Giuliano Capecelatro
Cartolina da Berna

L’Ämmitalianer

Dialogo tra un napoletano e uno svizzero («metà Emmental e metà italiano») alla ricerca di una inesistente "purezza etnica". Perché la vita è un miscuglio di contraddizioni: la Storia e gli individui lo dimostrano

La Roma… la Roma.  Perché poi la Roma? Non capisco.

«Roma, al contrario è Amor, no? Ed è così. Arrivo a Roma, venticinque anni fa, resto incantato. Dalla città. Dalla gente, orgogliosa di essere romana, ospitale, dal cuore aperto.  Poi incontro il grande amore della vita, mia moglie».

Bella cartolina, un’apoteosi dei sentimenti, va bene. Ma la Roma? Che ci azzecca la Roma con l’Amor?

«Venivo dalla Spagna, da Barcellona, altra città fantastica. Un incontro internazionale, encuentro intergalactico de la humanidad, gente di sinistra, compagni. Lì avevo conosciuto alcuni ragazzi del Forte Prenestino, attivi, disponibili, e fra di loro molto affettuosi, coccolosi… si può dire? E molto, molto romanisti».

Capito, ti hanno indottrinato ben bene

«Ma no. Si sono solo limitati a dire peste e corna della Lazio, troppo amata dai fascisti secondo loro. Ma non c’era bisogno, giallo e rosso sono colori stupendi. Li adoro da quando ero bambino; sono quelli dei Tigri, squadra di hockey di Langnau, nell’Emmental, la mia regione. I Tigri, la mia prima passione sportiva».

Un napoletano e uno svizzero. Antipodi nell’universo degli stereotipi: una teatralità naturale, spesso farsesca, incardinata su un’etica malandrina da una parte; la rapacità del capitalismo finanziario sposata all’etica farisea del “non nel mio giardino” e al culto dell’ordine dall’altra. Questi i cliché.

Napoletano del centro storico: cardi e decumani, cristivelati e caravaggi; sangue greco, abbondantemente miscelato nel corso dei secoli, c’è da supporre, con quello delle infinite etnie presenti su quel palcoscenico: dai fenici agli hidalgo spagnoli; nell’albero genealogico qualche nome di spicco nella storia cittadina, non disdegnoso di contaminazioni popolaresche in una città dove aristocrazia e plebe vivono fianco a fianco; simulazione di patto sociale che non abolisce, ma anzi esalta le distanze.

Svizzero dell’Emmental, che per gli italiani è solo un formaggio. Regione interna, terra ubertosa, operosa, discreta, campagna felix popolata di armenti serenamente bradi, idillio bucolico che si candida come immagine della Svizzera più autentica; gli Elvezi, stirpe celta, non aliena da quelle commistioni che la Storia, nella sua imperturbabile astuzia, non risparmia neppure ai più irriducibili razzisti. Paese in cui le differenze sociali sembrano assicurate da compartimenti stagni, soprattutto dove c’è maggiore ricchezza. Ce n’è d’avanzo per aprire il catalogo e srotolare il nutrito campionario di luoghi comuni e pregiudizi.

Quindi la passione dai Tigers, i Tigri come li italianizzi tu, dall’hockey, su ghiaccio peraltro, si è trasferita al calcio, italiano per giunta. Alla Roma. Una bella conversione per uno svizzero.

«Oh, non hai idea di cosa significa stare all’Olimpico. Tutta quella gente che canta, ma propria tutta, l’inno della squadra ti mette i brividi. La passione per i Tigri è rimasta. Nel calcio c’è lo Young Boys, la squadra di Berna. Ma è un’altra cosa».

Già, perché non c’è tifo in Svizzera; negli stadi non si canta, urla, inveisce… tutti composti come statuine.

«Ma sì, ma sì; a Langnau, a Berna, il tifo c’è, ma quasi solo nelle curve. E non è così coinvolgente come quello che ho vissuto dalla prima volta all’Olimpico. Tutti insieme: gialla come il sole, rossa come il cuore mio. La prima partita che ricordo era contro l’Inter, perdemmo, un gol di Materazzi, ma quella scenografia, quella coralità mi diedero comunque un’emozione incredibile».

Ma lo Young Boys negli ultimi anni ha vinto il campionato e quest’anno è in testa alla classifica. Ho visto una folla di sciarpe giallonere in città, massicce transumanze tifose per le partite, e un tram che attraversa il centro dalle fiancate completamente istoriate in onore della squadra. Non mi sembra manchi l’entusiasmo, il folklore sportivo.

«Certo, si festeggia. Ma c’è poco da fare, in Svizzera sono più freddi, distaccati. A Roma ti senti parte di un unico organismo, non sei straniero, sai di essere davvero ben accetto. Quel calore mi manca molto. È stata subito una passione travolgente. Soprattutto grazie al Capitano».

Non generiamo equivoci, in Italia adesso abbondano i capitani, con la C maiuscola, sinceramente ce n’è qualcuno di più. Tu intendi Francesco Totti, credo.

«Il re di Roma, certo. Per me è l’unico Capitano. Campione straordinario, ma anche un bel carattere, piacevole. Uno che è sempre rimasto nella squadra in cui è cresciuto; una fedeltà non comune, che apprezzo molto negli sportivi».

Er Pupone si affaccia lungo le scale della casa da un poster che è ormai archeologia. Mascella volitiva, pugno alzato, non certo a dichiarare una fede politica. Dal piano superiore Antonello Venditti bombarda le orecchie con soli gialli e cuori rossi. Di colpo, beffa goliarda, subentrano le note lagnose dell’impresentabile inno del Napoli.

Apprezzi la fedeltà, tu che sei stato sportivo, e anche ad alto livello.

«Vicecampione mondiale di kick boxing, nel 2001. Titolo perso per una manciata di secondi. Ma questo è poco importante. Lo sport mi ha dato ben altro».

Disciplina, un ordine mentale, immagino.

«Quella è la superficie. No. Le arti marziali hanno alle spalle una filosofia solida, una visione del mondo. Al primo posto mettono il rispetto per l’avversario. Le radici sono nel buddismo: il buddismo chan, cinese, che in Giappone diventa zen. La bandiera è la non violenza. Puoi utilizzare la tua forza, la tua tecnica, solo per autodifesa, mai per attaccare. Tu pensi all’ordine, ecco un bel luogo comune, perché sono uno svizzero. Ma quando ero giovane l’ordine non mi piaceva; ero un ribelle, figlio di un uomo che credeva profondamente nella rivoluzione, ed era in contatto con movimenti rivoluzionari nel mondo».

E allora cosa ti ha fatto avvicinare alla kick boxing?

«La paura».

Paura, tu? Ma se sei un cristone! E io che dovrei fare, andare in giro coperto da un’armatura medievale dalla testa ai piedi?

«Paura, proprio paura. Può sembrare strano a chi viene da fuori, ma anche qui, in Svizzera, ci sono situazioni brutte, pericolose. Non sapevo come difendermi. Ero, sono, non violento. Scoprii le arti marziali, cominciai col taekwondo, poi passai alla kick boxing. Oggi mi cimento nel kung fu e in discipline che coltivano soprattutto la gestualità; che non mirano al risultato, ma alla forma, al controllo del proprio corpo: il kyudo, ad esempio, l’antica arte giapponese del tiro con l’arco».

Siete un popolo sportivo, a quanto vedo. Le rive dell’Aare e i parchi pullulano di persone che corrono e fanno esercizi fisici.

«Bisogna distinguere. Lo sport è molto importante. Può insegnarti tanto.

Prima di tutto, ripeto, il rispetto autentico per l’avversario. Nel calcio parlano di fair-play, ma sono chiacchiere, parole vuote; nelle arti marziali esiste davvero. Lo sport fa bene, ma è anche il “panem et circenses” degli antichi romani. A me, devo confessare, lo sport ha salvato la vita».

Salvare la vita? Ora esageri.

«Per niente. Mio padre ha combattuto per decenni con la tossicodipendenza. Senza lo sport, è abbastanza probabile che potesse capitare anche a me: certe eredità sono difficili da evitare. Del resto, ho anch’io la mia addiction, il cibo; per questo gli amici italiani mi chiamano cassonetto, butto giù tutto. Ma con l’attività sportiva ritrovo subito la forma, l’equilibrio fisico».

Patrick Baumgartner, cognome decisamente svizzero tedesco, Beny per familiari ed amici, cinquantenne ex campione di kick boxing, allenatore della squadra nazionale, un metro e ottantacinque di muscoli ancora tonici, artisticamente tatuati. Medico agopuntore, si aggira tra lo studio e la casa in tuta, ovviamente giallorossa. Si esprime in un italiano fantasioso, intriso di spagnolismi e neologismi di un esperanto made in Switzerland sfornati al momento.

In Italia dici Svizzera e la prima immagine che viene in mente sono le banche. Potenti, arcigne. Trincerate dietro un segreto bancario granitico. Un organismo internazionale, il Tjn (Tax justice network), mette la Svizzera al primo posto nel mondo tra quanti difendono con le unghie e con i denti questo segreto, che agevola l’evasione fiscale, in Italia altissima. E quando non è il segreto bancario, sono le facilitazioni fiscali che attraggono chi ha soldi e non accetta l’idea di dover dare la sua parte allo Stato. Non pochi italiani facoltosi hanno la residenza qui proprio per questo.

«È così, non c’è dubbio. Le banche si arricchiscono. In questo modo hanno creato la prosperità di cui godiamo. Ma in tutto il mondo il sistema delle banche funziona così».

Si sa che non sono mai andate troppo per il sottile; Pecunia non olet, cioè il denaro non ha odore, e hanno volentieri aperto i loro forzieri anche ai nazisti.

«Non solo ai nazisti. Si perde il conto. Non si sono fatti scrupoli per l’apartheid. Hanno sostenuto Marcos nelle Filippine, e ogni altra specie di dittatore. Ma adesso anche qui spuntano banche con un orientamento diverso, più etico. D’altronde, è il denaro che governa il mondo. Un’astrazione che domina la vita reale, è assurdo. Io sono per la condivisione. Anni fa, quando ho ricevuto un’eredità l’ho data al movimento dei Tupamaros dell’Uruguay. Sono anticapitalista al cento per cento, non concepisco l’idea di accumulare. È una nevrosi, un’ossessione che soffoca lo sviluppo positivo dell’essere umano».

C’è una bellissima battuta di Orson Welles ne Il terzo uomo sulla Svizzera, che in cinquecento anni di pace avrebbe saputo creare soltanto l’orologio a cucù. È ingenerosa, senza dubbio, forse contiene una punta di razzismo. Uno stereotipo, che però rende bene l’idea dell’immagine che generalmente si ha del tuo paese. Una tranquillità un tantino soporifera, scandita dal perfetto meccanismo di un orologio.

«Non ho visto questo film. C’è del vero nella battuta. In Svizzera siamo schiavi dell’orologio, della puntualità, del mito dell’ordine. L’ordine è anche importante, ti facilita la vita. Ma non bisogna eccedere. Altrimenti si cade nello stress, lo stress da ordine perfetto, che per me è la malattia svizzera. Viviamo nella Disneyland del mondo, ma in realtà molti sono insoddisfatti, prigionieri di questi miti: ordine, perfezionismo, pulizia maniacale. Anche per l’igiene c’è un eccesso, entri nelle case e ti sembra di entrare in un museo. E così anche per la puntualità».

Adesso scopro di essere più svizzero di te. Credo che essere puntuali sia fondamentale.  Se ho un appuntamento, mi sento a disagio se arrivo con cinque minuti di ritardo. Sta’ a vedere che, per gli scherzi che è capace di combinare la Storia, c’è più napoletanità nel tuo dna, mentre qualche gene svizzero deve essersi infilato nel mio.

«Io sul lavoro sono puntualissimo, sia chiaro: le tre sono le tre e non c’è storia; ma poi penso che bisogna allentare i freni. Credo che ci siano due orologi: quello che portiamo al polso, meccanico, un secondo è un secondo, sessanta secondi sono un minuto e così via, sempre e comunque; aiuta ad organizzarsi, e per questo va benissimo. Ma non è un orologio… naturale. Bisognerebbe trovare un equilibrio, mentre invece, qui in Svizzera, si vive troppo sotto la dittatura di quel tempo meccanico. Non si seguono ritmi naturali, come invece fa Tigre, il mio gatto, che mangia quando ha realmente fame, dorme quando è stanco, esce quando ha voglia di uscire. Che meraviglia a Roma! Hai un appuntamento, e l’amico arriva tre quarti d’ora dopo.  Ah, è qualcosa che mi rilassa, mi fa star bene».

A Berna, nella centrale Marktgasse, nei luoghi pubblici, trionfa un indiscriminato melting pot. Stessa atmosfera in ogni cittadina svizzera. Asiatici, africani, europei, tutti insieme appassionatamente. Non si avvertono sulla superficie increspature che rimandino a tensioni, avversioni, repulsioni.

A prima vista si direbbe che qui il razzismo non esista. La vita scorre pacifica, tranquilla. In Italia, invece, si respira un’aria malsana; tutto è esasperato, un corpo in preda a uno spasmo nevrotico, con gli slogan- quando non la violenza- assurti ad unico strumento dialettico; domina l’odio contro il diverso, lo straniero povero e in cerca di rifugio, quello ricco è sempre adulato e riverito, fomentato ad arte da politicanti senza scrupoli, ingabbiati nella logica perversa dei sondaggi.

«Ma la tua è solo un’impressione. Razzismo ce n’è, molto. Populismo, alimentato dalla destra radicale, E anche molto sessismo. Ce n’è di cammino da fare. Come in Italia oggi, in Svizzera troppi hanno dimenticato che un secolo fa anche qui erano costretti ad emigrare per la fame, per sopravvivere, a cercare pane e lavoro negli Usa, in Canada, nel Sud America».

Qualche anno fa il razzismo appariva più evidente, esplicito. E i lavoratori italiani sono stati quelli che ne hanno fatto maggiormente le spese.

«Già. Un mio prozio paterno, si chiamava James Schwarzenbach, famiglia aristocratica, è stato il capofila del movimento politico contro gli immigrati, dello stop ai lavoratori che venivano da fuori, principalmente italiani. Per me, una vergogna di cui cerco di parlare il meno possibile. Preferisco ricordare la sorella, Anne Marie, scrittrice come il fratello, ma decisamente antifascista, all’opposto di quel prozio razzista». Schwarzenbach, certo! Promosse un referendum, agli inizi degli anni Settanta, che fallì per un soffio. Quasi il cinquanta per cento degli svizzeri votò per far sloggiare migliaia di lavoratori stranieri. Ma tu, come mille altri tuoi connazionali, hai sposato un’italiana. Per i meccanismi delle leggi, sei anche italiano.

«Ämmitalianer, così potremmo dire: metà Emmental e metà italiano. Certo, ho anche diritto di voto, oltre alla doppia nazionalità sul passaporto».

Venivate da culture ed esperienze tanto diverse, Ci sono state difficoltà agli inizi del rapporto?

«Le difficoltà le ha avute solo Serena, mia moglie, che è venuta a vivere qui e si è dovuta adattare ad un clima meno felice dell’Italia e a rapporti più formali, rigidi. Ma c’è riuscita benissimo, e oggi è più svizzera di me».

In un certo senso si può dire che hai sanato quella ferita aperta dal tuo prozio e dai tanti che la pensavano come lui.

«Guarda, ti devo dire che del concetto di nazionalità non me ne frega proprio. Non mi sento svizzero, come non mi sento italiano; per il mio modo di vedere, non hanno senso confini e nazioni».

Un po’, se vogliamo, il concetto portato avanti da Imagine di John Lennon, un tuo punto di riferimento come tutta la musica dei Beatles.

«Anche. Ma diciamo che, finite le scuole superiori, ho sentito qualcosa che potrei chiamare il grido della Madre Terra. Avrei dovuto fare il militare, ma io sono antimilitarista convinto. Per fortuna si poteva scegliere di fare il servizio civile. Allora sono andato a lavorare in una fattoria biodinamica, poi per quattro anni sono salito sull’alpeggio a mungere e preparare formaggi, d’inverno ho lavorato in un piccolo negozio di verdure biologiche, mi piace molto l’ecologia. Intanto cominciavo a studiare la tecnica del massaggio. Mi è sempre piaciuta l’idea di prendersi cura della natura, di rispettare e seguire i cicli naturali. Quindi ho incontrato il taoismo, la filosofia che ha risposto a molte delle domande che mi ponevo».

Prendersi cura. Della natura ma anche, conseguentemente, dell’essere umano. Napoletano, svizzero, nigeriano o coreano che sia. Altrimenti diventa solo un concetto astratto.

«Certo, è fondamentale. È il principio alla base del lavoro che faccio, dare qualcosa, la salute, il benessere nel mio caso, Sono convinto che noi esseri umani siamo fatti per aiutarci, per solidarizzare, non per dividerci. Per avvelenarci l’esistenza nell’ansia predatoria di accumulare. Che ti porta a volere di più, sempre di più. Invece dovremmo cercare di star bene, in pace con gli altri, e con se stessi. Per questo non credo ai confini, alle nazioni: svizzero, italiano, cinese, che importanza ha? Nel buddismo quest’idea è molto chiara, centrale: se dai all’altro, è allora che raggiungi la felicità».

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