Giuliano Capecelatro
Una (ambigua) moda collettiva

Tu sei populista!

In nome di un generico ugualitarismo, i rapporti tra estranei sono sempre più spesso dominati da un "tu" onnicomprensivo e livellante. Ma davvero il "tu" rivela che “siamo tutti uguali"? Non è un finestra aperta aperta sul populismo corrente?

Straniante. Sei lì, in attesa di chiedere un caffè. Unico rimedio per strapparsi al nirvana e tuffarsi nel rumore del mondo. “Che ti do?”: è come il pugno con cui Carlos Monzon mise definitivamente al tappeto Nino Benvenuti. Da dietro il bancone zincato ti guarda senza guardarti un/a ragazzo/a; quasi ancora adolescente, impegnato/a in un putiferio di tazze, tazzine, cucchiaini, sbuffi di vapore, cornetti barocchi. Potrebbe essere tuo/a nipote.

Straniato. Sorvoli sul galateo, biascichi la richiesta in cui provi a infilare un maldestro “e glaciale lei”, con il contorno di formule di cortesia – mi fa un caffè, per favore –, vana protezione di una distanza appena disinvoltamente violata.

La formula ha numerose varianti. Dallo sbrigativo “dimmi”, di chi ti comunica così che non ha tempo da perdere, meno che mai con te, al più morbido e in apparenza cordiale “dimmi, caro”, con cui si instaura da subito una simulata, effimera familiarità. Siglati, in fase di congedo, da un ecumenico “ciao”.

Imperversa il “tu”. Dilaga. Spesso sottinteso, di solito espresso a mezzo di particella pronominale (“ti”), ma dilaga. Dai bar agli autobus e alle metropolitane, lungo i marciapiedi della città, nei supermercati, nei talk show, nelle arene dell’intrattenimento televisivo. Un pronome insidioso, il “tu” con l’annessa particella; bounty killer della sepolta buona educazione. Un Sartana della lingua, che fa giustizia sommaria di differenze di classe, di rango, di preparazione e cultura, di età. E decreta, una volta per tutte, il sospirato avvento del regno dell’uguaglianza, dell’uno vale uno.

Le grammatiche lo classificano come pronome (personale, va da sé) allocutivo, vale a dire che viene usato nel rivolgersi a qualcun altro. In lizza con “lei” e “voi”, secondo una gerarchia di confidenza e opportunità.  Il “voi”, è storia nota, in gran voga fino all’Ottocento – lo si dava persino ai genitori –, visse poi una nuova stagione di gloria ai tempi infausti del fascismo, impegnato a scimmiottare, con esiti grotteschi e omicidi, i fasti della romanità imperiale; adesso si limita a qualche timida comparsata. Per i manuali, sia pure proposto con estrema cautela, ci sarebbe anche il vecchio “ella”, ma se ne sono perse le tracce da tempo.

Insomma, almeno a sentire le grammatiche, il “lei” dovrebbe farla da padrone nella trama dei rapporti interpersonali. Al di là degli scambi tra parenti, amici e conoscenti, il “tu” aveva comunque acquisito una posizione di tutto rispetto fin dalle origini nelle preghiere; divinità e santi sono sempre stati interpellati con la seconda persona; che però, lungi dall’indicare un’inimmaginabile abolizione della distanza e della venerazione, sancisce in maniera definitiva la subordinazione dell’umana specie alle sfere celesti.

Pronome subdolo, questo “tu”. Favorito dal tributo pagato quotidianamente all’onnipresente inglese, favella in cui “you” – pronome personale singolare e plurale – suona con assoluta normalità cento e cento volte al secondo, ma con mille sfumature che il confratello italiano non riesce ancora ad esprimere.

Subdolo, appunto, quel fratacchione di “tu”.  Perché non di galateo si tratta, ma di qualcosa di molto più sostanzioso e determinante. E allora il discorso deve abbandonare le placide pagine della grammatica per trasferirsi sullo scottante terreno dei rapporti sociali, e della loro rappresentazione sul versante politico. Con una certezza, che affonda nell’esperienza di tutti i giorni: che, non meno della ragione, il sonno della grammatica può generare mostri.

Il “tu” si presenta con le insegne benemerite di alfiere dell’uguaglianza. Posticcia, s’intende, puramente virtuale, ma strombazzata con grandi clangori e, ad ogni occasione possibile, spiattellata sotto gli occhi del mondo. E qui interviene in pompa magna la politica, nella sua accezione deteriore di astuzia e ruffianeria, di machiavellismo da sala biliardo. Dove la parola d’ordine, categorica e impegnativa per tutti, è proprio uguaglianza, quel concetto cui il “tu” offre una comoda sponda: se ci diamo del tu, abbiamo posto la pietra angolare dell’uguaglianza con la “u” maiuscola. Una rivoluzione.

Uguaglianza è la bandiera che sventolano freneticamente, rabbiosamente quasi, più di tutti quei gruppi e movimenti che vengono designati come populisti. Ma il veleno circola un po’ dappertutto. Chi avrebbe tanto coraggio da affermare che non siamo tutti uguali?

Conseguenza ineludibile dell’uguaglianza sbandierata dai populisti, al popolo spetta comunque l’ultima parola, con la Ragione indefettibilmente schierata al suo fianco. Per sua stessa natura il popolo, inteso come un corpo unico, qualcosa che ha caratteristiche pressoché mistiche, possiede una formidabile, innata capacità di discernimento e giudizio. Tale da rendere inappellabile, e insindacabilmente logica e giusta, ogni sua volontà e decisione.

C’è, in questo martellante panegirico del popolo, un fumoso e assai rabberciato richiamo alla volontà generale di Jean-Jacques Rousseau; non a caso un certo gruppo politico ha varato una piattaforma digitale, battezzata col nome dell’incolpevole filosofo ginevrino, che consentirebbe ai suoi adepti di esprimersi su qualsivoglia argomento di grande importanza.

Il problema è che popolo è una parola quanto mai ambigua, una nozione che civetta con l’indefinibilità. E che, ahinoi, la storia sta lì a dimostrare come le sue volontà e decisioni non abbiano sempre il crisma  della saggezza e dell’equità.

Il popolo – vogliamo dire quel coacervo di individualità che si aggrega in una massa? – è lo stesso che ha spedito sulla croce un certo Gesù Cristo, che pure da secoli e secoli professa di adorare. Il popolo si è dilettato a bruciare donne innocenti additate come streghe. Il popolo si beava dello spettacolo di squartamenti, impiccagioni, decapitazioni; del resto, ogni festival del sadismo ha ancora oggi legioni di estimatori. Il popolo non si tira indietro quando c’è da linciare qualcuno, anzi. Il popolo emana verdetti al minuto, come bruscolini, improntati all’immediata reazione emotiva, quasi sempre orientata dalla massima dell’occhio per occhio, dente per dente. Perché l’osannato, incensato, magnificato popolo ha il vizietto di trarre subito le conclusioni, senza soffermarsi ad esaminare tutti gli aspetti di una situazione.

Il cosiddetto popolo, infine, diventa una massa ululante e osannante non appena qualche caporione, più furbo, manovriero e disonesto degli altri, titillandone le corde umorali, si impadronisce del potere. C’è bisogno di rammemorare la fortuna politica, a furor di poppolo, di quel principe dei corrotti che fu Benito Mussolini? O di quello psicopatico di Adolf Hitler?

Ma tant’è. Bisogna vellicarlo questo popolo, e lo si vellica, lo si adula, lo si innalza su un piedistallo. E si stabilisce il mito dell’uguaglianza, che è in effetti un pateracchio.  Un’effettiva uguaglianza, come recita la nostra periclitante Costituzione, si raggiunge assicurando a tutti “pari dignità sociale… senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Il che significa, è ancora l’obsolescente Costituzione a parlare, “rimuovere gli ostacoli che… impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Magari imponendo, ope legis,  una distribuzione dei redditi meno predatoria. Ma chi mai oserà?

Attribuire, per esempio se si parla di fissione nucleare, al grido burbanzoso di “questo lo dice lei” oggi tanto in auge, lo stesso peso e valore alle parole di un fisico che da anni studia la materia e a quelle del primo starnazzante protagonista di reality-show agghindato da maître à penser è un colossale inganno, una presa per i fondelli universale, proprio del popolo innanzitutto, che apre le porte al trionfo del terrapiattismo. Una demagogica parodia dell’uguaglianza, un livellamento- delle intelligenze in primis-, dietro cui continuano ad operare e consolidarsi nel mondo divisioni e discriminazioni più sostanziali, sostanziose e sempre più inique.

Allora il “tu”?  Già la buonanima di Umberto Eco, qualche decennio fa, avvertiva che quell’apparentemente innocuo pronome poteva trasformarsi in un insulto. C’è qualcosa di insultante, in effetti, oltre che di fastidiosamente antiestetico, nel tutoyer di un garzone imberbe ad un estraneo canuto e in altre consimili manifestazioni. Ma soprattutto, travolto nel vortice egualitaristico, il “tu” diventa la maschera di ogni inestirpata disuguaglianza. Dopo secoli di onorata carriera al servizio della Lingua, al pari delle idee di Diderot, null’altro che la puttana di ogni briccone infoiato di potere.

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Accanto al titolo, una celebre foto di Henri Cartier-Bresson: “Brasserie Lipp”. Nel testo, un’opera di Cy Twombly.

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