Leopoldo Carlesimo
Un racconto inedito

Gita a Tashkent

«A Tashkent! Che diavolo ci vanno a fare, pensò. Non la capiva più, Linaldo, quella smania che hanno i giovani di fare i vagabondi in cerca d’avventure, di misurarsi esplorando luoghi strani. E sì che anche lui, quand’era giovane, nei suoi primi cantieri, aveva fatto più o meno lo stesso»

Quando il bulldozer passò sull’altra sponda del fiume, le oltre duemila persone stipate sul terrapieno applaudirono. E gli altri diecimila, che sul terrapieno non avevano trovato posto ed erano schierati sul crinale della montagna, fecero eco battendo mani e piedi. Il drone con la telecamera riprese in primissimo piano la scena, da un’angolazione che nessuna delle numerose cineprese maneggiate da dozzine di operatori poté eguagliare. Ciò non toglie che anche operatori e cronisti fecero il loro dovere e il giorno dopo tutti i giornali e notiziari del Paese diedero ampio risalto all’evento: il Vakhsh era stato deviato! Dopo trent’anni e due tentativi falliti, dopo tutti quei morti che la rigida censura governativa si ostinava a negare, dopo fatiche e sacrifici popolari durati tre decenni e dopo che molto sudore, un po’ di sangue e fiumi di retorica erano stati versati, finalmente il Vakhsh era rinchiuso nei tunnel, domato… E non era una deviazione da poco, perché su quel bulldozer sedeva nientemeno che il Presidente.

La sera, in cantiere, si fece festa. Servì a distendere gli animi, dopo settimane di tensione. E anche a riconciliare la componente tajika della diga con quella italiana, mettendo una pietra sopra giorni e giorni di liti furibonde. Quella sera tajiki e italiani si ubriacarono insieme e benedirono così, nella più facile e fraterna delle consuetudini popolari prive di confini, l’obiettivo comune raggiunto. Per gli uni fu vodka, per gli altri vino e grappa, ma il risultato fu grossomodo lo stesso e verso mezzanotte una buona parte della forza lavoro di Rogùn era fuori combattimento. Il giorno dopo avrebbero ricominciato a litigare, se fossero andati al lavoro. Ma il giorno dopo nessuno lavorò. Dopo la notte brava mezzo cantiere era disteso in branda, a smaltire la sbornia; e l’altra metà si concesse una pausa di riposo. Avrebbero ripreso a litigare da lunedì.

Ennio, Beatrice e Toni approfittarono del week-end lungo per organizzare una gita a Tashkent, al di là del confine, trecento chilometri in territorio uzbeko. Erano i più giovani del cantiere, poco più di sessant’anni in tre, ed ebbero il loro daffare per convincere il capocantiere ad affidare loro un pick-up con autista, un po’ di scorte alimentari, un telefono satellitare e qualche attrezzo meccanico per le eventuali emergerze, e autorizzarli a varcare il confine. Ma dopo il mazzo che s’erano fatti – loro come tutti gli altri – per la famosa deviazione, quel premietto, a missione compiuta, non poté proprio rifiutarglielo.

“Va bene,” disse Linaldo, un cinquantacinquenne del bellunese noto per la sua durezza, un cerbero che si calava a fatica in quei panni semi-paterni. “Ma vi portate il satellitare e chiamate dalla frontiera e poi da Tashkent e di nuovo dalla frontiera, al ritorno. Chiamate la Mara, che si terrà il satellitare accanto per tutto il week-end.” La Mara era la capa dell’ufficio personale. “E al confine vi fate aiutare dal nostro transitario, sia da una parte e che dall’altra. Intesi? Non voglio guai con i doganieri, che sono i più bastardi dappertutto.”

“Non serve il satellitare,” provò a dire Bea. “C’è segnale fino al confine e in Uzbekistan i cellulari funzionano anche meglio che qui. Basta il telefonino.”

“Il satellitare portatevelo comunque, se vi capita qualcosa in mezzo alle montagne chi vi viene a pescare… E adesso fuori dai piedi, che ho da fare.”

A Tashkent! Che diavolo ci vanno a fare, pensò. Non la capiva più, Linaldo, quella smania che hanno i giovani di fare i vagabondi in cerca d’avventure, di misurarsi esplorando luoghi strani. E sì che anche lui, quand’era giovane, nei suoi primi cantieri, aveva fatto più o meno lo stesso. Ma ormai, dopo trent’anni di carriera, in dighe e cantieri non vedeva altro che il lavoro. Non che fosse poco. Ma l’avventura, quella, l’aveva persa.

* * *

“Pare che il Presidente si sia fatto portare il bulldozer a palazzo un mese prima della cerimonia,” disse Ennio. “E un operatore addetto ad addestrarlo stava lì fisso sopra la macchina dodici ore al giorno. In attesa. Quando il Presidente aveva un quarto d’ora libero, scendeva in cortile a farsi dare una lezione. Per questo è stato così in gamba a manovrare il dozer. L’ha voluta fare con le mani sue, la deviazione del Vakhsh, davanti a tutto il popolo schierato…”

Le gigantografie del Presidente, affisse ovunque lungo la strada, su muri scalcinati di edifici in rovina, fin nei villaggi più remoti, provavano visivamente fin oltre il necessario l’onnipresenza dell’uomo. Il Presidente che saluta scolaresche con un libro in mano; il Presidente in mezzo agli operai col casco da lavoro in testa; il Presidente tra i contadini con un cappello di paglia e la zappa in spalla; il Presidente dinanzi alle forze armate che si esercita al tiro al moschetto; il Presidente che stringe mani, accarezza bambini, passeggia per campi di papavero; il Presidente dappertutto, adesso anche alla guida di un bulldozer. La sua effige li accompagnava al confine, marcando anche gli angoli più sperduti del territorio.

“Ma va’, chi te l’ha raccontata, questa storia…” disse Bea.

Ennio cercava di cogliere aneddoti in tutto ciò che gli accadeva intorno. Questo un po’ infastidiva Bea. Questa curiosità interessata. Erano in quattro, nel pick-up, loro tre più l’autista tajiko, un ragazzo poco più grande di loro, taciturno e immusonito, cui era toccata quella faticosa trasferta invece del week-end di festa a Rogùn. Stavano attraversando un tratto montuoso a una decina di chilometri dalla frontiera. Montagne brulle, semideserte, quasi del tutto sprovviste d’alberi, benché la quota non fosse poi così elevata, saranno stati sui settecento metri. Tundra collinare, spazzata da venti tesi e secchi. Terreni fini, facilmente erodibili, segnati dalle rigature di corsi d’acqua che li lavavano via verso la valle di Tashkent.

“Me l’ha detto Ruslan, il traduttore. Quello che fa la spia per i tajiki. Non è una balla. E’ addentro, lui, a quel che succede a Palazzo,” insistette Ennio.

“Mah… a me mi sa di cazzata,” disse Toni. “E poi quel bischero del Presidente, altro che in gamba… Ci ha messo tre ore a chiudere i dieci metri di buco che gli avevamo lasciato… Mi sono quasi congelato, lì in piedi per tutto il tempo, con quel ventaccio che tira sulla cresta del cofferdam… Il più scarso dei miei operatori tajiki ci avrebbe messo meno della metà.”

Toni sedeva davanti, accanto all’autista. Portava il parka sulla camicia di flanella pesante, la calzamaglia di lana sotto i jeans.

“Fa un cazzo di freddo anche qui,” disse Bea. Il riscaldamento, nel vecchio e malandato pick-up, funzionava male. Erano sulla parte alta del crinale, quasi al passo. “Però non nevica,” disse Ennio. “Almeno questo. Qualche settimana ancora, e non potremmo più farla, questa strada.” Lui e Toni venivano da posti caldi. Avevano lavorato insieme su una diga in Malaysia, nel cantiere precedente. Erano amici. A distanza di un mese l’uno dall’altro, s’erano ritrovati lì in Tajikistan. Tutt’e due geometri. Toni lavorava sul campo, assistente movimento terra, supervisionava le squadre dei subappaltatori tajiki. Ennio stava in ufficio tecnico, si occupava di disegni e tracciati. Uno proveniva da Lucca, l’altro da Bari.

I bagagli erano dentro il cassone del pick-up, sotto una cappottina rigida. La strada era tutta curve, deserta e mal messa, e l’autista zigzagava, provandosi a fare del suo meglio per evitare le buche sull’asfalto dissestato, col vento che soffiava teso, a raffiche, e spostava il pick-up, avvicinandolo pericolosamente all’orlo del burrone. Bea ed Ennio sedevano dietro. Stavano sotto un sacco a pelo aperto che usavano come coperta. Bea lavorava in amministrazione, aveva studiato ragioneria e si occupava di contabilità. Era una ragazza minuta, rossa di capelli portati a caschetto, a incorniciare un viso cosparso di lentiggini. Veniva da Treviso, una delle poche ragazze italiane del cantiere. Da qualche giorno lei ed Ennio stavano insieme.

Anche a Toni piaceva Bea, solo che Ennio era stato più veloce. Più rapido di tutti quanti, in cantiere, giovani e meno giovani. Aveva sfruttato a dovere il vantaggio di lavorare in ufficio, dove anche Bea passava le sue giornate. E poi Ennio sapeva parlare alle ragazze, aveva sempre qualche storia buffa da raccontare. Dal giorno del suo arrivo a Rogùn, appena una settimana prima, Bea s’era sentita molto corteggiata. Durante il giorno, dentro gli uffici. E poi la sera, al club. Un sacco di uomini le ronzavano intorno, giovani e meno giovani. Lei non aveva pregiudizi sull’età e non badava troppo al fatto che l’uomo avesse una moglie, da qualche parte lontano di lì; ma per ora era orientata a respingere la corte di quelli maturi, sposati o meno che fossero. Piuttosto dava delle opportunità ai ragazzi sotto la trentina. Ce n’erano diversi, in cantiere, Toni ed Ennio erano un paio di esemplari. Modelli diversi. Tra tutti loro, per il momento l’aveva spuntata Ennio, di un’incollatura. Bea aveva deciso concedere a lui per primo quell’opportunità. Era sua – di Bea – l’idea della gita a Tashkent. Ci vedeva dell’avventura. E un campo in cui esercitare l’occasione che gli aveva offerto e metterla alla prova.

“Ma che ci andiamo a fare, fino a Tashkent?” Aveva detto Ennio, quando Bea gliel’aveva proposto. Erano nella stanza di lui, l’alloggetto da scapoli che toccava ai giovani, nel campo del cantiere: una stanzetta di dodici metri quadri sì e no con un loculo per bagno. Il letto era a una piazza e mezza, ma non erano dei giganti, né lui né lei, e ci stavano abbastanza comodi in due.

“A Tashkent è conservata la più antica copia del Corano!” Aveva detto Bea. Insomma, una scusa come un’altra. Lui fumava una sigaretta. Lei s’era alzata, nuda in mezzo alla stanza, e frugava nel mini-frigo, accanto al lavello, in cerca di qualcosa da bere. Faceva un freddo cane e fece una corsa per rinfilarsi sotto la coperta con la lattina di birra in mano. Ennio non disse nulla. Così fu decisa Tashkent.

Quanto a Toni, s’era aggregato. Perché era amico di Ennio e pure a lui piaceva Bea. Concordava sul fatto che Tashkent poteva essere una buona scusa, per varie cose. Non c’erano molte distrazioni, oltre a Bea, in cantiere. Toni non aveva una fidanzata italiana a Lucca né altrove, e nemmeno una fidanzata tajika a Rogùn. Sicché per il momento s’arrangiava. C’erano posti, nei dintorni del cantiere, che gli uomini frequentavano il sabato sera. Le usanze locali erano piuttosto rigide e abbastanza tristi, laggiù, in fatto di donne, un po’ per via della religione musulmana e un po’ a causa della montagna e della mentalità arcaica delle famiglie. Ma come dappertutto, nei dintorni del cantiere qualcosa in quelle usanze s’era via via rilasciato, in quella mentalità chiusa di montanari cominciava ad aprirsi qualche breccia. Le autorità chiudevano un occhio. C’era come una fascia di tolleranza, un anello di una decina di chilometri tutt’attorno a Rogùn, che faceva più o meno da zona franca. Toni avrebbe anche potuto passare un consueto week-end all’interno quell’anello, con le mediocri distrazioni ch’esso offriva a tutti gli uomini del cantiere, invece di andare a scapicollarsi fino a Tashkent. Ma s’era messa di mezzo Bea, a convincerlo.

“In tre sarà più divertente,” aveva detto.

Perciò, lui aveva delle aspettative.

“Se proprio volete vedere Tashkent, perché non prendete un volo da Dushanbe?” Gli aveva detto Mara, del personale. “E’ più sicuro, costa anche meno e avrete più tempo laggiù, per visitarla. Chi ve lo fa fare di sciropparvi questa valanga di chilometri e farci stare tutti quanti in pensiero?”

“Dài, Mara,” le aveva risposto Bea. “Lo sai che non è lo stesso…”

La Mara era un donnone sui quarantacinque, originaria della Val Tellina. Portava certi grembiali di lana larghi, calze di lana, una specie di cuffia dal cui bordo sporgevano ciocche di capelli grigi, niente trucco, una sigaretta che pendeva in permanenza all’angolo della bocca. Si lamentava del freddo e nel suo ufficio era sempre accesa una stufetta.

“Vabbè ma in due giorni… Benedetti ragazzi, non farete che stare in macchina…”

“Per noi va bene,” aveva detto Ennio. “E’ il modo migliore per vedere un paese.”

* * *

Però, ora che ci stavano, non era poi granché. Il paesaggio era tetro, una fosca distesa di montagne brulle. Cielo grigio su vette innevate, vallate di una desolazione sconsolata, vegetazione bassa, rasa dal vento, stesa qua e là in macchie di colori cupi. Era fine ottobre, l’inverno alle porte. Anche se a valle non aveva ancora fatto neve, il fondo del terreno era già gelato. Era il momento dell’anno in cui le portate dei fiumi cominciano a calare, perché smettono di sciogliersi le nevi del Pamir. Per questo avevano scelto quel momento per deviare il fiume. La prima data utile in cui il Vakhsh – che in tajiko vuol dire ‘selvaggio’ – scendeva sotto una certa portata. Diventava addomesticabile. La grande cerimonia che il Presidente sognava da anni e che tutto l’apparato governativo aveva dedicato gli ultimi sei mesi a preparare. Così, cogliendo il primo momento di debolezza del fiume, l’avevano ingabbiato dentro le gallerie.

Ma il territorio, di per sé, era deludente. Nelle valli e sopra i passi s’attraversavano villaggetti miseri, poverissimi e tetri. Le strade erano in disfacimento, le case diroccate. Bestiame circolava brado qua e là, tra abitazioni cadenti. Ma non tanto, non tanto bestiame. E nemmeno grandi estensioni di campi coltivati. Agricoltura e allevamento poveri, larghe fasce di terreno incolto, desolatamente nudo d’alberi e di piante. E scialbe, rade tracce d’attività umana.

Insomma, che ci andavano a fare, fino a Tashkent?

Ci arrivarono in serata dopo un viaggio di quasi dieci ore, con una sosta appena oltre il confine, nel parco nazionale di Zaamin, dove trovarono qualcosa da mangiare in una specie di vecchio sanatorio e poterono fermarsi a guardare un po’ d’alberi e una cascata. Il resto della strada, dopo Zaamin, fu meno disagevole, perché più pianeggiante e meglio manutenuto, finché verso le sei di sera entrarono in città.

Il GPS li condusse fino all’albergo. La guida che li attendeva lì parlava un buon inglese. Si chamava Vladimir ed era un pezzo di giovanotto alto un metro e novanta, col faccione largo, gli occhi e la carnagione chiari, con qualche vago accenno tartaro nei lineamenti da russo, capelli gialli tagliati corti a spazzola, zigomi alti e naso un po’ schiacciato. Già quella sera li imbottì di nostalgie del periodo sovietico. Vladimir era uno di quelli che rimpiangevano l’ancien régime, che data l’età certo non aveva conosciuto. Ma guardava oltre confine, verso la Russia, per il suo futuro. “Allora eravamo alla periferia dell’impero, ma in un impero. Ora siamo la periferia e basta,” diceva. Era nativo di Tashkent e del suo paese, com’era amministrato, si lamentava parecchio.

Li portò a cena in un ristorante della città vecchia e gli fece provare una versione montanara di plov. Oltre alla spalla di montone, verdure varie, peperoncino, seccumi, bacche, cumino e coriandolo, nel riso c’erano petti e cosce di quaglia disossati e uova di quaglia e il tutto era tenuto insieme da una salsa molto saporita che, disse Vladimir, era il segreto della ricetta e proveniva da una certa parte dell’animale. “Due sacche di grasso che quel tipo di argali, i mufloni di montagna, porta sulle chiappe, sotto l’attaccatura della coda. E’ quel pezzo della bestia, con tutto il suo grasso bollito e sciolto, che amalgama il plov,” disse Vladimir. Non era un piatto leggero, ma molto gustoso. Il plov che mangiarono era molto buono, una delle cose più notevoli di Tashkent, parve a Toni.

La città la visitarono il giorno dopo, con l’auto di Vladimir. Scorrazzarono per i quartieri ricostruiti dopo il disastroso terremoto del 1966, Vladimir guidava e illustrava loro vari aspetti della ricostruzione, di cui andava orgoglioso, come di una grande prova di solidarietà e di efficienza del vecchio sistema e di eroismo collettivo del popolo. Ma la parte più interessante, quella che a Vladimir riuscì meglio spiegare e su cui si dilungò, erano tutte quelle moschee e quelle madrase, le scuole coraniche. Curioso, per un comunista ateo come lui. Perché Tashkent era una città religiosa e Vladimir, anche se amico dei Russi, era fiero di essere nativo del “centro culturale più importante dell’Asia Centrale negli ultimi quattordici secoli,” come disse. In una di quelle madrase era custodita la scusa del viaggio, la famosa copia del Corano, risalente – pare – all’anno 651, di poco successiva alla morte del Profeta. Poi andarono al mercato e lì la cosa più interessante fu il forno del pane, con quelle pizze che i fornai appiccicavano ovunque, tappezzando le pareti interne della fornace, e poi ritiravano con le loro pertiche da giocolieri, con gesti ripetitivi d’infallibile rapidità.

Fu al forno che qualcosa cominciò a cambiare, nel comportamento di Vladimir. Comprò le pizze bollenti e le spezzò sul banco e ne distribuì un pezzo per uno. Ma quello che diede a Bea, glielo porse in un modo… Praticamente gliel’infilò in bocca. Bea lì per lì ci si divertì. Si scottò la lingua col pane bollente e cacciò un gridolino e Vladimir fu lesto a comprare su un banco di mescita un bicchiere di una bevanda, che – sostenne – era un toccasana proprio per quello, scottature palatali da pizze da forno, non per nulla il mercante aveva il suo banco di mescita lì accanto, era un estratto di certe radici… Bea bevve, ed effettivamente – disse – aveva un sapore fresco e amarognolo e lenitivo, ed era buono… E girellarono un altro po’ per il mercato e Vladimir non faceva che mostrare a Bea certi veli che portano le donne uzbeke e certi mantelli e Bea li provava divertita, si guardava negli specchi che i mercanti le offrivano e rideva e Vladimir le faceva provare altri veli e altri mantelli.

Quando risalirono sull’auto di Vladimir, lui le propose di mettersi davanti, per vedere meglio il resto della città. E Bea rise e accettò. Ennio passò dietro, accanto a Toni, e cominciò a formarglisi quell’espressione sul muso.

Visitarono ancora un paio di madrase e una bottega d’artigianato aperta nel recinto di una moschea, dove Bea volle comprare a tutti i costi una strana scultura a forma di pollo. E quando risalirono in macchina si misero persino a fare certe battute, lei e Vladimir, sul fatto che il pollo un po’ somigliava all’espressione immusonita di Ennio, lo sguardo fisso e vitreo soprattutto, di chi non sa più leggere la realtà, è rimasto indietro… tanto che pure Toni ci si divertì e ci fece su una risata. E poi gli diede una pacca sulla spalla, a Ennio, dài, gli disse, non te la prendere…

Fecero parecchi altri giri per la città e quando rientrarono in albergo Ennio era teso e taciturno, ma Bea era distesa e allegra e si mise d’accordo con Vladimir perché passasse a riprenderli dopo un paio d’ore. Poi disse: “Sono stanca.” E senza neanche sfiorare con lo sguardo Ennio salì in camera a riposare. Ennio restò nella hall.

La sera Vladimir li portò in una bettola lungo il fiume e provò a far bere Bea. Era una specie di zattera ormeggiata a ridosso delle arcate di un ponte e dentro c’erano dei tavolini di legno con delle sedie impagliate, un banco di mescita e un piccolo palco con dei musicisti che suonavano certe canzoni monotone e lamentose. Un paio di tavoli erano occupati da avventori uzbeki, solo uomini. A Bea non sfuggì d’essere l’unica donna nel locale, ma non vi trovò nulla d’allarmante. Vladimir offrì la bottiglia di vodka. Ennio non bevve neanche un bicchiere e se ne restò lì rigido e tetro, fissando Bea, ma Toni bevve eccome e pure Bea bevve e l’atmosfera – Ennio a parte – era particolare, intensa e tipica, e i musicisti suonarono qualcosa di più allegro e gli avventori uzbeki dagli altri tavoli brindarono agli ospiti stranieri. Non dovevano vederne parecchi, da quelle parti. Dopo il secondo brindisi Vladimir invitò Bea a ballare.

Bea accettò. Ma forse non credeva che lui volesse ballare in quel modo. E ritenne che fosse dovuto al fatto che non era abituata alla vodka, se la bettola cominciava ad apparirle un po’ più cupa e l’angolo verso cui la trascinava Vladimir troppo buio. E le parve che gli occhi dei musicisti e del barman e degli avventori uzbeki, che sembravano così ospitali, ora le stessero incollati addosso e la fissassero in un certo modo… Certo era perché non era abituata alla vodka che la testa s’era messa a girare e forse s’appoggiò un po’ troppo a Vladimir per stare in piedi, o forse lui fraintese quell’abbraccio o lo interpretò in un modo che lei non si aspettava, o magari l’avrebbe fatto comunque, e quando provò a baciarla lei non fece resistenza…

Dopodiché le cose precipitarono. Fu una questione di una manciata di secondi e tutt’un fatto di mani. Quelle di Vladimir, che diventavano sempre più insistenti e quelle di Bea che provarono a respingerle senza successo e quella di Ennio che dal tavolo si levò a indicare l’angolo sempre più lontano e in penombra dove quei due ballavano, cioè dove Vladimir spingeva Bea; la mano di Ennio si levò nella loro direzione, quando disse a Toni: “Guardala, quella puttanella, si lascia toccare dappertutto.” E quelle dei musicisti che viaggiavano veloci sulle corde di quelle specie di mandolini e danzavano sui fori dei pifferi e percuotevano casse e xilofoni e alzarono il ritmo di quella musica che – parve a Bea – ora aveva un timbro decisamente aggressivo, le picchiava sulle tempie e rimbombava dentro le orecchie. E quelle degli altri avventori uzbeki che, le parve, la additavano sghignazzanti, la femmina occidentale emancipata, sola dentro la loro bettola. E ancora quelle di Vladimir che ormai si facevano strada, sempre più insistenti e forti e decise e si muovevano su di lei senza che lei riuscisse a fermarle e la trascinavano verso quella porta. E alla fine quelle di Toni, che abbatterono la bottiglia di vodka, rovesciandola, e poi si strinsero a pugno, quando si alzò in piedi e li raggiunse nell’angolo buio subito prima che lui la spingesse dentro la toilette. E fronteggiò Vladimir, coi pugni stretti all’altezza dei fianchi, e gli disse: “Cosa cazzo ti credi di fare, di’?” Glielo disse in italiano e non gli tremava neppure un muscolo e quando Vladimir fece la faccia stupita e disse candidamente “What? What are you saying?” Rispose a muso duro: “Hai capito.”

Subito dopo Bea si staccò da lui e barcollava più per l’insulto che per la vodka, e s’accostò a Toni e si passarono entrambi un braccio attorno alla vita e fissarono duramente Vladimir, tutt’e due insieme. Bea non piangeva.

Per rientrare in albergo presero un taxi.

* * *

La mattina dopo, quando imboccarono la strada del cantiere, Ennio sedeva davanti, accanto all’autista tajiko. E pareva si fossero scambiate le maschere: Ennio taciturno e immusonito, il tajiko sorridente perché si tornava a casa, a Rogùn. Bea e Toni dietro, sotto il sacco a pelo, confabulavano. Forse non giudicavano Ennio, o forse sì; ma, se lo facevano, ciascuno per proprio conto. Non parlavano affatto di quel tale che sedeva davanti, avevano le loro cose da raccontarsi e ogni tanto Bea scoppiava in una risata.

Insomma, si modificarono dei legami, tra quei tre, e si ruppe e si consumò qualcosa e Toni non la fallì, la sua occasione. E se era dell’avventura che cercavano a Tashkent, beh un po’ ne avevano avuta. Tutt’e tre.

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