Lidia Lombardi
A proposito de “L’ultimo piano”

Autoritratto generazionale

Nove allievi della Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria Volonté hanno scritto e girato un bel film che racconta un mondo spesso ignoto ai "grandi": quello delle giovani generazioni costrette a vivere senza futuro ma che ogni giorno riescono a trovare ragioni di sperata

Metti nove giovani registi usciti dal triennio della Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria Volonté. E insieme a loro, un gruppo di sessanta altri giovani formati nelle varie branche della medesima istituzione, attori, operatori, fonici, montatori, sceneggiatori, costumisti, scenografi. Mettili tutti insieme al lavoro, a realizzare il loro primo lungometraggio (ma parecchi dei registi avevano già aver firmato corti apprezzati su svariate passerelle nazionali). Ne è scaturito un film con la F maiuscola, ben scritto, girato e interpretato.  Una pellicola (produttore esecutivo Vivo Film) che ha ottenuto lunghi applausi al Torino Film Fest appena concluso e che ha emozionato sabato mattina scorso a Roma, dove è stata proiettata al Nuovo Sacher di Nanni Moretti, presente in sala insieme con il direttore artistico della Scuola e ispiratore del progetto, Daniele Vicari, e con i rappresentanti di Roma Città Metropolitana e della Regione Lazio perché la Scuola, totalmente gratuita, è sostenuta dalle due istituzioni. Un film, insomma, che può ben reggere la programmazione nelle sale cinematografiche di tutta Italia e che forse ci andrà.

L’ultimo piano, il titolo, squarcia senza vittimismi ma con il vigore dell’ispirazione senza scorciatoie di mercato la precarietà del mondo giovanile. Il titolo gli viene da un appartamento in cima a uno squallido palazzo di Tor Marancia, condiviso da quattro diversissimi personaggi, ciascuno in affitto in una stanza, cucina e bagno in comune, come la terrazza che si apre su una Roma ora livida di nuvole ora rosata. Il padrone di casa è un cinquantenne ex musicista punk, murato nei ricordi dei concerti e delle prove effettuati con la sua band che ossessivamente riascolta da un registratore. L’eterna sigaretta in bocca e la vestaglia aperta sui boxer, ecco Aurelio che da 25 anni non esce di casa e si fa fare la spesa dai coinquilini. Rude com’è, lascia in principio perplessa Diana, l’ultima arrivata in quelle stanze istoriate da murales, il piccolo lavandino, il frigo riempito da ciascuno con la propria spesa ma spesso vuoto.

È un’ucraina timida e bionda, Diana, il papà immigrato che lavora in un’officina le paga l’università, sognando per lei la laurea in giurisprudenza che la ventenne vede come un faticoso, impossibile traguardo. Gli altri due sono un rider, Mattia – uno che sorride poco preso com’è dai ritmi palestra-consegne di cibo in bicicletta, salvo poi abbandonarsi a qualche confidenza con una signora che lo paga per averselo nel letto – e Flora, sciroccata barista che lavora fino a notte fonda, tra drink e spinelli. Un tran tran senza il guizzo della speranza, il progetto di un futuro in quell’ultimo piano. Rotto all’improvviso da un nuovo inquilino: un bambino di nove anni, il figlio di Flora: una mattina il padre glielo lascia frettolosamente, per un po’ di giorni soltanto, promette. È Aurelio a chiacchierare di più con il ragazzino, e gli racconta di un mitico concerto su un battello ancorato sul Tevere, e gli mostra la foto di lui e degli altri tre della band, fino a rimescolare nel ricordo più tragico il motivo che lo ha portato a spiluccare le note della chitarra in solitudine, nella scatola di quella sua casa arruffata. E se intanto Mattia è fatto fuori dalla ditta per la quale lavora perché cade dalla bici e si frattura un braccio, Diana impasticcata crolla dopo aver strappato un 30 e lode all’esame e Flora si rende conto della propria incapacità di essere madre, quel ragazzino e un imprevisto saranno alla fine capaci di tirar fuori in tutti e quattro il sentimento consolante e civilissimo della solidarietà. Scoprono di essere famiglia, osservati con resipiscenza da Aurelio. Il quale, nel finale del film, s’avvia a una rinascita e sarà lo spettatore a interpretare quale, nel disordine della sua stanza dove bobine, sigarette, riviste e quaderni sono sottosopra sullo sfondo di una finestra finalmente aperta e inondata dal lattiginoso sole periferia.

Giulia Cacchioni, Marcello Caporiccio, Egidio Alessandro Carchedi,  Francesco Di Nuzzo, Francesco Fulvio Ferrari, Luca Iacoella, Giulia Lapenna, Giansalvo Pinocchio, Sabrina Podda sono i nove registi ma non si direbbe che il film ha avuto tante mani perché gode di un’unitarietà esemplare. Sostenuto peraltro dalla intensità di tutti gli interpreti: Francesco Acquaroli nei panni alienati eppur umanissimi di Aurelio, Yuliia Sobol in quelli fragili e senza malizia di Diana. Li affiancano due attori usciti dalla “Volonté”: Simone Liberati  che dà il volto al disincantato Mattia e Marilena Anniballi che è la scriteriata ma sensibile Flora.

«Abbiamo condiviso ossessivamente ciascuna decisione, confrontandoci e scontrandoci, ma trovando infine una sintesi e anche, in alcune occasioni, un’immediata sintonia. Come nella scelta iniziale: non fare una commedia dai toni leggeri, ma affondare il racconto sulla condizione esistenziale dei ventenni di oggi», spiega Giulia Cacchioni. Il risultato è un’opera compatta, appena lenta nell’avvio, ma senza sbavature. E anche la figura del giudizioso bambino, apparsaci inizialmente poco realistica in un contesto di affettività dimidiata, si giustifica crescendo progressivamente in funzione catartica. Ne scaturisce un sottile eppur tenace filo di ottimismo sostenuto da anni verdi sfibrati dalla fatica di vivere ma non isteriliti completamente, piuttosto pronti a recuperare il senso di comunità. Un insegnamento morale che viene ormai sempre più spesso dai giovani. Quelli che sfilano in difesa dell’ambiente e di una politica non divisiva. E questi della Scuola intitolata a Gian Maria Volonté, impegnati a onorare il proprio estro e il proprio mestiere.

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