Danilo Maestosi
Trent'anni dall'Ottantanove/8

Il pareggio del comunismo

Per capire il senso della caduta del Muro (e del comunismo) occorre riandare a quei frammenti di memoria nei quali la storia individuale assume un peso collettivo. Una memoria rotolata giù insieme alle pietre di Berlino

«Capitano… Mio capitano». Il primo ragazzo sale in piedi sul banco e pronuncia questo verso, stralcio di una poesia di Walt Witman. Poi un secondo lo imita. Poi un terzo. Poi l’intera classe che, infischiandosene della punizione che verrà, rende così omaggio al professore che ha insegnato a tutti loro la dignità della ribellione ed è stato cacciato via dal college. È la scena madre del film L’attimo fuggente di Peter Weir. Uscì in sala in quel lontano 1989, pochi mesi prima che la folla di Berlino Est desse l’assalto al muro che divideva in due la città, e lo scavalcasse. Pochi giorni dopo quella foto che immortalava la resistenza, finita in massacro, dei giovani di piazza Tienanmen: un giovane che impettito al centro della strada sfida uno dei carri armati, che soffocheranno nel sangue e nel nome del comunismo cinese la manifestazione.

Ancora oggi continuo ad associare il ricordo di questi due eventi, che chissà perché nessuno collega a quella sequenza. Una miscela di emozioni che magari confonde le idee, e sicuramente scompagina il copione più scontato delle rievocazioni di quei giorni di trenta anni fa. L’euforia della vittoria cristallizzata nell’icona di un gesto, una catena di gesti, di trasgressione, e intrecciata in modo inseparabile al sapore amaro di una sconfitta, di una perdita, di un vuoto che si sta aprendo. Di un attimo fuggente che non conta, non conterà più niente, immerso com’è nel flusso della Storia che dicono stia riscrivendo se stessa, ma è esclusiva dei vincitori e tu sei esonerato dal compito, insieme al Capitano che se ne sta andando, e probabilmente non troverà più impiego, ai ragazzi lì in piedi a calpestare banchi o a tendere la mano contro l’acciaio blindato, a tutti quelli che si domandavano, o stavano rinunciando a farlo: che succederà dopo?

Il comunismo è morto: questo il verdetto sommario del dopo. Anche se è vero a metà. In Cina il regime comunista ha solo cambiato volto, aprendosi in parte all’economia di mercato, ma il potere ottuso dei carri armati è sempre pronto a farsi sentire: alle frontiere di Hong Kong, oggi in rivolta, i blindati sono pronti ad entrare in azione. Quanto alla Germania e all’Occidente la narrazione è più lunga e complessa, si è trasformata in una questione di Borsa. Intendiamoci: allora – oggi molto meno – era giusto far festa. Quel muro di Berlino, tirato su nel 1961, in fretta e a zig zag, sulla mappa di spartizione delle potenze ex alleate che con la caduta del nazismo si erano divise la città, era una vergogna. Un illusorio atto di forza. E un crimine liberticida contro l’umanità, che non ammette sconti. Uno dei tanti commessi dal comunismo reale in ogni latitudine, che ho vissuto insieme a molti altri sulla mia pelle di comunista anarchico, dubbioso e periferico, figlio del dopoguerra e vittima delle degenerazioni della guerra fredda. Con indignata e impotente malinconia.

A partire dalla rivolta d’Ungheria del 1956, repressa nel sangue dalle armate sovietiche. Avevo appena dodici anni, mi ero convertito al comunismo studiando la storia e trovando nella lotta di classe un filo che teneva insieme tutto. Cominciavo a leggere i giornali, il Manifesto di Marx non l’avevo ancora mai neppure sfogliato, le spiegazioni con cui il partito comunista giustificò l’intervento mi sembrarono, però, ipocrite e abborracciate: a che serve battersi per un futuro in cui non c’è libertà? Ma non abiurai. Anzi.

La mia classe era piena di bulletti e simpatizzanti fascisti che sul comunismo ci sputavano su, e speculando sui fatti d’Ungheria, volevano imporre il loro comando. Andai dal loro capo e lo sfidai a risolvere la contesa a botte. Appuntamento sulla scalinata di Santa Maria Maggiore. Gli girai attorno per dieci minuti, poi riuscì a prendermi per il collo e mi riempi di pugni. Rincasai pieno di lividi. Mi giustificai inventandomi che dei teppisti avevano tentato di rubarmi per sfregio la cartella. Non lo denunciai. E questo valse a me e alla mia causa rispetto e onore delle armi. Giocando pulito il comunismo, in quella mia versione d’adolescente, aveva quanto meno pareggiato.

Poi uno cresce e scopre che invece il gioco si fa sempre più sporco. Che quella consolazione da vestale, quel tener vivo il fuoco, non basta più. Non basta correr dietro agli entusiasmi. O costruirci su false teorie. Come successe a tanti amici nel ’68 che si infervorarono per il libretto rosso di Mao e la rivoluzione culturale. Le immagini di quelli che si inginocchiavano a confessare colpe mai commesse e a ripudiare se stessi circolavano già allora e gridavano vergogna. Eppure ci sono voluti anni per capire il tradimento di valori e umanità che si stava consumando. Viaggiando oggi per la Cina non fai che imbatterti in città impegnate a ricostruire i loro centri storici, i templi e i palazzi distrutti dalla furia iconoclasta delle guardie rosse.

E quanti anni ci sono voluti ai comunisti italiani per affrancarsi dall’Urss e dal modello del comunismo sovietico, per liberarsi dalla figura di Stalin e dei suoi immediati successori. Per capire che qualunque rivoluzione non è una marcia di avvicinamento al paradiso, ma un laboratorio da studiare con il dovuto distacco e rimettere continuamente in discussione, facendo tesoro di ogni sconfitta. Per non disperdere il patrimonio delle tante vittorie ottenute, dalla lotta contro il nazifascismo a quelle per arginare la deriva democristiana e dischiudere gli spiragli di «una terza via».

Quanti anni e quanti errori. Il freno a mano tirato sulla condanna dell’invasione che ha stroncato sul nascere la primavera di Praga, l’espulsione dei dissidenti poi confluiti nel Manifesto. E infine la svolta della Bolognina, quella pietra tombale sul partito comunista italiano scolpita da Occhetto davanti a un gruppo attonito di partigiani, proprio mentre a Berlino il Muro si sgretolava e crollavano le frontiere della cortina di ferro. Una svolta poi ratificata da un processo sommario in un congresso in cui, salvo poche eccezioni, tutti sembravano preoccupati di smarcarsi dal peso del passato, senza preoccuparsi del futuro a cui si arrendevano, che è poi la palude in cui oggi siamo costretti a sguazzare. Come se il primo compito di un naufrago sia distruggere i relitti del vascello con cui è affondato e non preoccuparsi di recuperare il recuperabile per costruirsi una zattera con cui rimettersi in mare. Buffo che si debba prendere lezione da un conservatore, probabilmente razzista, come Robinson Crusoe.
Per questo, non riesco a esultare per il trentennale del Muro che crolla, che doveva crollare, ma insegnare a quelli che hanno vissuto quell’orrore di barriere e fili spinati sulla propria pelle, insegnare a noi tutti che applaudiamo al ricordo, almeno una cosa: niente più muri. E invece da allora è una gara a chi innalza la barriera più lunga e più forte. E in prima fila con consensi di massa ci sono governi di molti paesi che hanno vissuto la schiavitù della cortina di ferro. Il comunismo è morto, ha vinto il liberismo selvaggio, che sdogana spesso gli istinti peggiori.

Non avessi visto circolare in tante case, come souvenir da turisti, frammenti di quel Muro distrutto, non avessi sostato anch’io a Berlino davanti a quel chilometro di cemento, tappezzato di affreschi e vignette restaurati o rifatti, salvato come monumento alla memoria, sarei colto da un dubbio. E se quel Muro venuto giù, quello scempio di città spezzata, fosse ancora in piedi? Almeno nella sua realtà virtuale? Da Berlino, un amico mi ha mandato un’immagine a suo modo rivelatrice. È una ripresa dall’alto di notte. Una foto di qualche mese fa. Mettetela a confronto con le vecchie mappe anni 60. Est e Ovest sembrano separati dalla stessa onda frastagliata che la taglia su e giù come un colpo di bisturi. Due pianeti che restano diversi, distinti a colpo d’occhio. È un effetto del sistema d’illuminazione. A ovest ci sono le lampade a led che irrorano una luce più intesa e più fredda, di un curioso colore verdino. Ad est sono rimasti i vecchi lampioni, una luce giallognola più povera ma più calda.

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