Mario Di Calo
Visto al Teatro Mercadante di Napoli

Dürrenmatt a processo

Alessandro Maggi riporta in scena "La panne" di Friedrich Dürrenmatt. Un processo (finto) allestito per gioco finisce per essere la metafora di un mondo che condanna invece di comprendere

Ritorna in scena La panne, racconto datato 1956 di Friedrich Dürrenmatt, in un adattamento originale a opera di Alessandro Maggi che adotta la bella traduzione di Eugenio Bernardi edita da Adelphi, e che ne cura anche la bella e raffinata regia per la produzione dallo Stabile napoletano. Edoardo Erba qualche anno fa ne aveva procurato un adattamento andato in scena con la regia di Armando Pugliese e l’interpretazione di Gianmarco Tognazzi, mentre Alberto Sordi è il protagonista dell’edizione cinematografica diretta da Ettore Scola nel 1972.

Il titolo originale del racconto è La panne. Una storia ancora possibile, ed è proprio dal titolo che bisogna partire per ritrovare i fili intricati della poetica dell’autore svizzero, il quale attratto dal tema poliziesco-giudiziario prova a perlustrare rapporti deteriorati della novella società contemporanea. La vita intesa come tribunale, e ogni imprevisto rappresenta un indizio, una traccia, un segnale verso il quale proseguire; il tracciato di un’indagine da condurre, ove riporre fiducia in un avvenire non propriamente roseo.

Giallista, appassionato di difformità, in Dürrenmatt tutto mira a scomporre le regole della collettività, una collettività che predispone sempre a ricondurre ad un ordine circoscritto attraverso leggi limitative e monotone il corso della vita: il compito dell’artista è quello di restituire attraverso un dibattito di impersonificazione una logica, una sintassi esistenziale alternativa.

Ebbene, è ancora possibile una storia? Sì, quella di Alfredo Traps, elegante rappresentante di zona di tessuti, ammogliato, padre di quattro pargoli, che per un banale incidente capitato alla sua autovettura subisce una battuta d’arresto. Una sosta forzata nella sua errabonda sussistenza lo costringe a fermarsi nel villaggio più vicino, trovando ospitalità presso la villetta del Signor Werge, giudice in pensione. Pausa forzata per il giovane uomo dalla vitalità frenetica e scalatrice. Per lui si apre un inaspettato processo alla vita: il giudice insieme ad altri suoi ex colleghi di tribunale è uso, per allenamento e un pizzico di veterano cinismo, a erigere processi immaginari a personaggi illustri: Gesù, Socrate, Giovanna D’Arco. La presenza dell’uomo in casa rappresenta una ghiotta occasione per attingere prezioso materiale vibrante da quella concreta presenza.

Tragicità e umorismo corrono sullo stesso filo: s’insinua fra loro tuttavia la corda vanitosa dell’angoscia, in Dürrenmatt nulla è durevole o costante, imprevedibilità, pericolo sono sempre dietro l’angolo con la consapevolezza che, come dice il vecchio commissario Barlach de Il giudice e il suo boia: «la porta è sempre aperta… mi piace tornare a casa e vedere se mi hanno rubato qualcosa oppure no».

L’adattamento di Alessandro Maggi procede con reminiscenze dell’ultimo Ronconi, e al Boia/ Signor Pilet è affidato il ruolo di commentatore esterno, in terza persona: la regia si serve di lui per gli snodi drammaturgici del drammatico incidente di cui è vittima Alfredo Traps, e sotto un cielo cangiante, che va dal tramonto all’alba di magrittiana memoria, l’inesorabile destino scorre lento ma inesorabile. Nessun impianto realistico a raccordare la luculliana cena di cui i commensali si fanno concessione ogni sera, le innumerevoli portate annunciate con teutonica forza dalla governante Simonetta, sono solo un gong molesto e fastidioso fra un round e l’altro, un match prelibato condotto con legale slealtà. Maggi evita singolarmente – e giustamente – il salotto borghese dando libero sfogo alla fantasia della scenografa (Marta Crisolini Malatesta) e conduce il “suo” processo su di una camporella rappresentata da una montagnola ricoperta di erbetta florida e lussureggiante. C’è tempo poi per riassettare quel tribunale che via via componendosi sul finale con elementi stilizzati, verso il tragico epilogo, affidato a quella Pizia/Boia, oracolo senza sesso e senza età, che non avrà modo di eseguire la sua condanna poiché qualcosa di più tragico e inevitabile è già accaduto.

Il gioco/processo è tutto svolto con ammirevole bravura fra pubblico ministero e imputato, in un godibile massacro esecrale senza esclusione di colpi, e i loro rispettivi interpreti Nando Paone, qui decisamente più a suo agio rispetto a Otto Marvuglia recentemente visto, e Giacinto Palmarini espongono con generosità tutta la loro aderenza emotiva, assicurando un ammirevole interpretazione. In scena con loro gli abili e incanutiti Stefano Iotti e Alberto Fasoli, mentre la governante impertinente è Patrizia Di Martino.

Lo spettacolo rimane in scena al Teatro Mercadante di Napoli fino all’8 dicembre.

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