsam – altro nome simbolico: langsam in tedesco significa “lento” ed evoca quindi un personaggio che si prende la pena di analizzare la situazione dei pazienti in tutta tranquillità -, Hershl non solo si reinserisce nella vita dello shtetl, ma scopre improvvisamente di amare la moglie che lo ha atteso con pazienza e di potersi liberare dall’ossessione di Blume. Il dialogo finale fra Mina e Hershl è tuttavia un concentrato di sapienza e ambiguità. A Mina che afferma, pensando ai due figli, e soprattutto al neonato affidato in quel momento ai suoi genitori in campagna, che l’amore può essere sempre esteso ad altre persone, Hershl risponde, un po’ fuori tema, che non è affatto così, e che l’amore è reso possibile solo quando nessuno si frappone fra esso e noi stessi. Questo scambio fra i due introduce un commento finale di Agnon secondo cui solo Dio in cielo poteva sapere se in quel momento Hershl si riferiva al neonato, e ci lascia quindi con il dubbio che in realtà Hershl sia diventato davvero pazzo, e proprio adesso che, tornato al rispetto delle tradizioni e nell’alveo della famiglia, tutti lo considerano normale.

Com’è stato più volte rimarcato dalla critica, il triangolo amoroso è senza alcun dubbio uno dei temi principali nella narrativa di Agnon, tema che ritorna anche in un altro libro, dal titolo Nel fiore degli anni (BiDmi Yameha), scritto nel 1922 (Adelphi, 2008). La madre della protagonista Tirza, Lea Mintz, nasconde degli scritti in un cofanetto e quando crede che nessuno la osservi li estrae, li legge, li brucia e ne aspira il fumo fino a sera. Quando muore, la figlia Tirza non riesce a capire cosa unisca il padre al marmista Akavia Mazal, che scrive l’epitaffio sulla tomba e che in precedenza – come Tirza scoprirà in seguito – aveva composto anche i versi bruciati dalla madre. Fra i due uomini, nel ricordo della donna, si sviluppa una strana alleanza, fatta di mutuo rispetto e quasi di tenerezza. “Settanta volti ha il male e una sola faccia l’amore,” conclude Agnon. Se siamo di nuovo in presenza di un triangolo amoroso, stavolta l’epicentro è la donna, divisa tra un marito che non la soddisfa e un amante per varie ragioni irraggiungibile o vietato; ma l’impossibilità del soddisfacimento del desiderio, che ne sia soggetto l’uomo o la donna, è esattamente della medesima natura, ed è radicata nello scontro fra la tradizione, che pure arricchisce enormemente l’esistenza e le conferisce solidità, e le spinte di una modernità per accogliere la quale il soggetto spesso non è ancora maturo. Talmente forte è la sofferenza, oltre tutto, da potersi tramandare, da trascolorare nella vita dei discendenti, ai quali non resta che rifugiarsi nella scrittura. Non è certo per un puro artificio retorico se alla fine della sua narrazione Tirza è costretta ad ammettere: “…è per trovare pace scrivendo, ecco perché ho scritto tutto ciò che si legge in questo libro.” Chissà, forse anche Agnon avrà trovato la sua pace scrivendo.

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