Giacomo Battiato
Un racconto inedito

Il capodanno di Nora Baumann

«"Prima il violoncello, poi la figlia”», le aveva rinfacciato molti anni dopo Nora, senza risentimento, quasi divertita. Riagganciato il ricevitore del telefono, Sybille si era buttata sul letto. Si sentiva soffocare»

Oggi, 21 dicembre 1969, la bambina Nora Baumann, 6 anni e mezzo, residente nello Spezialkinderheim Frohe Zukunft è stata ricoverata. Era stata portata al Pronto Soccorso dall’infermiera dell’Istituto, signorina Editha Wachter. La madre è all’estero per motivi di lavoro, il padre ha abbandonato la famiglia sei mesi fa.

La bambina, con la quale è impossibile comunicare, presenta una forma grave di denutrizione. L’infermiera sostiene che, da alcuni giorni, si rifiuta di parlare con gli insegnanti e con il personale dell’Istituto e rifiuta altresì il cibo. Ripete soltanto che ha sete. Sembra che accetti solamente di mangiare limoni che divora con voracità. Ha la respirazione accelerata ed è in stato di ipotermia secondaria lieve. La sua temperatura, misurata con termometro rettale, non supera i 33,5 gradi. Ho ordinato la nutrizione forzata attraverso sonda naso-gastrica, la somministrazione di ossigeno umidificato ed endovenose di soluzione salina riscaldata.

Fatti i dovuti accertamenti, nessuna causa organica spiega né l’ipotermia né il rifiuto del cibo. La bambina sembra soffrire di un disordine pervasivo di relazione, acuito dalla mancanza dei genitori. C’è il sospetto di una forma di disturbo disintegrativo dell’infanzia in atto. Firmato: dottor Joachim Hubler, pediatra. Johannstadt Krankenhaus. Dresda.

* * *

Con buona pace del dottor Joachim Hubler si trattava, molto semplicemente, di un accumulo di rabbia e di dolore che la bambina non riusciva più a contenere. Si trattava anche del rifiuto di essere abbandonata nello Spezialkinderheim che, per germanica mancanza di ironia, si chiamava Frohe Zukunft (Gioioso Futuro).

Sua madre Sybille era a Milano dove, sei giorni dopo, il 17 dicembre 1969, tra l’Ernani di Verdi e la seconda rappresentazione del Barbiere di Siviglia diretto da Abbado, avrebbe suonato, al Teatro alla Scala, il 2° concerto in Re minore di Saint-Saëns.

Era appena rientrata in albergo dopo le prove. All’uscita dal Teatro aveva incrociato un gruppo di studenti arrabbiati che gridavano Ricchi, godete, sarà l’ultima volta – falce e martello, borghesi al macello!

L’avevano fatta sorridere, poverini. Quei milanesotti barbuti e scalpitanti, per la maggior parte figli di borghesi, non potevano nemmeno immaginare come la falce e il martello fossero capaci di smontare un essere umano in tanti pezzi senza senso per poi ricostruirlo, completamente diverso e obbediente. Sybille li guardava marciare arrabbiati e sicuri, con la bottiglia di Cocacola in mano, e intonare i loro cori, convinti di odorare la verità del mondo.

Arrivata all’Hotel Duomo, Sybille aveva trovato la telefonata da Dresda. Angosciata, aveva richiamato lo Spezialkinderheim e saputo del ricovero della figlia, dei suoi rifiuti di cibo e di parola, dei limoni che divorava. Sybille aveva garantito alla signorina Wachter che avrebbe cercato di rientrare il prima possibile. L’impulso naturale di madre le suggeriva di farlo immediatamente, ma un’altra forza più grande la faceva decidere di non cancellare una esecuzione di tale importanza.

«Prima il violoncello, poi la figlia», le aveva rinfacciato molti anni dopo Nora, senza risentimento, quasi divertita.

Riagganciato il ricevitore del telefono, Sybille si era buttata sul letto. Si sentiva soffocare. Le succedeva nei momenti di forte ansia, quasi sempre prima di entrare in scena nelle grandi occasioni. Il respiro ritornava normale nel momento in cui, in sala, Sybille stringeva con le ginocchia il suo violoncello.

Misurando a grandi passi tedeschi la sua camera d’albergo, Sybille immaginava il volto della figlia nella sua spaventosa magrezza, con gli occhi verdi di gatto nascosti sotto i ricci neri. Bella, orribile. L’amava istintivamente, quando si ricordava di lei. E nello stesso tempo non poteva impedirsi, quando la pensava e ancor più quando la guardava, di vederla come la testimone dei suoi due errori più grandi: la scelta di un uomo sbagliato con cui vivere la sua prima storia d’amore e la decisione di metterla al mondo.

* * *

Sybille stava soffocando. L’ansia provocava l’asma. Era balzata dal letto, aveva preso il violoncello, era andata nel bagno e, aperta l’acqua della vasca per nascondere il suono di cui i vicini di stanza avrebbero potuto lamentarsi, aveva attaccato il primo movimento del concerto di Saint-Saëns che si preparava a eseguire. Un attacco eseguito con disperazione, oltre le intenzioni del compositore, un grido d’aiuto. Il respiro era tornato normale senza bisogno di pyrilamine, l’antistaminico che teneva sempre nella custodia del violoncello.

Sybille suonava fissando, senza vederlo, il fiotto di acqua che precipitava dal rubinetto nella vasca. Suonava gli accordi in Si, alla misura, quando si era detta che doveva, infine, avere il coraggio di fare la cosa giusta per sua figlia. Doveva essere finalmente una madre responsabile. Doveva tirare fuori dall’ospedale sua figlia, ma non soltanto, doveva ritirarla dallo Spezialkinderheim, stare con lei, cominciare una nuova vita.

* * *

Sybille era imbevuta di musica fino dentro le ossa, viveva nel mondo lunare dei veri musicisti, ma era stata anche costruita come una brava comunista dalla Friende Deutsche Jugend, la Giovinezza Libera Tedesca, e dalla scuola speciale per la musica di Dresda dove la sua fotografia era appesa lungo la Via dei Migliori. Aveva sempre salutato i professori al loro ingresso in classe con Immer bereit!, (Sempre pronti!), che rispondeva al Seid Bereit!, (Siate pronti!), degli insegnanti. Alla maturità, alla fine della decima classe, Sybille aveva nel suo Zeugnis, il bollettino con incisi il martello e il compasso, tutti 1 (ottimo) e A nello sport. Risultato che le aveva procurato la Distinzione con onore, la medaglia d’oro di Lessing. L’impegno matto e disperatissimo di Sybille aveva un solo scopo: il conservatorio di Mosca. Ideologia e politica non la interessavano così come non la interessavano i destini del mondo. Soltanto il violoncello. La musica. Lì, e solo lì, voleva essere la più brava. Nessun sacrificio la spaventava. Votava comunista con una convinzione distratta, aveva votato per Erich Honecker e per Willi Stoph. Quando le chiedevano, fuori dal suo paese, se si sentisse comunista, Sybille sorrideva e rispondeva di sentirsi una musicista della Germania comunista. Il mondo occidentale, al di là della cortina di ferro, non la seduceva per i suoi soldi ma per la libertà di movimento. Libertà di movimento voleva dire per lei non sentirsi spiata, non dover misurare le proprie parole perché, come le parole di tutti, venivano ascoltate e pesate su una bilancia demente. La vecchia Germania tagliata in due stava espiando e lei faceva parte del meccanismo e delle conseguenze dell’espiazione. Era dalla parte più difficile, più infelice, ma era fortunata, molto fortunata. Questo pensava. Non poteva certo dimenticare quei giorni di febbraio quando aveva otto anni e, uscita insieme a sua madre, attraverso una galleria di macerie, dalla cantina della loro casa distrutta, aveva vagato attraverso onde di fumo, polvere e odore di carne bruciata, alla ricerca delle zie scomparse. Ricordava le file di cadaveri, quelli dei bambini in particolare. Pezzi di corpi umani e pezzi di corpi di bambole. Bombe, paura, sangue: queste tre parole avevano firmato l’infanzia di Sybille.

Suo padre, ufficiale della Decima Divisione-Panzer, era morto due anni prima nella battaglia di Sidi Bou-Zid cantando I carri tedeschi, nel sole infuocato, non hanno paura né della morte né del diavolo.

La madre se n’era andata per un tumore quando Sybille non aveva ancora diciotto anni. Sybille aveva fatto la sua strada da sola. Da sola aveva conquistato il Conservatorio di Mosca. Quella giovane donna con il violoncello, scampata da piccola al bombardamento di Dresda, si era fatta applaudire in tutto il mondo.

Dunque fortunata, sì, viva, sopravvissuta, famosa, ben pagata dovunque la invitavano a esibirsi. Sopravvissuta anche all’amore per un marito egiziano che fortunatamente se n’era andato. Ma ora scopriva che sua figlia voleva morire.

Sybille aveva vissuto, da piccola, esperienze ben più tragiche che non l’abbandono di un padre o l’assenza della madre. Eppure Sybille amava la vita. Perché invece quella sua maledetta bambina voleva morire?

Aveva suonato tutto il movimento. Alle ultime note, il do e il re, l’acqua stava debordando dalla vasca, e Sybille aveva deciso. Sapeva come salvare la figlia e riscattare la colpa di averla messa al mondo.

* * *

Nora, la bambina che divorava soltanto limoni, era rimasta sola in ospedale per sette giorni, nutrita con la sonda naso-gastrica, avvolta in coperte pesanti e circondata da borse di acqua calda.

Era il 19 dicembre quando sua madre era comparsa. Aveva per lei una bambola con due grandi occhi che potevano piangere; in una tasca del vestitino c’era un fazzoletto per asciugare le lacrime. Era un oggetto ormai da collezione, fabbricato in Italia negli anni 50, a Arona sul lago Maggiore, dalla ditta Ratti e Vallenzasca. Sybille l’aveva trovata, nuova, intatta, da un rigattiere in via della Spiga. La Bambola Piangente indossava un abito a scacchi bianchi e rossi e aveva le scarpine di vernice rossa.

* * *

Avvicinandosi al letto della figlia, Sybille l’aveva ripetutamente chiamata per nome. Nora non aveva reagito, non si era nemmeno voltata per guardarla. Sybille le aveva allora messo la bambola tra le mani e aveva premuto il pulsante sulla schiena: la bambola aveva emesso un lamento ripetuto, un suono di pianto meccanico, e gli occhi blu avevano cominciato a gettare una pioggia di lacrime. Nora si era mossa e la osservava, sgomenta. Sybille le aveva preso una mano e l’aveva guidata al fazzoletto nella tasca della sottana della bambola e con questo avevano, insieme, asciugato le lacrime. Infine, Nora aveva guardato la madre negli occhi e si era lasciata abbracciare da lei. Sybille aveva ottenuto un effetto superiore alle borse di acqua calda sulla temperatura corporea di Nora.

Le aveva sussurrato all’orecchio, ripetutamente, che non l’avrebbe mai più lasciata. Con una imprevedibile semplicità era avvenuto il miracolo: Nora, sottovoce, aveva detto che le sarebbe piaciuto mangiare delle aringhe e delle patate bollite.

Il professor Hubler non avrebbe voluto ancora dimettere Nora ma dopo due giorni si era arreso alla volontà della madre e all’evidenza dei fatti: il corpo di Nora aveva ritrovato la giusta temperatura e la bambina aveva ripreso a comunicare e a mangiare.

Sybille aveva portato Nora a casa e non si era mai staccata da lei. Per otto giorni l’aveva nutrita, le aveva parlato, aveva giocato con lei e con la bambola alla quale venivano, per ore, asciugate le lacrime.

La mattina del 29 dicembre Sybille aveva svegliato la figlia prima dell’alba con un bicchiere di latte caldo e delle fette di pane biscottato spalmate di marmellata di mele cotogne. Le aveva detto:

“Appena hai mangiato, vestiti, metti il cappotto e prendi la bambola.”

“Dove andiamo?” “Facciamo una gita.” “Dove?”

“È una sorpresa.” “Prendiamo il treno?” “Sì, il treno.” “Quanto stiamo via?” “Qualche giorno.”

“E la scuola?”

“Torniamo prima che ricominci.”

Quando erano uscite da casa faceva ancora buio e i lampioni erano ancora accesi. Nora con la sua bambola piangente sottobraccio, Sybille con il violoncello e, in tasca, del cioccolato e un rotolo di biglietti da 400 Marchi della Repubblica Democratica. Non era il solo denaro che portava con sé. A Milano, prima di partire e rientrare all’interno della cortina di ferro, aveva nascosto, tra due cartoni nel doppio fondo della custodia del violoncello, un gran numero di banconote da 100 dollari con il volto di Benjamin Franklin. Poiché il suo cachet per il concerto era ufficiale, i soldi guadagnati alla Scala di Milano dovevano essere trasferiti direttamente alla Banca della DDR. I soldi nascosti da Sybille nella custodia del violoncello erano stati invece raccolti con una colletta dai suoi colleghi musicisti. Un prestito che lei aveva voluto garantire per iscritto.

La notte prima di partire da Milano, chiusa nella stanza dell’albergo, munita di colla, cartone, aghi e filo, Sybille aveva sistemato meticolosamente i dollari nel nascondiglio. La mattina in cui Sybille usciva con Nora dalla casa a Dresda con un piccolo zaino di tela sulle spalle, quel denaro stava ancora nascosto nella custodia del violoncello.

* * *

Raggiunta la Hauptbanhof, Sybille e Nora erano salite sulla carrozza verde con i finestrini filettati di beige e  il tetto color capriolo. Era il treno D 1479, Dresda- Budapest, della Deutsche Reichsbahn.

Nora era eccitata e anche un po’ spaventata: “Fino a dove arriviamo?”

“Fino a dove ci piacerà arrivare.”

Strette l’una all’altra per ore, avevano fatto piangere la bambola per commuovere i passeggeri accanto a loro, avevano riempito un quaderno di disegni e Sybille, per la prima volta nella vita, aveva raccontato a Nora una favola. Sybille si era resa conto di non conoscere le favole, a lei non le avevano mai raccontate. C’era però una fiaba che Sybille conosceva molto bene o, per essere precisi, ne conosceva lo spartito.

Il racconto, a puntate, aveva preso più di due ore del viaggio. Nora aveva ascoltato, paziente, cercando di cacciare da sé l’immagine del padre perché lui sì, lui era capace di incatenarla cantandole in arabo egiziano. La mamma era troppo pedante, nel raccontare; dunque noiosa.

Nora aveva ascoltato la fiaba il cui titolo Sybille glielo aveva detto in russo, Ljubov’ k trëm apel’sinam, dimenticandosi di tradurlo. Era una storia raccontata, diceva Sybille, attraverso quattro tipi di occhi diversi, quelli che vedono disperati la tragedia del mondo, quelli che guardano al mondo ridendo, quelli che sognano il mondo che piace a loro e quelli con le teste vuote.

Questa premessa aveva molto colpito Nora e aveva anche attirato l’attenzione dei passeggeri seduti vicino a loro nel vagone. C’era stato, durante il percorso che era durato dal buio prima dell’alba al buio dopo il tramonto, un susseguirsi di compagni di viaggio, passeggeri che si alternavano, salendo e scendendo dal treno alle stazioni di Ustì nad Laben, Praga, Brno, Breclav, Bratislava.

Il racconto era proseguito nel vagone ristorante, una carrozza rossa con filettature arancio e oro della Mitropa, la società che gestiva il cibo e il sonno sui treni dell’Europa centrale. Madre e figlia avevano mangiato maiale con patate e crauti. Nora aveva lasciato la carne.

Sybille, che a ogni pasto s’innervosiva nel timore che la figlia rifiutasse il cibo, continuava a parlarle del principe che non riusciva a guarire dalla sua infelicità: gli piacevano soltanto le storie tristi, le poesie tristi, i racconti tristi. Suo padre pagava invano i comici perché lo facessero ridere.

Nora ascoltava. Non sapeva in realtà se la storia le piacesse davvero ma le piaceva sua madre, le piaceva la voce di sua madre. La scopriva. Tratteneva perciò gli sbadigli.

Tutti gli sforzi per far ridere il principe erano falliti fino a quando la fata Morgana, che era sopraggiunta travestita da vecchia, era stata fatta inciampare. Il giovane, vedendo la vecchia scalciare nelle sue mutande con le gambe all’aria, aveva finalmente riso. La fata, offesa, lo aveva maledetto: da quel momento, sarebbe stato ossessionato dall’amore per tre bellissime ragazze, imprigionate da una magia dentro tre melarance. Per riuscire a trovare pace, il principe avrebbe dovuto liberarle. Era allora partito per cercarle. “Cosa sono le melarance?”

“Un frutto inventato, un po’ mela un po’ arancia, profumato, dolce, succoso, il migliore dei frutti immaginabili.”

“Non esiste?”

“Se lo pensi, esiste, se lo assaggi, sei felice.”

Da questo punto in poi Nora si era persa. Ragazze nascoste dentro a un frutto, un frutto che Nora non riusciva a immaginare, incrocio di mela e di arancia ma quanto grosso?, ragazze che muoiono assetate, cuoche spaventose, anelli magici, gelosie di maschere, matrimoni promessi, matrimoni voluti e non voluti, una bella trasformata in ratto: il racconto non le piaceva, le sembrava oscuro, confuso e stonato. Le faceva paura come se contesse un senso della vita, confuso appunto, e minaccioso. Sybille, che non si accorgeva della noia inquieta della figlia, aveva anche cominciato a cantarle dei brani perché questa fiaba era stata musicata da Prokofiev e soltanto per questo motivo lei la conosceva. “È un grande compositore russo”, aveva detto alla figlia sottovoce come per svelarle un segreto. Voleva comunicare a Nora, e ci metteva una grande passione, che l’arte del sogno può rendere felici e che il riso può far guarire. Sentendosi responsabile dell’equilibrio turbato della figlia, cercava di farle capire come fosse possibile trasformarsi da ciò che si è in qualcosa che vorremmo essere. Parlava da adulta, cercando goffamente di usare formule per bambini.

Nora aveva smesso di ascoltarla, guardava la luce del giorno svanire, fuori dal finestrino, e si chiedeva perché la gita proposta dalla madre fosse così lunga. Lasciava, con un certo piacere, che una musica ben diversa da quella suggerita da Sybille entrasse nelle sue orecchie: lo strepito ritmato delle ruote, i colpi di martello delle bielle, gli sbuffi rabbiosi e i sibili del vapore di scarico dei cilindri motore nella camera a fumo della locomotiva nera. Questa sinfonia ferrosa l’aveva avvolta e assordata, coprendo il racconto noioso della madre. Si era infine addormentata.

Quando si era svegliata, erano sole nello scompartimento. La debole luce del sole che svaniva colpiva il volto di Nora e quello della bambola che teneva sulle ginocchia, un chiarore palpitante per gli ostacoli che si frapponevano nel movimento del treno, alberi, pali, costruzioni. Lampi di luce che illuminavano a tratti le lacrime finte della bambola e quelle di Nora che piangeva per imitazione. Sybille intanto aveva preso il suo violoncello e suonava per calmare l’angoscia che, al tramonto, aveva cominciato a torturarla.

Per le orecchie di Nora, quello che la madre suonava era qualcosa di triste, tristissimo.

“Sarò anch’io musicista e sarò più brava di lei, suonerò solo le musiche allegre” aveva pensato Nora e si era asciugata le lacrime con il fazzoletto della bambola.

Suonando in sordina per la figlia, con l’ansia che la mordeva alla gola, Sybille pensava che se il piano fosse andato storto, le avrebbero tolto la figlia e il passaporto, l’avrebbero probabilmente imprigionata e processata, rovinando la sua vita e quella della figlia.

Dopo più di nove ore di viaggio, Sybille, Nora, la bambola e il violoncello erano scesi dal treno a Bratislava. Il sole era appena tramontato.

“Dove andiamo?”, chiede Nora. “Dobbiamo camminare un po’.” “Non ho voglia di camminare.”

Avevano camminato per un’ora, ciascuna portando il proprio fardello. Era il 31 dicembre 1969.

* * *

Faceva buio quando avevano attraversato il Danubio sul ponte Apollo. Nora fissava l’acqua che si muoveva, traspirando fumo, nera come il petrolio.

Erano arrivate con i piedi in pezzi a un allevamento di cavalli in Klokočova. Erano attese. Dei cavalli venivano caricati su un grosso camion. Il rumore degli zoccoli degli animali recalcitranti sulla rampa di ferro era assordante. Nora si era schiacciata sulle orecchie i palmi delle mani. Sybille aveva aperto la custodia del violoncello, aveva strappato la fodera, preso i dollari; li aveva consegnati a un vecchio robusto che si chiamava Martin Filus.

Il camion adibito al trasporto dei cavalli aveva un doppio fondo. Non era stato facile convincere Nora a salire, infiltrarsi nello spazio stretto, una intercapedine di lamiera tra le zampe dei cavalli e l’asse di trasmissione. Sybille aveva infilato il violoncello ed era strisciata anche lei nello spazio vuoto. Teneva strette tutte e due le mani di Nora che, paralizzata dallo spavento, quasi non respirava più. Caricati i cinque cavalli, il camion era partito. Nel buio, sotto i colpi degli zoccoli dei cavalli che scalciavano sul pianale del camion a ogni curva, Nora sentiva le mani della madre che stringevano le sue come se Sybille avesse paura di perderla. Erano calde, quelle mani, bruciavano. Malgrado la paura, Nora sentiva che la madre aveva cominciato ad amarla. Questo contava più di qualsiasi spavento e della puzza dei cavalli. “Dove mi sta portando?”, si domandava ma non chiedeva nulla, Sybille le aveva ordinato di tacere e Nora ubbidiva, non voleva essere di nuovo abbandonata, era pronta a tutto purché la madre non smettesse più di amarla. Anzi, un rancore sordo stava crescendo dentro di lei contro il padre che lui, sì, le aveva abbandonate tutte e due, per sempre. “Devo dimenticarlo.”

Erano arrivate alla frontiera a mezzanotte. Il camion si era fermato per i controlli. Sybille aveva spostato la sua mano sulla bocca della figlia. Tendeva le orecchie. Sentiva dei frammenti delle parole che Martin Filius scambiava con gli uomini della polizia di frontiera cecoslovacca. Sentiva che Martin proponeva di bere al nuovo anno. Parlava di una eccellente bottiglia di borovička che aveva con sé. Sybille sentiva che bevevano e ridevano e brindavano al presidente Svoboda e si attardavano. Sybille aspettava il momento della perquisizione. In quei tempi i controlli erano ossessivi. La primavera di Praga era finita nel falò dello studente Jan Palach. Se i poliziotti trovavano Sybille e la figlia, era tutto finito. Lei e Nora, in quella notte dell’ultimo dell’anno, erano in bilico tra luce e buio. La luce aveva vinto. I poliziotti non avevano nemmeno aperto il portellone per guardare i cavalli e il camion era ripartito entrando in Austria.

Erano arrivate a Vienna alle 3 di notte. Martin Filus le aveva tirate fuori insieme ai cavalli in un hangar del Galopprennbahn Freudenau.

“Buongiorno Signora Baumann, buon anno– e anche a te bambina.”

Sybille aveva abbracciato Martin Filus ed era scoppiata in lacrime. Madre e figlia avevano dormito su una panca.

* * *

Al risveglio, Nora aveva domandato:

“E adesso dove andiamo?” “In Italia.”

“Che cos’è?” “Un paese.” “Perché?”

“Perché lì saremo sempre insieme.” “È lontano?”

“No, non troppo.” “Parlano tedesco?” “L’italiano, lo imparerai.” “No.”

Nei bagni del galoppatoio, madre e figlia avevano fatto una doccia. Quindi Sybille aveva portato Nora al Café Hawelka, in Dorotheergasse, che aveva appena alzato le saracinesche.

Un cameriere musicofilo l’aveva riconosciuta:

“Sybille Baumann!, lei oggi suona al concerto di capodanno di Willy Boskovski?”

“No, ho portato mia figlia Nora a Vienna perché se lo merita”, aveva risposto Sybille.

“Sei una bambina fortunata tu, Nora, ad avere questa mamma!”

Nora lo aveva guardato senza commentare e senza sorridere, non era affatto convinta che il cameriere musicofilo avesse ragione. Aveva deciso di non domandare più nulla a sua madre. Sentiva ancora risuonare nelle orecchie i colpi degli zoccoli sulla lamiera ed era furiosa ma muta. La notte passata sotto le zampe dei cavalli le aveva cambiato la pelle.

Sybille aveva ordinato i Buchteln, i dolci ripieni di stufato di prugne coperti di salsa alla vaniglia. Nora ne aveva mangiati due.

* * *

Poi alla Hauptbhanhof e di nuovo su un treno. Sybille seguitava a guardarsi attorno. Immaginava che la STASI avesse occhi e orecchie dappertutto e che il viaggio della speranza potesse presto finire in un disastro. Se Sybille aveva un passaporto diplomatico che le permetteva di muoversi all’Est come all’Ovest, Nora no, Nora non poteva andare all’Ovest. E presto, appena scoperta la sua fuga, il passaporto di Sybille sarebbe diventato carta straccia.

Dopo 3 ore di viaggio, Sybille e la figlia scendono a Salisburgo. A piedi fino in Faberstrasse 7, circa 10 minuti. Lì abita il primo flauto dell’orchestra del Mozarteum. Lui e Sybille hanno avuto una storia. Lui innamorato, lei no.

Nora: “Ho fame”.

Il flautista scalda tre piatti di spätzle, i gnocchetti al formaggio che teneva in frigorifero. Nora sente dire che partiranno domattina all’alba. Le mettono in mano un libro illustrato che si chiama Der Struwwelpeter, scritto dal medico tedesco Heinrich Hoffmann per educare il suo bambino. Un libro d’infanzia che il flautista conservava. Nora legge di un bambino ormai grandicello che seguita a succhiarsi i pollici malgrado i genitori gli dicano di non farlo più. Una notte, entra dalla finestra un sarto con due grandissime forbici e glieli taglia. Nell’illustrazione ci sono anche le gocce di sangue dei pollici recisi. Un’altra storia parla di una bambina che non la smetteva di giocare con il fuoco. Così lei è stata bruciata con tutti i suoi vestiti e le braccia e le mani e gli occhi e il naso finché non aveva più nulla da perdere tranne le sue scarpette scarlatte e niente altro. Ma queste sono state trovate tra le sue ceneri sul terreno.

Mentre Nora impara a ubbidire agli adulti, Sybille e il flautista parlano di Mozart e di Shostakovich.

Nora si era addormentata osservando i volti di sua madre e del flautista che bisbigliavano, lei sulla spalla di lui.

All’alba, Sybille con il violoncello e Nora con la sua bambola che piange e il libro del dottor Hoffmann che il flautista le ha regalato salgono sulla macchina di lui, una NSU Prinz 4L.

Viaggiano per quasi quattro ore, pressoché in silenzio, attraverso la Carinzia. E poi su, verso le montagne e la neve.

“C’è tanta neve in Italia?” domanda Nora. “In Italia c’è il sole” risponde il flautista.

Il flautista ferma la Prinz sul bordo di un grande tornante. Dà a Sybille una pesante giacca a vento, un paio di racchette corte e larghe e una cinghia di quelle usate dai montanari per portare le gerle.

Rimanendo in auto, Sybille avvolge la figlia in una coperta di lupo che copriva il sedile posteriore.

“Ho caldo!” si ribella Nora.

“Ubbidisci” le dice la madre, “e lascia la bambola e il libro in macchina.”

“Perché?”

Sybille le strappa di mano il libro e la bambola e le appoggia sul sedile insieme al violoncello. Il flautista era uscito a fumare una sigaretta. Ad un certo punto, dopo avere constatato che nessuna auto arriva né dall’alto né dal basso, batte sul tetto della Prinz. È il momento.

“Andiamo” dice Sybille alla figlia.

Una volta uscite in strada, il flautista carica Nora sulle spalle della madre, le gambe tra le cinghie che la sorreggono.

Sybille si getta oltre il bordo del tornante, si infila ai piedi le racchette e via, su per il bosco.

“Da chi scappiamo?”

“Non scappiamo, facciamo una passeggiata.”

“Ecco, lo sapevo che tu pensi che sono cretina, io non sono cretina, ho paura.”

“Non c’è niente per cui avere paura.” “Sento come ti batte la vena sul collo.”

“Mi batte perché tu sei un po’ pesante e faccio fatica.” “Fa’ camminare anche me.”

“Non parliamo.”

* * *

Seguendo una bussola, Sybille cammina per ore nel bosco innevato. Divide con la figlia una tavoletta di cioccolata quando sentono dei cani latrare, lontano.

Infine, dopo cinque ore di marcia, ecco tra la nebbia una vaga striscia di asfalto. E la Prinz che le aspetta. Prima ancora di raggiungerla, Sybille cade in terra, svenuta.

Sono in Italia.

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Accanto al titolo: “Overture musicale” di Vassilij Kandiskij, 1919

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