Domenico Calcaterra

Pinocchio e Kafka

Il Grillo Parlante sembra Gregor Samsa, la fatina è la regina dei morti dai quali - e solo da loro - arriva al mondo la saggezza. Torna la prima edizione, "nera", di Pinocchio, quella che si chiude con la morte del burattino. Insomma, un'antifiaba

Se c’è un classico della nostra letteratura nazionale che, pur amando tanto, ho sempre guardato con sospetto, convinto che anzi, per poter essere inteso fino in fondo, debba esser letto come negazione della sua parte diciamo così più pedagogica ed edificante, è Le avventure di Pinocchio dell’immenso Carlo Collodi. Convincimento che si consolida ogni volta che m’imbatto in quell’accomodante e deludente epilogo che fu di fatto imposto all’autore dai malumori dei lettori del “Giornale dei bambini” diretto da Ferdinando Martini (dove in principio il romanzo era apparso a puntate) a cangio dell’originario finale tragico della fiaba, che si concludeva infatti con la macabra impiccagione del burattino ad opera dei due compari, il Gatto e la Volpe. È ora possibile rileggere quei primi quindici capitoli, usciti a puntate dal 7 luglio al 27 ottobre 1881, grazie alla bella edizione curata da Salvatore Ferlita (edita da Il Palindromo, pp. 149, €15,00) e corredata dalle illustrazioni del talentuoso Simone Stuto.

Nella prima redazione del libro simbolo della fiaba italiana, il Collodi già traduttore di Perrault, non lascia spazio alcuno a quell’ottimismo pedagogico (che Baldacci definì «tattico») su cui fu costretto a ripiegare nella pubblicazione in volume delle Avventure di Pinocchio (1883). La vicenda del primo Pinocchio è una sconfessione totale della fiaba come genere letterario, entro un obbligato percorso verso e dentro la vittoria della cruda realtà (e non solo per la fine tragica che tocca in sorte al burattino). Una realtà cupa e angosciosa, cui peraltro rimandano le tavole d’illustrazioni che impreziosiscono questa recente edizione, e che tradiscono una visione quasi fantasmatica in cui, per dirne una, il primo incontro tra Pinocchio e il Grillo-parlante viene raffigurato come il colloquio tra un Pinocchio-zombie e una creatura che ha pagato a caro prezzo la sua saggezza con una metamorfosi che riconduce ante litteram (visivamente) al Gregor Samsa di Kafka. E la fatina, una bambina dai capelli turchini e il viso di cera, laconica afferma che «sono tutti morti» (morta anch’ella, in attesa che la portino via). Un’ossessione mortuaria e una visione cimiteriale che, come ricorda Ferlita nella sua Postfazione (“Il Pinocchio rimosso”), pervade, quale nota dominante, l’intero libro. Come a ricordarci, Collodi, che la verità provenga sempre dal mondo dei morti: si pensi, oltre alla fatina-bambina, al palesarsi dell’ombra del Grillo-parlante (la cui voce, così fioca che pare giungere «dal mondo di là», è comunque destinata a rimanere inascoltata). Si potrebbe dire che il senso di questa prima rimossa redazione del romanzo collodiano stia tutto nei due notturni: la «nottataccia d’inferno» in cui, Geppetto condotto a torto in prigione in sua vece, Pinocchio patisce la fame ed è costretto a provvedere per la prima volta a se stesso (cap. VI), entro un paesaggio «tutto buio e tutto deserto», in cui quel luogo appare ai suoi occhi come «il paese dei morti» (ancora la percezione cimiteriale della realtà); la convulsa scena notturna dei capitoletti finali (cap. XIV-XV) in cui il burattino cerca di raggiungere il Gatto e la Volpe al Campo dei Miracoli e viene inseguito dai due Assassini e infine ucciso.

Queste due scene fanno da cerniera al nucleo originario del romanzo, in cui il personaggio non è scalfito, nonostante i «buoni propositi» di ravvedimento destinati a mai concretizzarsi, nel suo rapido e coerente correre incontro alla rovina. Assistiamo anzi a una sorta di mise en abîme dell’impossibilità di volgere della vicenda al bene nell’irruzione sulla scena di Pinocchio nel teatro dei burattini del terribile Mangiafuoco, che interrompe di fatto il divertimento, il normale svolgimento della commedia, sabotaggio esplicito di ogni plausibile intento edificante: nessuna conversione etica è possibile, questo il sottotesto, per il selvatico Pinocchio – la guardinga prudenza di Geppetto («povero» di mestiere) circa i casi del mondo e della vita, è qui per sempre messa fuori gioco –, che ripete fino allo stremo il suo coerente e distruttivo mantra di vagabondo: «Voglio andare avanti!».

Tardivo fiore di un romanticismo fantastico e «nero», prodigiosa macchina narrativa dalle incalzanti e indelebili immagini (così nell’analisi di un lettore d’eccezione quale fu Italo Calvino), il libro di Collodi (ancor più in questa sua prima versione) rimane ancora oggi misteriosissimo e carico di una indistricabile ambiguità. Al netto dei molteplici riferimenti rintracciabili nel testo, non ultimi i rimandi evangelico-cristologici – dal falegname come padre putativo alle parole finali proferite dal burattino prima di morire («Oh babbo mio! se tu fossi qui!») –, il fascino oscuro e insieme incredibilmente luminoso di questo PinocchioUno è condensato forse in un’immagine precisa: la «casina bianca come la neve» dove alberga la fata-bambina – agognato porto di salvezza e porta che introduce un imprecisato mortuario altrove. Non meno sintomatico, inoltre, lo scarto tra le due edizioni anche se lette in chiave di autobiografia della nazione: se il Pinocchio dell’81, nel suo trascorrere rapido verso una catastrofe che sembra essere da subito iscritta nelle cose, denuncia una realtà assediata dal male e dalla falsità, il finale fin troppo rassicurante della versione accresciuta e mutata dell’83, con la metamorfosi del burattino in bambino in carne ed ossa, suona ancor oggi come allarmante autoritratto di una falsa coscienza made in Italy, di una virtù a buon mercato, ipocrita e conformista.

Perciò, fosse vivo ancora Collodi, lo si dovrebbe implorare almeno di correggere il tiro, antidoto a una fin troppo consolatoria dizione, nel rispetto dello spirito ambiguo e della verità primigenia della sua fiaba, riscrivere dico, con minima ma sostanziale variazione, il suggello finale delle peripezie del burattino: «Com’ero buffo, quand’ero un burattino! E come ora son ‘pentito’ di essere diventato un ragazzino perbene!…» (che poi dalla contentezza al pentimento, si sa, talvolta il passo può essere breve). A mettere in guardia contro quella abbacinante coltre di conformistica ipocrisia che ammanta la nostra storia patria sin dai suoi albori.

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