Danilo Maestosi
A proposito di "Se tutto è arte"

L’arte della vanità

Il critico Roberto Gramiccia punta l'indice contro quel circolo vizioso tra mercato e galleristi che ha trasformato l'opera d'arte un oggetto di scambio come ogni merce, anzi una sottomerce: la qualità diventa irrilevante, conta solo il prezzo

Se tutto è arte… Non lasciatevi distogliere dal titolo con cui Roberto Gramiccia ha voluto battezzare il suo nuovo saggio nel quale, come in tutti i suoi libri precedenti, riversa e mette a nudo il patrimonio di conoscenze e prese di posizione della sua articolata biografia di medico, critico, curatore e collezionista d’arte e militante politico. Non è un’ipotesi, un dubbio accademico da conversazione da salotto quello che questo breve libello giacobino appena uscito in libreria e in circolazione e vendita anche su Internet (edizioni Mimesis, 124 pagine, 12 euro) mette in campo per fare il punto sulla situazione di involuzione e di stallo in cui è precipitata l’arte di oggi. Ma un inquietante punto di osservazione che si specchia in quell’immagine scelta per la copertina, un quadro preso in prestito da un amico pittore, Aurelio Bulzatti: un cavalletto che inquadra come una finestra una striscia di mare e uno sfondo di cielo caliginoso e sostiene su uno dei suoi perni un cappello. Un vuoto infinito e un’assenza, quella dell’artista, un pittore, che si è congedato, probabilmente arreso e chissà se mai tornerà a riprendere il suo mestiere.

Perché, se tutto è arte, niente è più arte: è il punto di partenza di Roberto Gramiccia che però si ribella e ci invita alla ribellione contro questa conclusione ricordandoci che in realtà la decisione su che cosa sia arte è stata avocata da un complesso apparato tecnico finanziario che governa il flusso della produzione artistica, certificandone arbitrariamente l’esistenza, la sopravvivenza e il successo e cavandone notevoli e incontrollabili profitti. Un sistema in cui non è facile identificare la testa. Ma agevole invece stanare la filiera di complicità che lo sostiene e lo alimenta: critici d’arte, collezionisti, direttori di musei, fondazioni, gallerie e case d’asta, curatori di ribalte e passerelle internazionali, giornalisti, che si sono arresi al nuovo corso. E fanno a gara a distribuire attestati d’arte ad opere e autori che non lo meritano. A volte per pigrizia, più spesso per convenienza personale. Guai mettersi di traverso: il rischio è di compromettere la carriera, giocarsi reddito e posizioni.

Un sistema che genera mostri. Gramiccia ne cita alcuni. Come Damien Hirst: quella serie di 1500 quadri tappezzati di bollini colorati che qualche hanno fa, esposti simultaneamente in 11 gallerie Gagosian, hanno strappato quotazioni da capogiro; quel pescecane in formaldeide che, esposto in una confezione malfatta cominciò a sfaldarsi; quella conferenza di presentazione da cui fu escluso un noto critico d’arte, Julian Spalding, non allineato al coro di consensi di altri colleghi. Come quell’autore, Chris Burden, che per fare spettacolo e mettere in scena una fucilazione si fece sparare addosso. Come Martin Creed che ha vinto a Londra il Turner Prize, accendendo e spegnendo le luci di una stanza. Come Daniel Orozco che alla Biennale di Venezia del ‘93 presenta una scatola di scarpe vuota e riscuote un mare di consensi. Come Maurizio Cattelan, superstar del contemporaneo made in Italy, che sigilla il suo percorso di trasgressioni calibrate come annunci pubblicitari con un water tutto d’oro, che strizza l’occhio all’orinatoio capovolto con cui oltre un secolo fa Marcel Duchamp inaugura questa rovinosa deriva dell’arte libera tutti.

Già, Duchamp: Roberto Gramiccia gli dedica un intero capitolo per dimostrare, con dichiarazioni e interviste dell’autore, come lui stesso confinasse la provocazione di quel cesso a testa in giù in un ambito che i suoi epigoni hanno ignorato e travalicato: il progetto di liberare ogni artista dai condizionamenti onnivori del mercato. Colpo di genio ma pessima profezia e pessimo esempio. Come è successo a molti osannati maestri – tra i quali Andy Warhol, padre fondatore della pop art – i quali, tradendo le intenzioni di Duchamp, hanno addestrato e autorizzato i loro allievi a trattare l’arte come una merce, cancellandone o impoverendone l’identità e la ragione sociale.

Una necessità dominante, una ragione costitutiva che Roberto Gramiccia rintraccia nello sforzo che sin dalle origini impegna l’artista a misurarsi con il senso della vita e l’ineluttabilità della morte facendo leva sulla propria fragilità, comune a tutti gli uomini, per esprimere la capacità di decifrare e trasformare in visibile l’invisibile e dargli forma. Un compito spesso doloroso, un privilegio unico che caratterizza e costruisce la storia dell’arte in un susseguirsi di fasi e trapassi di sguardi e linguaggi che ci conduce verso la modernità. Modernità che Gramiccia retrodata giustamente alla svolta verso la realtà in presa diretta impressa da Caravaggio. E poi accompagna con sintetica vena di narratore verso il trionfo della soggettività, il grande balzo in avanti che trasforma l’artista in protagonista assoluto, dominus della partita svincolato da imposizioni e condizionamenti, interprete prezioso del mondo contemporaneo e dei drammatici avvenimenti del Secolo breve.

Durerà così, tra fughe in avanti e ritorni all’indietro, fino alla fine degli Anni Settanta, quando si consuma lo strappo che Gramiccia battezza come l’epoca del postconteporaneo, quella che stiamo vivendo. Il crollo delle ideologie, la Storia cancellata e riscritta dal potere del mercato e del capitale finanziario. L’arte che perde ogni possibilità di negoziare la sua autonomia, come sempre aveva fatto. E vede liquefarsi il suo valore d’uso: le opere sottratte al godimento finiscono nei caveau in attesa di operazioni che ne alzino quotazioni e profitti. Un oggetto di scambio come ogni merce, anzi una sottomerce. La qualità diventa irrilevante, conta solo il prezzo. E a determinare il prezzo è un sistema compatto e articolato, difficile da scalfire, al servizio di pochi grandi investitori. Due rivoluzioni, quella del potere finanziario che prende il posto della politica, e quella tecnologica, che si sommano, moltiplicando i loro effetti e il loro dominio. Riplasmando la struttura sociale e le sue sovrastrutture. Soprattutto le più fragili, come appunto le arti visive. Danneggiate da una impossibilità di definirsi che le avanguardie hanno demolito dall’interno, con esiti che ora diventano devastanti, più che in ogni altra disciplina o settore dell’industria culturale. Teatro, cinema, fotografia e letteratura hanno subito analoghe spinte trasgressive, senza però sfaldarsi e senza perdere il legame con il proprio pubblico di massa. L’arte non è riuscita a resistere. Divenendo campo di ogni possibile contaminazione. Un gioco senza più regole dove tutto è possibile e ognuno, barando, può trascinare dove vuole.

Come uscirne? Provando a riformularne uno statuto, suggerisce Gramiccia, perché senza regole e senza limiti nessuna attività umana, persino il gioco del calcio, può andare avanti senza precipitare nel caos. L’autore prova ad enunciarne alcune. La prima è che ogni opera d’arte debba partire da un’idea, un’intenzione non importa quale, che ne accompagni la gestazione e la nascita. La seconda è che «l’idea deve prendere corpo. Avere un volume e un peso. Oppure deve essere pura superficie, ma colpire per la sua semplicità o al contrario per la sua grandiosità… Oppure al limite essere solo un idea. Ma quell’idea per fare a meno del volume, del peso, della superficie deve essere superba e inarrivabile».

In terzo luogo c’è il mestiere. Tutti gli strumenti, anche quelli tecnologici sono ammessi. Purché restino mezzi e non fini. In quarto luogo «c’è bisogno che l’opera d’arte racconti una storia o quanto meno sappia di realtà». Gramiccia si rende conto che quello che sta tracciando è un perimetro discutibile e arbitrario. L’importante è che non si tratti di un muro, ma di una via d’uscita. Di una proposta per aprire il dibattito. Ridando voce agli artisti, stanando quelli che a volte per timore dei tagliafuori non vogliono averla. Con la consapevolezza che l’arte è un problema di tutti, anche di chi non la pratica. Un bene comune da restituire al nostro futuro. Senza nostalgie o sogni di restaurazione. Ma una maggiore attenzione alla complessa trama di rapporti e di andirivieni che è fondamentale per capire il mondo dell’arte, tutelare le arti di tradizione, come pittura e scultura, che per la critica modaiola sembrano non far più notizia. E maggiore rigore e severità di giudizio.

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