Raoul Precht
Periscopio (globale)

Handke e Cézanne

Alla vigilia della consegna del Premio Nobel, vale la pena rileggere un saggio di Handke dedicato alla pittura di Cézanne. E alla sua capacità di osservare le cose in uno stato di attesa che la vita (e la sua essenza) si compia

All’inizio degli anni ’80 mi capitò di tradurre, per una rivista d’arte che non esiste più da tempo – AEIUO, diretta da Bruno Corà – un breve testo di Peter Handke. Si trattava di un capitoletto dal titolo Das Bild der Bilder (“Il quadro dei quadri”) tratto da un libro, Die Lehre der Sainte-Victoire (1980), che sarebbe poi stato tradotto per intero da Claudio Groff e pubblicato da Garzanti con il titolo Nei colori del giorno. A prima vista, potrebbe sembrare che il titolo italiano del libro non abbia niente a che vedere con quello originale, ma in realtà si tratta di una citazione dello stesso Handke, che a un certo punto, parlando di Cézanne, attribuisce con gratitudine al pittore una grande lezione, che gli avrebbe permesso appunto di essere «nei colori del giorno», come guarito da una precedente e inesplicabile cecità. Oggi che il modello di scrittura di Handke, sicuramente segnato da riflessioni e suggestioni legate a un momento storico-letterario particolare, è tornato d’attualità anche grazie al conferimento del premio Nobel, credo sia utile ritornare su quelle poche pagine, che mi sono sempre sembrate una cartina di tornasole del suo modo di affrontare la letteratura e i compiti dello scrittore.

Si può partire forse proprio dalle motivazioni della giuria del Nobel, da quella “linguistic ingenuity” che è stata attribuita a Handke e che non ha niente a che vedere con il nostro concetto di ingenuità. (Se c’è un settore in cui Handke ha dimostrato vera e propria ingenuità, nel senso abituale del termine, è semmai quello politico, ma non è certo questo il luogo per discuterne.) In questo caso “ingenuity” è sinonimo semmai di ingegnosità, d’inventiva, ma direi anche, trattandosi appunto di Handke, di freschezza, di un nuovo modo (nuovo almeno negli anni Settanta e Ottanta) di vedere le cose e di descriverle. La freschezza e la (seppur calcolata) immediatezza di Handke risaltano in modo particolare proprio in questo libretto, che si pone a un punto di svolta della sua creazione poetico-narratologica.

Intanto, a contraddistinguere Die Lehre der Sainte-Victoire è la scelta, assolutamente consapevole e deliberata, della lentezza. Qualche anno prima del famoso Die Entdeckung der Langsamkeit (La scoperta della lentezza) di Sten Nadolny, che uscirà nel 1983, quasi a testimoniare un comune sentire generazionale nei confronti del modo in cui l’uomo contemporaneo vive il tempo e la durata, Handke può rivendicare qui per primo l’esigenza di fermare il mondo, di delibarlo con calma, di descriverlo nei dettagli con parole che sono un sapiente distillato di emozioni. È un libro, questo, in cui non succede molto, un semplice e apparentemente disarticolato racconto di viaggi, frequentazioni di musei e passeggiate (nel senso handkiano, e prima ancora walseriano, di dure camminate, ardui e faticosi pellegrinaggi), in cui diventa centrale il massiccio della Sainte-Victoire, presso Aix-en-Provence, dipinto a più riprese da Cézanne. Un libro che peraltro rappresenta la continuazione del precedente Langsame Heimkehr (Lento ritorno a casa) e il secondo elemento di una tetralogia che proseguirà con Kindergeschichte (Storia con bambina) e Über die Dörfer (Attraverso i villaggi). Diversamente da testi precedenti, qui prevale un io narrante il quale procede a percorrere il mondo e le sue figurazioni (i suoi paesaggi) tentando di interpretarlo con ragionamenti fin troppo metodici, accurate e puntigliose descrizioni, estasi e improvvise illuminazioni.

Il fascino del libro sta nella determinazione con cui Handke abbandona qualunque pretesa narrativa, o estro inventivo, per affidarsi completamente alla realtà, che va però rivissuta in una specie di fantasticheria creativa. Non mancano, fin dall’epigrafe, dotti riferimenti a Goethe – la favola che permette di rammentarsi di tutto o di nulla, il buon Io o Io positivo (“das gute Ich”) che gode di una luce interiore, eccetera – a Hölderlin, a Stifter con le sue pietre colorate e il suo concetto di natura quale catastrofe che si rinnova, o ancora al Povero musicante di Grillparzer, ragion per cui non si può certo dire che Handke, pur innovando, non si sia messo deliberatamente nel solco della tradizione. Ma quel che preme allo scrittore austriaco è spezzare il ritmo della scrittura, bloccare il processo di fascinazione che permette a chi scrive di catturare l’attenzione e l’interesse spesso acritico del lettore; vedere insomma, della scrittura, anzitutto le contraddizioni, le lacune, ciò che di solito si cela. L’idea (forse, questa sì, ingenua) è un po’ di vedere cosa succede se si tenta di liberarsi della mediazione linguistica e letteraria per affrontare le cose direttamente, mediante una sensibilità o intuizione che dovrebbe metterci a diretto contatto con i vari strati della realtà. Le sensazioni fisiche del camminatore durante le sue lente ascensioni – nel luglio e nel dicembre del 1979 Handke organizzerà diverse spedizioni intorno alla Sainte-Victoire, percorrendo tutti i sentieri della zona –, più ancora dei suoi ragionamenti, diventano in questo senso essenziali, veicolo di conoscenza, materia dello scrivere, come gli rivela proprio Cézanne, i cui quadri sembrano a Handke la quintessenza dell’unione fra l’oggetto, l’immagine che esso riflette, l’effetto che suscita, il tratto del pittore e il quadro che ne scaturirà. È questa comunione che rappresenta per Handke l’inedito, l’inaudito.

Cézanne è centrale anche perché di tutti gli artisti del Novecento è per Handke il più enigmatico, il meno comprensibile nelle sue finalità ultime. Un artista che passerà nel corso della sua carriera pittorica dall’ombra alla luce, dalla definizione all’indefinito, dalla densità alla leggerezza, dal concreto al quasi astratto, un maestro per il quale la forma degli oggetti si fa sempre più importante, mentre i loro contorni tendono a confondersi con l’ambiente circostante e la pennellata carica (il “tratto” di cui tanto parla Handke) struttura le figure creando delle macchie di colore, con determinazione e certezza dell’esito. Un artista, infine, che ha sempre dichiarato di voler unire arte e natura, ma con la piena consapevolezza che per far ciò non bisogna mai dipingere “secondo natura”, ma attraverso costruzioni e armonie che ad essa siano parallele, perché le cose e le loro raffigurazioni possono saldarsi ed essere unisone solo in una scrittura-scongiuro, come la chiama Handke, del tutto atemporale, tanto da riportarci col pensiero a intuizioni davvero primarie, quelle delle incisioni rupestri. La scoperta di Cézanne quale vero e proprio maestro dell’umanità, e del suo rapporto con la pittura, contrassegnata da una spazialità che include reale e immaginario (doppia spazialità, anzi, quella del tragitto percorso dal camminatore e quella nel quadro), è allora per Handke la dimostrazione del fatto che certe modalità espressive sono possibili e che si tratta ora solo di trasferirle mutatis mutandis al regno, forse più complesso e retorico, della letteratura.

Tre anni prima, nell’annotare in un diario sui generis pensieri che confluiranno in Das Gewicht der Welt (da me tradotto per i tipi di Guanda con il titolo Il peso del mondo), Handke accusava ancora qualche difficoltà con la pittura, in cui gli pareva di riscontrare troppo raramente una vera urgenza, una questione, per così dire, di vita o di morte. Al tempo stesso, era alla ricerca di una «possibilità di descrivere il mondo: una sensazione si unisce finalmente a un oggetto». Ma prima di questa annotazione quasi furtiva e appena abbozzata si era lasciato andare a una lunga confessione, che riporto qui: «Ho l’impressione che quasi tutto ciò che in passato ho visto o sentito perda in me immediatamente la forma originaria e non sia più né descrivibile mediante parole né riproducibile mediante figure, ma che si trasformi invece in una crisalide priva di forma; e che debba essere appunto lo sforzo vero di questo mio scrivere quello di trasformare le innumerevoli e informi esperienze in qualcosa di completamente diverso, cosicché lo scrivere corrisponda a un loro generale risveglio, alla formazione di nuove figure, laddove però queste non potrebbero non essere collegate, proprio attraverso la mia sensazione, alle esperienze originarie. Anzi, non potrebbero non rappresentare, di fronte a queste cose autentiche e vere, ma insignificanti, le raffigurazioni mitologiche della mia coscienza e della mia esistenza – e questo concetto nasce ora dagli innumerevoli e terribilmente informi incroci di crisalidi dentro di me, a metà strada fra cose e immagini, ma decisamente irriducibili all’una o all’altra specie. E quale lavoro mi si prospetta in futuro, se davvero vorrò renderli idealmente e linguisticamente accettabili, questi incroci per ora privi di idea come di linguaggio, tutt’al più esistenti, ma come embrioni, in divenire, se davvero vorrò arrivare a qualcosa di radioso, di nuovo, che però denoti, almeno a livello di intuizione, l’antico, l’esperienza originaria, proprio come la farfalla contiene il bruco!».

In altre parole, e tornando alla Sainte-Victoire e alle raffigurazioni che ne dà Cézanne, se camminando è possibile attraversare tanto il paesaggio reale quanto quello figurato, passare dal grigiore della quotidianità ai “colori del giorno”, lo stesso compito dovrà essere assolto da uno scrittore che smetta di narrare una storia, di affidarsi alle illusioni della scrittura romanzesca, e che anzi forzandole dichiari una sua diversa presenza nel mondo. Non è casuale che, oltre ad ammirare e commentare in particolare un quadro specifico dipinto da Cézanne nel 1904, Rochers près des grottes au-dessus de Château-Noir, allora esposto al Musée du Jeu de Paume, quadro che diventa l’esempio-sorgente più fulgido del suo ragionamento e dei suoi obiettivi artistici, lo scrittore si dilunghi anche sulla poetica di Edward Hopper, le cui tele sono a un tempo iperreali e sprovviste di realtà, come le case di Cape Cod da lui dipinte, che Handke descrive in Lento ritorno a casa. Come nel caso di Cézanne, non si tratta di una mera e scontata èkphrasis: nell’ottica di Handke, anche Hopper è fedele alle cose perché sa ritrarle in una specie di situazione d’attesa e di sospensione, in cui vegetano quando l’Io non le osserva; ed è questa fedeltà, per Handke, a giustificare la scrittura, a darci il diritto di rivolgerci ad altri esseri per trasmettere e condividere un’emozione.

Trattandosi di uno scrittore che in un famoso saggio, per opposizione naturale e provocatoria all’engagement post-sartriano, si autodefiniva un abitante della torre d’avorio, il raggiungimento di questa consapevolezza non deve essere stata poi cosa da poco.

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