Giuseppe Grattacaso
A proposito de "La Belle Époque”

La vita è un romanzo?

Il bel film di Nicolas Bedos con Fanny Ardant e Daniel Auteil suggerisce un imperativo allo spettatore: bisogna che la vita diventi letteratura o, meglio ancora, che il racconto della vita ci aiuti a non abbandonare i sogni

La Belle Époque (nel film di di Nicolas Bedos ora nelle sale italiane) è il bistrot dove si sono conosciuti Victor e Marianne. In locali come quello si è formata e ha sostato l’atmosfera incantata e agitata che animò gli anni Settanta del secolo scorso. Non movida ma movimento, semmai ancora con l’idea di cambiare la società; non apericena a base di spritz o mojito, ma pensieri e canzoni bagnati da vino rosso o birra. La Belle Époque è ora solamente la ricostruzione scenografica del bistrot, il set ricostruito ad uso di Victor (Daniel Auteil), che vorrebbe rivivere l’incontro avvenuto anni prima, il 16 maggio del 1974, per ripercorrere la fase dell’innamoramento e dei primi tempi della relazione con sua moglie Marianne (Fanny Ardant), ma anche per sentir rinascere dentro di sé il sentimento di quel tempo, che è tramontato portandosi via quel tanto di entusiasmo e follia, di deragliamento dagli schemi, che rendeva più sana e felice la vita, possibile, perché ancora incontaminato, il futuro.

Victor è un disegnatore, che ha avuto un periodo di notorietà e che poi si è separato, o forse è stato espulso, dalla vita attiva. Crede che il presente tecnologico e virtuale contenga un germe malefico, con cui lui non vuole avere nulla a che fare («prima, a tavola – sentenzia a moglie e figlio innamorati della modernità – non si parlava al telefono, prima c’erano la destra e la sinistra»). Il suo matrimonio è in crisi, il suo lavoro è terminato con un licenziamento, la sua vena creativa è arida e si nutre di fantasmi. Quando la moglie lo butta fuori di casa, Victor decide di accettare l’offerta di Antoine (Guillaume Canet), un regista che allestisce set per danarosi che hanno voglia di vivere, almeno per qualche ora, in epoche passate. A Victor interessa solamente ritornare al 1974, all’interno di quel bistrot, ritrovare il fascino di quell’incontro. Ad interpretare la parte di Marianne da giovane sarà la bella e inquieta Margot (Doria Tillier), che è, e qui il gioco comincia a complicarsi, anche la compagna di Antoine.

La Belle Époque è il titolo del bel film di Nicolas Bedos (alla seconda prova da regista), che ha il pregio di apparire all’inizio una commedia sentimentale sotto il segno della nostalgia, come è stata letta da molti, per poi trasformarsi presto anche in tanto altro. Basta sentire Victor sussurrare, nel bel mezzo di una scena in cui è l’interprete piuttosto invecchiato e compassato del se stesso giovane, «è un’esperienza incredibile; anche se so che è tutto finto, è bello lo stesso», perché lo spettatore sia costretto a entrare con qualche incertezza in più nel complesso meccanismo ad orologeria costruito dall’attenta sceneggiatura scritta dallo stesso Bedos, un congegno ingegnoso che ha il pregio di non essere solamente originale. Di fronte allo smarrimento divertito e partecipe di Victor, alla sua improvvisa risolutezza a rientrare nella vita proprio attraverso la porta della recita, alla rinnovata capacità di pensare al proprio futuro, viene fatto di chiedersi se esista davvero un confine tra la realtà e la finzione, dove insomma, nella vita di ognuno di noi, finisca il set e cominci la scena vera dell’esistenza. Forse il film di Bedos ci dice anche che il futuro ogni volta va inventato, non importa come, con quali sotterfugi ed esponendosi a quali rischi, e che va ricreato anche il passato, nel senso proprio di immaginarselo come se fosse nuovo, ricercando nel tempo trascorso entusiasmo e coraggio per andare avanti in maniera più risoluta. Bisogna insomma che la vita diventi letteratura, o meglio ancora che il racconto della vita ci aiuti a non abbandonare i sogni, l’ipotesi di una possibile felicità, l’idea che esista un tempo prossimo in cui sia possibile ancora emozionarsi.

Victor, nella magistrale, contenuta interpretazione di Daniel Auteil, è inizialmente un uomo che intorno ai settant’anni sa solo pensare che tutto è già successo, che il meglio è per forza di cosa alle spalle e che non si può ridestarlo nella sua concretezza se non a costo di snaturarlo. L’organizzazione «Les voyageurs de temps», artificiale fin dal nome altisonante e fasullo, lo immerge nella simulazione di quello che è stato e, mentre lo trasporta in un passato che proprio nel momento in cui appare più contraffatto risulta incredibilmente autentico, gli fa sentire che esiste ancora una strada da percorrere. Anche il tempo, insomma, non è proprio quello scorrere asettico e feroce che crediamo, basta raccontarselo diversamente.

Bedos è bravo a mescolare i piani, a scantonare continuamente, a deviare proprio nel momento in cui pensavamo la storia avesse preso finalmente una direzione lineare e rassicurante, a suggerire piani diversi per l’interpretazione del racconto e, perché no, della vita, a far ridere, e tanto, lo spettatore, forse soprattutto delle proprie debolezze. Il regista gioca col suo stesso film e con la vicenda (finta) che sul set viene ricostruita. Ad esempio utilizzando in maniera sorniona e a volte volutamente cialtrona i brani musicali che compongono la colonna sonora, lasciando che il commento musicale, proprio quando sembrerebbe sia posto ad accentuare il tono sentimentale e debba quindi  risultare trascinante, sia veicolato da improbabili interpreti e risulti una accentuata smascherata finzione nella finzione.

Che cosa ridà smalto a Victor e ridona un volto umano e sereno a sua moglie Marianne (la Ardant è come al solito superba), la forza della loro vita passata o la finzione che lascia intravedere che il futuro possa essere il luogo di una nuova opportunità? E che cosa affascina veramente Victor: la nostalgica rappresentazione di quello che è stato o l’idea di un nuovo inizio con una donna che in fondo sta solo interpretando una parte? La verità è che non c’è una risposta e il film appunto non propone una tesi definitiva: il passato e il futuro possono solo rincorrersi e sovrapporsi. Il presente finisce per essere, in un modo o nell’altro, nel migliore dei casi, una rappresentazione.

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