Leopoldo Carlesimo
Un racconto inedito

Caucaso

«Le videocamere di sorveglianza ripresero in dettaglio la scena. Nei filmati si vede un grosso fuoristrada col paraurti rinforzato da una pesante gabbia d’acciaio comparire all’improvviso sulla pista d’accesso»

Lungo il torrente l’acqua scorreva limpida tra ciottoli bianchi, tagliando in due l’abetaia. Il bosco risaliva i fianchi della valle per un centinaio di metri, poi diradava scoprendo ghiaioni e speroni di roccia. Più in alto la montagna era nuda, portava appena qualche sterpo abbarbicato contro le pareti. Sull’orlo dei crepacci resistevano mucchi di neve vecchia dell’inverno passato. Era settembre.

“Ecco la casa,” disse Givi. “Temu è dalla nostra parte e questo gli ha creato diversi problemi nella valle. È un amico, puoi fidarti di lui.”

Era il suo contatto laggiù, l’uomo che lo aveva preso in consegna fin dal suo arrivo. Più vicino ai sessanta che ai cinquanta, statura superiore alla media, ma corporatura troppo robusta, tanto da apparire basso e tarchiato. Volto largo e trascurato, barba invariabilmente lunga di qualche giorno, due cespugli per sopracciglia, forfora sul risvolto della giacca nera. In complesso, un uomo rozzo e greve. Parlava un inglese elementare e non aveva nessuna nozione del progetto. Ma quel che diceva aveva sempre un significato, spesso più di uno. Renato lo frequentava ormai da quasi due settimane e ancora non aveva capito in pieno quale fosse il suo ruolo in quella faccenda.

La baita si trovava oltre il torrente. Una costruzione primitiva, in legno grezzo e pietra, col pian terreno adibito a stalla addossato contro il pendio. La famiglia viveva al primo piano.

“La baracca accanto la usano come deposito, ma può essere liberata,” disse Givi. “Con poco lavoro Temu la trasformerà in dormitorio.”

Dentro, il piancito d’assi mal piallate lasciava intravedere mucchi di fieno e sagome scure e mobili di bestie. C’era un forte odore di stallatico e sulla tavola di legno massiccio erano sparsi piatti di formaggio, con quella pizza farcita che chiamano khachapuri e barattoli di miele. Una donna accanto alla stufa scaldava del caffè.

Temu era quell’omone grasso con la barba che sedeva a capotavola. Uno dei suoi tanti amici. Givi si circondava di molti amici e tutti loro, per una ragione o per l’altra, avevano qualcosa da proporre a Renato e qualche affare da combinare con lui.

Quello di Temu fu un affare semplice. Riguardava la baracca e raggiunsero rapidamente un accordo. Givi fece da interprete nel suo rozzo inglese. Renato non fece difficoltà sul prezzo.

* * *

Quando uscirono, Temu non li accompagnò. Preferiva non farsi vedere con loro. Dieci metri avanti l’uomo armato di fucile faceva strada. Costeggiarono diverse baracche dove i taglialegna tenevano la loro roba, ma non ne incontrarono nessuno.

Il posto era una strettoia di roccia grigio-rosata, oltre la quale la valle si apriva in una vasta conca dove pascolava del bestiame brado. A Renato parve fin dall’inizio un posto troppo bello, il più bello in cui gli fosse mai capitato di farne una.

Grossomodo, situarono l’asse diga e lo marcarono con mucchi di pietre prese dal torrente. Rientrarono prima che facesse buio e dormirono nella baita. Temu si ritirò con moglie e figli nella stalla e cedette loro la camera per la notte.

La mattina dopo, quando tornarono su, i mucchi che marcavano l’asse erano spariti, le pietre erano sparse in giro e le vacche al pascolo occupavano l’intera spianata.

“Ecco,” disse Givi. “Si comincia.” Fu l’unico commento che fece.

Uscirono dalla valle ed entrarono in quella parallela, più stretta e scoscesa. Kransen e Kraan. Così si chiamavano le valli e i torrenti che le percorrevano. Renato cominciava a familiarizzarsi coi nomi di quel Paese. Pranzarono in casa di Temu – quella donna che doveva essere sua moglie cucinò per loro: certe polpette di carne e verdure immerse in una salsa bruna e del formaggio fresco e khachapuri – e nel pomeriggio rientrarono a Tbilisi.

* * *

Tbilisi era a sei ore di strada. Arrivarono a tarda notte e Renato andò a dormire al Marriott, un albergo all’antica, con le camere ampie, pesanti tende alle finestre e i pavimenti coperti di grandi tappeti. Non la stamberga carissima dove fino ad allora l’aveva piazzato Givi. Tra i suoi amici, c’erano albergatori che affittavano vecchie stamberghe a carissimo prezzo.

Fu soddisfatto del cambio d’albergo. Quella prima crepa che riusciva ad aprire nell’involucro di tutele che Givi esercitava su di lui. All’inizio di un lavoro come quello, c’è solitamente qualcuno che rappresenta qualche interesse che offre la sua amicizia. Più o meno insistentemente. A volte la chiamano ospitalità. In genere, ci vuole abbastanza poco a capire l’interesse, un po’ di più a comprendere il valore di quell’amicizia e ancora di più a liberarsene.

Ma con Givi, Renato aveva l’impressione di non aver ancora colto in pieno la portata di queste cose. Un uomo così rozzo… eppure ogni giorno si aggiungevano nuove strade che portavano a lui.

La mattina dopo Givi era di nuovo lì, nella hall dell’albergo, e così pure nei giorni successivi, ed ebbero riunioni su riunioni con tutti gli uomini coinvolti nel progetto, rappresentanti del governo o meno. Givi era quasi sempre presente a quelle riunioni, ma raramente parlava. Lasciava che fossero gli altri a farlo.

E gli altri – tutti gli altri, fino al rango di ministri e sottosegretari – professavano un gran rispetto per lui. Più si saliva di grado, più quel rispetto diventava contegnoso. E agli alti gradi quasi imbarazzato. Ai gradi più bassi, invece, era un atteggiamento amichevolmente servile. Confidenzialmente sottomesso. Qualunque fosse il suo grado, non ci fu Georgiano che Renato incontrò che non tenesse, in un modo o nell’altro, ad attestare la sua amicizia per Givi. Tutt’intero lo sciame che ronzava attorno alla diga.

Discussero di tutto. Di programmi e di scelte tecniche, dell’opposizione di parte della popolazione al progetto e di problemi ambientali, di contratti di subappalto e di assunzioni. E, in definitiva, sempre delle stesse cose. E tutte queste cose tracciavano percorsi che invariabilmente lambivano Givi. Era un attrattore di interessi, uno dei fuochi attorno ai quali ruotano le orbite ellittiche, sotterranee, dei progetti del genere di Kransen.

Dopo una settimana di riunioni, ripartirono per il Caucaso e tutta quell’asfissiante cortina si dissipò. Era un momento liberatorio, tornare in cantiere – nel nuovo cantiere ancora da allestire, il luogo che avrebbe avuto tanta importanza nei mesi a venire. Si volta pagina, e non è più quella matassa di interessi e appetiti ed equilibri umani a contare, ma la naturale indifferenza del fiume e della montagna, con l’inverno caucasico alle porte; e quel che occorre per avere a che fare con questi altri attori della storia.

* * *

Entrarono nella valle e costeggiarono il fiume fino alla casa di Temu. La casa aveva davanti un palo e al palo era appesa per il collo la carcassa di un lupo, o di un grosso cane selvatico. Non c’era la settimana prima. Il palo era stato eretto pochi metri davanti alla staccionata, accanto all’ingresso.

“Questo cos’è?” Chiese Renato.

“Il cane di Temu,” disse Givi. “Il suo cane da pastore.”

Renato lo guardò.

“Gliel’hanno ammazzato,” disse Givi. “I taglialegna l’hanno sgozzato e gliel’hanno fatto trovare steso sulla soglia. Temu l’ha appeso a quel palo per far vedere che non ha paura di loro.”

Entrarono e sedettero a tavola e nessuno parlò del cane. La moglie di Temu servì il kachapuri e altre vivande e Temu stappò una bottiglia di vino.

Nei giorni successivi lo raggiunse parecchia altra gente della Compagnia. Topografi e geologi e ingegneri. Lavorarono su quella parte del progetto. Salendo tutti i giorni al sito diga e ispezionando il territorio fino alla centrale. Rilievi topografici e campionature di roccia. Non gli era mai capitato un posto simile. Le escursioni di lavoro parevano passeggiate in alta montagna, tra boschi torrenti e cascate. Appena sopra il fondovalle, i boschi erano perlopiù deserti. C’era fauna selvatica ovunque, un posto bellissimo. I topografi marcarono la valle con segnali che tracciavano in terra le opere da costruire.

Per tutta la durata della missione la carcassa del cane restò appesa al palo e per tutta la durata della missione non vi furono incidenti con allevatori e boscaioli. Naturalmente, non fu solo merito del cane. Temu denunciò l’episodio alla polizia di Zugdidi e perciò i poliziotti e altri amici di Givi ebbero una scusa per pattugliare la valle. Una presenza discreta, ma dissuasiva. Per il momento questo fu sufficiente a trattenere i taglialegna.

* * *

Le prime nevi caddero a metà ottobre. Una sporcata che imbiancò la valle e rinnovò i cappucci sopra le vette. In attesa che la baracca di Temu venisse pronta, la Compagnia piazzò provvisoriamente la sua gente a Mestia, un’ora di strada da Kransen. Una cittadina graziosa, gemellata con San Gimignano per via di tutte quelle torri. Una città piena di torri. Renato sentì delle storie sull’uso ne facevano i suoi abitanti.

Ogni famiglia importante, a Mestia, ne possedeva una. Torri dalle pareti lisce, ingresso alto e interno suddiviso in molti piani. Il piancito di ogni piano era forato da una botola e si passava da un piano all’altro con una scala a pioli. Secoli fa, all’epoca in cui quelle torri furono costruite, si scatenavano tra le famiglie di Mestia faide feroci. Per le solite cose: donne, bestiame, denaro. Un certo numero di famiglie si coalizzavano e davano la caccia a un’altra, che si rifugiava nella sua torre. Sprangava la porta e tirava su le scale a pioli fino all’ultimo piano, dove si conservavano scorte fresche di viveri e d’acqua per queste occasioni. Quelli di sotto organizzavano l’assedio e quelli di sopra resistevano finché potevano, buttando giù roba dall’alto. Ma il più delle volte alla fine della storia gli assedianti erano i soli che potessero raccontarla. Oggi le cose vanno un po’ diversamente, almeno nel finale. Ma insomma, il Paese era un po’ così, aveva delle tradizioni. E bisognava andarci cauti.

* * *

Le trattative, a Tbilisi, durarono ancora per tutto il mese di ottobre e alla fine il contratto fu firmato. Il progetto era sviluppato da un gruppo misto di Coreani e Georgiani. Quelli con gli occhi a mandorla pesavano per il novanta per cento e rappresentavano una nota società di Seul che sviluppava progetti idroelettrici in giro per il mondo e campava vendendone l’energia. Il dieci per cento georgiano rappresentava il governo, che aveva firmato coi Coreani un accordo in base al quale concedeva loro per trent’anni la gestione e i proventi dell’opera. Dopodiché, quelli di Seul sarebbero rientrati dell’investimento e usciti dall’affare e i Georgiani si sarebbero ripresi la diga. I soldi, per tutto questo, li metteva un pool di banche internazionali, con cui l’impresa coreana stipulò un accordo di finanziamento. Le modalità e i tempi di rimborso del prestito andavano di pari passo con le tariffe e i consumi dei kilowattore. E una Compagnia italiana avrebbe progettato e costruito la diga. Queste erano le parti in causa.

La rappresentante del governo georgiano era una donna giovane e brillante. Si chiamava Nadja, una piccoletta bruna ed energica, non particolarmente bella, ma tosta e vivace. Una delle poche, in quell’Amministrazione, che parlasse un inglese perfetto.

Nadja aveva studiato economia a Londra e da ragazza aveva viaggiato in Europa e in America. Non ancora quarantenne, single, una volta tornata in Georgia aveva fatto un primo tratto di carriera in banca centrale e poi s’era messa in politica. Non erano in molti, nell’Amministrazione, che sapessero trattare affari complessi con le banche d’investimento internazionali e le organizzazioni multilaterali. Il governo l’aveva investita del progetto di Kransen e al successo di quel progetto erano legate parecchie delle sue ambizioni.

Ma Nadja non era una di quelle teste d’uovo che le business school europee e americane sfornano come prodotti di serie da inserire nelle appropriate caselle di appropriate organizzazioni. No, Nadja aveva del temperamento. E del temperamento georgiano.

* * *

Fu lei a organizzare il ricevimento, la sera della firma del contratto. Un cocktail al roof garden del Radisson, che passava per il più moderno albergo di Tbilisi. Nadja si presentò con un’impeccabile mise nera, gonna cortissima e lunga mantellina trasparente, molto elegante e piuttosto sexy. Ricevette gli invitati, riuscendo ad animare persino la grigia delegazione coreana e riempiendo di attenzioni i rappresentanti dei fondi, sia quelli europei che gli asiatici. Bevve un po’ troppo già in quella prima parte della serata – temperamento georgiano – e verso le nove di sera la sua carnagione, solitamente pallida, era striata di bande rossastre e la sua voce squillante risuonava mezza ottava più alta del dovuto.

La cerimonia ufficiale fu una mediocre parata la cui prevedibile noia fu squarciata solo dai lampi di Nadja. Poi finalmente, dopo i cocktail e i discorsi ufficiali, un ristretto gruppo di soli Georgiani e Italiani andò a cena. Cena tardiva, passate le undici, in un ristorante lungo il fiume, su una specie di piattaforma di legno con un’ampia veranda affacciata sull’acqua. Lì comparve Givi.

Non s’era fatto vedere alle celebrazioni ufficiali. Non aveva partecipato al cocktail né assistito al ricevimento dove i politici di turno pronunciarono i loro discorsi e fecero le loro passerelle. Il ristorante era naturalmente di un suo amico – tutti i ristoranti di Tbilisi in cui si mangia vero cibo georgiano appartenevano ad amici di Givi – e naturalmente tutti lo salutavano e anche Nadja, appena entrò, per prima cosa andò da lui e l’abbracciò. Renato colse il bacio che lei gli stampò poco lontano dalla bocca, prima di appartarsi per qualche istante a confabulare con lui.

Givi parlò poco anche quella sera e mangiò e bevve poco e anche se il suo posto era a capotavola quella sedia restò per gran parte della cena vuota. C’era sempre qualcuno che lo avvicinava e lo trascinava da qualche parte a discutere qualcosa; e riceveva di continuo telefonate.

Chi animò la cena fu ancora Nadja. Nadja si lasciava un po’ andare. Aveva la scusa di tutti quei cocktail e del contratto firmato e la chiara intenzione di fare un po’ di baldoria. Quando i danzatori georgiani apparvero nei loro costumi su un piccolo palco che era stato allestito in fondo alla sala, lei li raggiunse. Si unì a loro anche quando le danzatrici uscirono e restarono solo i ballerini e le figure che seguirono furono per soli uomini. Erano scene di lotta, non di corteggiamenti e amori, e normalmente le donne ne erano escluse. Ma Nadja restò sul palco, benché questo non fosse contemplato né molto conveniente, e interpretò anche quei passi minacciosi e guerreschi e seppe tenere a bada tutti quegli uomini che ballavano con lei, ubriachi quanto lei e sempre lì lì per passare il limite; e guidò e mantenne in equilibrio tutto l’insieme, sul filo del rasoio, malgrado la sbronza, per l’intera durata della festa.

Givi, in disparte, andava e veniva.

* * *

Il primo convoglio di macchine entrò nella valle di Kransen agli inizi di novembre. Bisognava portare le attrezzature dentro e allestire il campo e le officine prima che cadessero le nevi serie, decembrine. Ma dopo alcuni chilometri, quando la valle si strinse nella prima gola che strozzava il torrente e schiacciava la strada contro la riva, incontrarono il blocco dei boscaioli. I taglialegna avevano abbattuto degli alberi e sbarrato la strada. E parecchi di loro erano lì, appollaiati sopra i tronchi, e fissavano il convoglio. Non sembrava che fossero armati. Non pareva che avessero intenzioni aggressive. Fissavano semplicemente la lunga fila di pick-up e camion e autogru e bassi-carichi bloccati dai tronchi, e probabilmente dentro di loro se la ridevano.

Nessuno, del convoglio, cercò di spostare i tronchi. C’erano un paio di bull-dozer e di escavatori sui bassi-carichi e avrebbero potuto farli scendere e rimuovere facilmente il legname. Ma nessuno, del convoglio, cadde in questa provocazione. Quel che fecero, invece, fu far partire uno dei pick-up alla volta di Zugdidi e della stazione di polizia. La strada era molto stretta e ingombra di tronchi e di camion e il pick-up ebbe il suo daffare per girarsi e imboccarla in senso opposto. E la sua goffa manovra non sfuggì ai taglialegna.

Uno di loro, un vecchio magro, con un bastone e un cappello a tesa larga, che portava una camicia lacera e sbrindellata, calzoni ampi sotto la vita e stivali col gambale al ginocchio, scese dai tronchi e s’avvicinò al pick-up che apriva la fila. Era solo, gli altri non si mossero. Il bastone del vecchio aveva l’estremità guarnita di una punta di ferro.

Ficcò la testa dentro al finestrino, dalla parte dell’autista. L’autista era un ragazzo sui vent’anni che non avrebbe dovuto tenere il finestrino aperto. Ma non poteva più chiuderlo, ormai, perché dentro c’era il mezzobusto del vecchio. Renato sedeva sul sedile posteriore e mise una mano sulla spalla del ragazzo.

Il vecchio disse qualcosa al ragazzo. Parlava in georgiano e il ragazzo rispose nella stessa lingua. Le frasi del vecchio erano lunghe e pronunciate a voce alta, quelle del ragazzo brevi e contratte. L’alito del vecchio puzzava d’alcol. Il vecchio fissava il ragazzo negli occhi e il ragazzo si sforzava di guardare fisso davanti a sé e di non sfidare il vecchio con lo sguardo. Durante quel dialogo incomprensibile Renato strinse più volte, con forza, la spalla del ragazzo. Il puzzo d’alcol era fortissimo e quando il tono del vecchio s’incattivì e la sua voce si fece più rauca e dura, Renato temette di non riuscire a trattenere il ragazzo e strinse la sua spalla finché le dita gli fecero male. Il ragazzo si trattenne. E anche quando il vecchio infilò la punta del bastone nel finestrino, il ragazzo fu bravo e mantenne il sangue freddo e non rispose alle provocazioni del vecchio. E quello alla fine fu costretto a ritirare il bastone. Renato allentò la presa sulla spalla del ragazzo e sostituì la stretta con pacche amichevoli. Il ragazzo era stato bravo. Renato voleva che lo sapesse.

Dopo questo, non chiese al ragazzo cosa avesse detto il vecchio. Il vecchio si ritirò. Erano probabilmente insulti, era indifferente che cosa fosse. Il vecchio tornò sui tronchi. E tutto rimase immobile, finché alcune ore dopo arrivò la polizia.

* * *

Ci vollero due giorni per convincere i boscaioli a lasciar passare il convoglio. La polizia non bastò. Dovettero muoversi, da Mestia e Zugdidi, politici locali e rappresentanti di varie associazioni e membri del clero ortodosso. E alla fine il blocco fu tolto. Ma non era mica finita, macché. Era chiaro che non sarebbe stata così facile.

Dopo quel giorno la Compagnia entrò nella valle e vi fissò la sua prima base nei dintorni della casa di Temu e cominciò ad allestire il cantiere. Ma allevatori e boscaioli ostacolavano il lavoro. Impedivano l’accesso a molte aree e i blocchi si ripeterono e si moltiplicarono, sia sulla strada d’accesso alla valle – che era la via obbligata dei rifornimenti – che nelle aree interne, dove occorreva aprire i lavori.

La maggioranza della popolazione nella parte bassa della valle – e poi oltre, nella valle maggiore di Kudoni, dove il Kransen si congiungeva all’Enguri – voleva la diga e voleva la Compagnia. La maggioranza di quella gente era composta di agricoltori e di operai rimasti disoccupati dopo la rottura coi Russi. I contadini avrebbero beneficiato del flusso regolato del fiume e dei progetti d’irrigazione dei campi. E gli operai avrebbero trovato lavoro in diga.

Ma nella parte alta della valle, dov’era situata la diga, vivevano solo boscaioli e allevatori, e loro la diga non la volevano. Volevano mantenere la loro valle così com’era e continuare ad allevare vacche per trarne carne latte e formaggi e ad abbattere alberi per farne legname. Ed erano convinti di essere i padroni di quella valle, che abitavano da generazioni.

Fuori di lì, a Tbilisi, a centinaia di chilometri da Kransen, c’era un governo che aveva dei piani per il Paese. Ed era anch’esso convinto di avere autorità sul territorio, inclusa la valle di Kransen. E lo sviluppo del potenziale idroelettrico del Caucaso e la conquista dell’autonomia energetica dai Russi, facevano parte di quei piani.

Ma la Russia era lì, a un passo; e occupava ancora militarmente quasi un terzo del Paese e la sua base militare era a tiro di cannone da Tbilisi; e la Russia la diga non la voleva.

Più lontano ancora, fuori da quel Paese, c’erano associazioni che non volevano la diga per ragioni più generali; o che, a torto o a ragione, erano ostili alle dighe in genere. Il loro interesse per la diga di Kransen era meno diretto, ma non per questo meno coinvolto, e sostenevano, coi loro movimenti d’opinione e di pressione, gli allevatori e i boscaioli della parte alta della valle. E i fondi europei che, alla fin fine, avrebbero finanziato il progetto e coi quali Coreani e governo georgiano negoziavano l’accordo di finanziamento, avevano anche loro dei principi e delle politiche sui diritti delle popolazioni indigene ed erano sensibili a quei movimenti d’opinione.

Era una partita complessa e in tutto questo il ruolo che avrebbero potuto giocare Givi e Nadja e Renato – che tutti e tre, per ragioni diverse, la diga la volevano fare – era in fondo un ruolo del tutto marginale, miseramente esecutivo e per nulla decisivo. Ma per loro contava molto, e in quei giorni non fecero che darsi da fare e discutere di come affrontare il problema e come condurre le operazioni a Kransen e come superare l’ostacolo dei boscaioli e degli allevatori.

* * *

Si incontrarono a Batumi, sul Mar Nero. Renato veniva da Kransen, dal cantiere. Nadja veniva da Tbilisi e dai palazzi governativi. Givi veniva da Zugdidi, dalla regione premontuosa di Svaneti.

Non alloggiarono in una di quelle nuovissime torri di acciaio e vetro che hanno ridisegnato negli ultimi anni lo skyline di quella città, una delle officine in cui si forgia la nuova Georgia. La maggioranza dei Georgiani e quasi tutti gli abitanti di Batumi andavano molto fieri di quelle torri. Alcuni di loro sostenevano che il lungomare di Batumi ormai rivaleggia con quello di Miami Beach; e in effetti tra Miami Beach e Las Vegas – con tutti quei casinò – oscillava, in versione di provincia, il modello cui parevano ispirarsi gli architetti e gli uomini d’affari che disegnavano il recente sviluppo della città.

Molti di quegli imprenditori e albergatori e gestori di casinò appartenevano alla folta schiera degli amici di Givi. Givi vedeva ottime prospettive in questa linea di sviluppo del litorale del Mar Nero. Però per se stesso, quando andava in quella città, non sceglieva nessuna delle nuove torri sormontate di vistose insegne al neon costruite dai suoi amici e non frequentava nessuno dei loro casinò.

No. L’albergo che Givi scelse per l’incontro con Nadja e Renato apparteneva alla categoria iniziale delle vecchie stamberghe a carissimo prezzo – però discrete e appartate e dove si mangia genuino cibo georgiano e si beve vino georgiano di qualità – che Renato aveva sperimentato nella prima fase della loro conoscenza, agli albori della tutela che Givi esercitava su di lui. Il proprietario dell’albergo era, ovviamente, un suo amico; ma appartenente a un’altra schiera e a una generazione diversa: non quella degli arrembanti uomini d’affari coetanei di Nadja, ma quella dei vecchi capifamiglia georgiani dell’epoca di Givi.

L’albergo era una costruzione modesta, su tre piani, con lo scheletro in pesanti travi di legno a vista e le tamponature intonacate color bianco sporco, tutte scrostate. La sala ristorante, le cucine e il bar occupavano il pianterreno, assieme a una vecchia e fumosa sala da gioco dotata di tavoli da carte e di un biliardo, ma priva di roulette. Le camere erano di sopra, piene di vecchi mobili e di letti coperti da pesanti trapunte e illuminate da certi lumini liberty fiochi e polverosi, coi paralumi in vetro soffiato che pendevano sbilenchi lungo la cigolante scala in legno che saliva al primo piano. Anche pavimenti e soffitti cigolavano. Era impossibile muoversi in quell’albergo senza essere accompagnati dal rumore dei vecchi legni che lo foderavano.

La sera a cena, nella sala ristorante al pianterreno dove l’albergatore amico di Givi servì una classica cena georgiana composta d’innumerevoli portate –  varie versioni di khachapuri più o meno farcito con ripieni diversi e piatti di formaggi freschi e stagionati accompagnati di miele e yogurt e panna acida e verdure e pollame e grigliati e stufati e pasticci di pesce del Mar Nero e svariate salse per condire tutto ciò; e bottiglie e bottiglie di vino georgiano – Givi Nadja e Renato parlarono di Kransen, ma anche di cibo e di vino.

Givi stava perdendo la pazienza. Pensava di organizzare qualcosa. Voleva mettere alcuni dei suoi a capo dei convogli che entravano nella valle e assegnarne altri ad ogni squadra che la Compagnia avrebbe dislocato sui diversi fronti di lavoro.

Ma Nadja frenava. Non voleva colpi di mano.

“La gente di Svaneti è con noi,” sosteneva Givi. “Sono in pochi a non volere la diga. Serve un po’ di coraggio. E bisogna mandare avanti un po’ di Georgiani. Finché lo fanno i forestieri, non si combina nulla. Ma non oseranno fermare i miei.”

“E se ci provassero?” Disse Nadja.

“Sanno che i miei non li possono fermare.”

“È proprio questo che non va,” ribatté Nadja. “Se davvero le cose si mettessero male, i tuoi non si farebbero fermare. Per questo è bene che stiano alla larga da Kransen. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un incidente.”

Givi versò da bere. Non commentò, bastava la sua faccia.

“Dovete avere fiducia,” disse Nadja. “Si risolverà un po’ alla volta, ci vuole tempo e pazienza.”

“Ci vuole altro,” disse Givi. “La sola cosa che quella gente capisce.”

“Non si può,” disse Nadja. “Il governo vuole la diga quanto te. Ma le banche d’investimento europee non finanzieranno mai un progetto in cui usiamo la forza con la popolazione indigena. Bisogna costruire consenso. Smontarli una famiglia alla volta.”

Nadja indossava una camicetta di seta rossa, molto scollata, che metteva in mostra l’orlo del reggiseno. Parlava e gesticolava in modo energico, ma il risultato era sexy. Per lo meno lo era agli occhi di Renato. E avevano bevuto parecchio tutti e tre, quella sera.

“Conosco quella gente meglio di te,” disse Givi. “Non arriverete mai a convincerli col denaro. È una decisione vostra, io vi ho detto come la penso. Non ci sono vie diverse, ce n’è una sola.”

“Sei un impaziente scimmione,” Nadja sfoderò uno smagliante sorriso. “Prova questo,” disse. Passò a Renato un bicchiere di rosso da una nuova bottiglia. Lo stesso calice da cui aveva appena bevuto. C’erano impronte di rossetto sull’orlo.

“Buono,” disse Renato.

“Certo che è buono,” disse Givi rude. “E prova quest’altro.” Gli passò un altro calice. Era ancora meglio. Ma Renato volle essere galante, e sostenne che quello di Nadja era migliore.

“Non ne capite un accidente, voi, di vino,” disse Givi.

“Stai parlando con un Italiano…” ribatté Renato; tentò uno stupido sorriso.

“E vi credete di conoscere il vino, voialtri Italiani?” disse Givi. “Non ne capite nulla. Il vino l’abbiamo inventato noi, qui in Georgia.”

“Certo,” disse Nadja. “Su questo ha ragione.” La sua voce era un po’ flautata. E il suo sorriso smagliante stentava a trovare una forma definita, sotto lo sguardo sempre più appannato. Il pizzo del reggiseno ormai usciva tre dita sopra la scollatura. “Il vino l’ha inventato Noè,” disse Nadja, inchinandosi pericolosamente verso Renato. “E dove fu deposta l’Arca, dopo il Diluvio? Qui nel Caucaso. Ergo il vino è nato qui.” S’inchinò ancora. “È un sillogismo.” Lo sguardo e il sorriso stavano sdrucciolando. Si lasciava andare.

“Che siate orgogliosi del vostro vino, lo capisco.” disse Renato. Il viso di Nadja era vicinissimo al suo e la sua spalla gli premeva contro il braccio. “Uno sosteneva che è la più alta prova di civiltà dell’uomo. Un Americano. Scrittore.”

Il suo piede incontrò quello di Nadja, sotto il tavolo.

“Non mi piacciono gli Americani,” disse Givi. “Si credono padreterni. E non mi piacciono gli scrittori. Raccontano un sacco di frottole.” Vuotò il bicchiere che aveva davanti e si alzò.

* * *

Quella notte, Renato concepì dei pensieri su Nadja; e se fosse stato in condizioni, avrebbe anche provato a metterli in atto. Ma con tutto quello che s’era bevuto e con la testa che gli girava, fu a stento in grado di guadagnare il letto prima di vomitare.

Però, quand’era ormai steso da un pezzo e il peggio sembrava passato, gli parve di cogliere dei rumori, fuori dalla sua stanza. La testa sbandava ed era tutt’altro che lucido, ma si concentrò e fu certo di sentire dei cigolii, lungo il corridoio, che accompagnavano dei passi. Un tragitto – così gli parve – che poteva grossomodo corrispondere al percorso tra la camera di Nadja e quella di Givi.

Non sentì altri rumori. Non sentì alcun sommesso bussare, né niente di più esplicito. Ma fu certo, addormentandosi, che Nadja fosse andata in camera da Givi. E sentì quella piccola, fastidiosa punta di gelosia. Del tutto irragionevole. E di rabbia per l’occasione perduta e la preferenza che lei accordava all’altro. Perché faceva questo? Una donna giovane, brillante ed evoluta, con quell’uomo rozzo e primitivo, tanto più anziano di lei…

Ma forse, si disse, Nadja era preoccupata per Kransen. Non era certa di riuscire a trattenere Givi e temeva qualche colpo di mano. E per tenerlo a bada aveva deciso di portarselo a letto. Per rafforzare la sua presa su di lui. Poteva essere, in una come Nadja. Una spiegazione plausibile. Aveva anche il pregio di lenire il bruciore dell’umiliazione che Givi gli aveva appena inflitto.

* * *

In cantiere non si combinava granché. Riuscirono ad allestire una specie di campo, un’ammucchiata di prefabbricati che le nevi del rigido inverno caucasico rivestirono alla meglio. Neutralizzando, sotto un’abbondante coltre bianca, la bruttura di quelle lamiere e reti metalliche e tralicci che offendevano un minuscolo angolino della bellezza della valle di Kransen.

Ma, a parte la costruzione del campo, non riuscirono a fare quasi nient’altro. Ogni volta che una squadra usciva ad aprire un fronte di lavoro – scavi, sventramenti di piste, perforazioni: poca roba, per il momento – immediatamente una pattuglia di boscaioli o di vaccari li fermava. Dovevano tornare indietro, nel campo. Erano costretti a starsene lì dentro. Non ancora assediati, ma in sostanza poco meno che questo.

Dopo Batumi, Givi non si fece più vedere. Il controllo che Nadja esercitava su di lui pareva funzionare. Le pattuglie dei suoi amici, quelli con le doppiette, e gli amici di Temu, e tutti i suoi della regione di Svaneti, disertarono la valle; e nei luoghi caldi in cui la gente della Compagnia entrava in contatto coi boscaioli, non c’era più nessuno. Sicché l’esito era scontato, ogni volta che s’incontravano quelli della Compagnia erano costretti a ritirarsi con la coda tra le gambe.

Taglialegna e allevatori consentivano loro di andare e venire lungo percorsi assegnati; e permettevano un flusso regolare di rifornimenti. Salvo ripetuti casi in cui blocchi di tronchi tagliarono nuovamente la strada; e fu necessario risedersi a un tavolo e rinegoziare l’accesso. Questo accadeva più o meno tutte le settimane.

Nadja comparve, di quando in quando. Assicurava che le trattative facevano progressi, anche se sul campo non se ne registrava traccia, e spandeva fiducia a piene mani. Era ottimista. Il rischio Givi pareva circoscritto e questo bastava a rasserenarla. Era convinta che il pericolo venisse da lì. E per tenerlo buono dovette probabilmente vederlo ancora, occasionalmente, tra Batumi e Tbilisi e le colline di Svaneti.

Intanto tesseva la sua tela e consolidava piccoli progressi. Passi modesti, ma sicuri; la via migliore, poiché pensava di avere tutto il tempo necessario ed era certa che alla fine l’avrebbe spuntata. In cantiere comparvero i rappresentanti di diverse associazioni e Nadja si diede da fare anche con loro. Teneva i rapporti con loro e coi rappresentanti degli agricoltori della valle di Kudoni e con quelli di boscaioli e allevatori della parte alta di Kransen e con quelli dei Fondi e si teneva sotto l’ala i Coreani e aveva l’energia e la cautela e il buon senso per tenere in piedi e cucire insieme tutto ciò. Ed era convinta di dominare il fenomeno.

Ma Renato sentì che a un certo punto da qualche parte qualcosa stava cambiando, e gli equilibri di quella situazione delicata che Nadja era convinta di controllare si stavano alterando, e che il colpo – con ogni probabilità – non sarebbe venuto da dove lei se lo aspettava. Ma proprio dalla parte da cui se l’aspettava meno.

Si cominciò a parlare di certi problemi tecnici, nella fondazione della diga. E se ne parlava piuttosto poco sul posto, a Kransen e in Georgia, e quasi di nascosto; molto di più, e più approfonditamente ed esplicitamente, ben lontano di lì. E insomma, quelle nubi si addensarono e quando arrivò la convocazione da Milano, Renato ormai ne immaginava la ragione.

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Atterrò a Linate poco dopo l’alba, con l’aeroporto avvolto in una nebbia fitta quasi quanto quella che aveva appena lasciato a Kransen. L’aereo ebbe difficoltà con l’atterraggio e arrivò in ritardo alla riunione, convocata in una saletta al terzo piano del grande edificio anonimo circondato di altri edifici anonimi all’interno un perimetro di palazzoni per soli uffici alla periferia nordest, dov’era ubicata la sede della Compagnia.

Solo tre persone lo attendevano nella saletta. Il suo capo diretto, un direttore finanziario e un direttore tecnico. Chi parlò fu il suo capo.

Finora, disse, il progetto non era andato molto bene. Tutti quei ritardi, e quei problemi con la popolazione locale. E adesso s’aggiungeva questo, un imprevisto nelle fondazioni… in un progetto in cui la responsabilità del design e il rischio geologico erano a carico della Compagnia…

Tutto questo per dirti, concluse il suo capo, che alla luce di quel che sappiamo oggi il nostro interesse per Kransen è cambiato. Meglio trovare una via d’uscita che ci consenta di ritirarci dal progetto senza danni. L’ostilità di boscaioli e allevatori, in questo senso, può trasformarsi in un’opportunità.

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Fu la domenica mattina presto, alle prime luci, che i bull-dozer uscirono dal recinto del campo. Un nebbione fitto come ovatta imbottiva la parte alta della valle e i bull-dozer mossero in fila indiana, tenedosi vicini l’uno all’altro, in modo che ciascun operatore non perdesse mai di vista il lampeggiante della macchina che lo precedeva. Come un corteo d’elefanti che marciano con le proboscidi attaccate alle code gli uni degli altri. Bastavano pochi metri per perdersi nella nebbia.

Davanti, un pick-up con un grande segnale lampeggiante e quattro uomini muniti di torce seduti sul cassone apriva la strada. In cabina, accanto all’autista, sedeva Temu. Renato aveva insistito perché almeno lui fosse presente, alzando il prezzo finché Temu non se la sentì di rifiutare. Fu lui a guidarli alle baracche dei taglialegna e scelse apposta una mattina di nebbia e un giorno festivo.

Il sentiero era abbastanza sgombro, non fu necessario abbattere nessun albero, appena allargarne la traccia qua e là, sradicando qualche cespuglio. La spianata era a monte dell’asse diga, in zona espropriata. Di questo Renato era certo. Aveva l’evidenza dei documenti e le ricevute degli indennizzi accettate dai tagliaboschi, coi relativi certificati di sgombero, e aveva ricontrollato e verificato tutte le carte che dimostravano che quelle baracche non appartenevano più ai boscaioli.

Fu un lavoro di pochi minuti. Tutto quel dispiegamento di forze, per quattro baracche di legnaccio marcio. Andarono giù appena toccate dalle lame dei dozer, che poi spianarono e ammucchiarono con ordine il legname sul bordo della pista; e quando si ritirarono lasciarono sulla neve la macchia sporca e confusa di quel modesto, disonorevole campo di battaglia; e la lunga, visibile striscia di impronte di cingoli, che stampavano nella neve la traccia della spedizione, dal campo alla spianata e ritorno.

Le macchine rientrarono e furono riposte con ordine nei capannoni delle officine. Il resto della domenica scorse via tranquillo. L’episodio si produsse durante la notte.

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Le videocamere di sorveglianza ripresero in dettaglio la scena. Nei filmati si vede un grosso fuoristrada col paraurti rinforzato da una pesante gabbia d’acciaio comparire all’improvviso sulla pista d’accesso. I fari accesi, in velocità, s’avventa contro la recinzione. Non frena, sfonda il cancello d’ingresso e penetra nell’interno.

La sequenza dura pochi istanti. Il fuoristrada si ferma al centro del piazzale, a motore acceso. L’uomo che ne discende impugna un’arma. Risulterà essere una mitraglietta, ben visibile nella luce dei fari che illuminano l’area centrale del campo. L’ingrandimento delle immagini e i bossoli recuperati a terra la identificheranno poi per un kalashnikov.

Nella ripresa muta, l’uomo spara una lunga, silenziosa raffica. La canna scintillante è puntata ben al di sopra degli alloggi prefabbricati che circondano il piazzale, in cui dormono – o sono stati appena svegliati di soprassalto – gli uomini della Compagnia. Poi l’uomo risale a bordo, il fuoristrada riparte precipitosamente, guadagna il varco aperto nella recinzione evitando con una brusca sterzata il cancello divelto e sparisce in lontananza. Restano, nei fermi immagine del filmato, l’inquadratura che mostra distintamente il volto dell’uomo che impugna l’arma, e quella che riprende il numero di targa del pick-up. I due vengono arrestati alcune ore dopo in un villaggio a poca distanza da Zugdidi.

Nella giornata di lunedì si formò un assembramento spontaneo di boscaioli e allevatori attorno alla stazione di polizia di Zugdidi, dov’erano detenuti, in attesa delle disposizioni del magistrato, l’uomo del kalashnikov e il proprietario del pick-up.

Ma fu un altro assembramento, che si formò a Kransen, quello che tenne in ansia un po’ tutti, a Kransen, Zugdidi, Tbilisi, Milano e Seul. Il campo della Compagnia e tutta l’area circostante, fino alla casa di Temu, furono circondati di un numero via via crescente di abitanti dalle valle. Chiusero gli accessi e accesero dei fuochi. Si organizzarono con capanni e ripari di fortuna. Era evidente che sarebbero rimasti lì anche la notte.

Partirono di quando in quando sporadiche sassaiole, qualche manipolo di giovani accennò timidi tentativi d’assalto alla recinzione. Alcune finestre dalla casa di Temu andarono in frantumi. Il presidio fisso di polizia che presidiava il campo dall’interno venne rinforzato. Ma fu consiglio di tutti evitare altri scontri con gli assedianti.

Però il giorno dopo gli assedianti crebbero e quello successivo crebbero ancora. Le manovre diversive dei giovani – sassaiole e assalti alla recinzione – si ripetevano con regolarità, in punti diversi, più o meno ogni tre-quattro ore. Punzecchiature che tenevano alta la tensione. Aveva tutta l’aria di un assedio ben organizzato, con una tattica dietro.

Non si poteva né entrare né uscire dal campo. E le scorte di diesel per i gruppi elettrogeni sarebbero durate ancora una settimana al massimo. Dopodiché, in un modo o nell’altro, sarebbe stato necessario affrontarli.

* * *

Seguirono alcuni giorni di consultazioni che coinvolsero le autorità di Zugdidi e Mestia, il ministero georgiano e l’ambasciata italiana a Tbilisi, la casamadre dei Coreani a Seul e la sede della Compagnia a Milano. E al quarto giorno la decisione fu presa. Fu richiesto alla polizia di scortare temporaneamente il convoglio fuori da Kransen.

Non appena si sparse la notizia, una gran calma calò sulla valle.

L’ultima immagine è questa: i pick-up, i minibus e i camion della Compagnia abbandonano il campo, percorrendo a ritroso la pista d’accesso al cantiere, preceduti e scortati dai lampeggianti della polizia. Il convoglio sfila tra due ali di allevatori e boscaioli taciturni, ma soddisfatti; con dipinto in faccia il sorriso irridente dei vincitori. Avevano portato anche le famiglie – donne e bambini – a godersi il corteo. Una sorta di parata trionfale interpretata a rovescio, dagli invasori sconfitti che lasciano le loro montagne.

* * *

Nei giorni e nelle settimane successive si discusse ampiamente – tra Tbilisi, Seul e Milano – se e quando la Compagnia avrebbe dovuto o potuto tornare a Kransen, e con quali garanzie di sicurezza, e a chi spettava fare quali cose perché ciò accadesse e il progetto della diga riprendesse il suo corso e i numerosi contratti che erano già stati firmati tra le tante parti in causa venissero onorati.

Ma qualcosa, in quelle discussioni, suonò fin dall’inizio fasullo. Note false sullo spartito, tutte le volte che ci si avvicinava a quel punto. Almeno una delle parti in causa pareva non avere alcuna seria intenzione di tornare davvero a Kransen. E ben presto anche le altre parti in causa se ne resero conto. E dopo un po’ di scambi di lettere legali, divenne solo una questione d’avvocati definire le condizioni e le forme attraverso le quali gli impegni presi potessero essere sciolti, i dovuti indennizzi pagati e i contratti risolti. E il progetto di Kransen abbandonato.

Per Renato, questo fu un successo. Condurre senza danni, e anzi con un certo ritorno per la Compagnia, quell’operazione di ritirata, gli valse un premio, un aumento di stipendio e un avanzamento in carriera.

Quanto a Givi, per lui fu un fatto ininfluente. Da quando Nadja se l’era portato a letto – cioè da quando il ministero aveva rifiutato i suoi consigli sull’unico modo di mandare avanti le cose – aveva perso interesse per Kransen. Da allora non se ne occupava più, aveva ben altri affari da seguire a Batumi e altrove.

L’unica che in apparenza ci rimise qualcosa fu Nadja. Certo, la stroncatura del progetto equivalse, per lei, a quella della sua carriera. Ma Nadja era una ragazza tosta e una donna piena di risorse. Si ritirò sulle colline da cui proveniva, nella regione di Kakheti, e per un po’ stette lassù, nella casa di famiglia, a leccarsi le ferite. Dovette rinunciare al posto al ministero e nessuno più le diede fiducia, negli apparati governativi. Ma lei riuscì ugualmente, a poco a poco, a venirne fuori.

Aveva ancora delle relazioni e trovò modo di farsi prestare dei soldi da tutti quei banchieri che aveva frequentato. Quasi un piccolo risarcimento, a titolo personale, a riconoscimento dell’intelligenza del suo impegno, malgrado l’insuccesso dell’iniziativa, forse anche dovuto a qualche segretuccio che le era rimasto appiccicato addosso e che per loro poteva valere quei soldi. Pochi soldi, quanto bastava a rimettere in sesto certe vecchie proprietà di famiglia e impiantare vigneti nelle terre che erano appartenute a nonni e bisnonni. La regione di Kakheti è la più pregiata per il vino georgiano. E Nadja ci sapeva fare, in poco tempo mise su una piccola azienda che produce vini di qualità.

Pare che sia abbastanza felice, su nel Caucaso. Produce ormai svariate migliaia di bottiglie all’anno e riesce a venderle non solo in Georgia, a Tbilisi e sul Mar Nero; ma fin oltre confine, ai suoi amici Russi, a Sochi e in Crimea. E non basta. Comincia a esportarne qualche cassa anche in Europa orientale, in Ungheria e in Polonia, alcune bottiglie penetrano fin in Germania. È una donna di carattere, Nadja, prima o poi riuscirà a imporre le sue etichette migliori anche in Francia e in Italia. Givi passa ancora a trovarla, tra i suoi vigneti, di quando in quando.

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