Giuliano Compagno
Al Teatro India di Roma

Gli oggetti dell’arte

Quarantatré anni dopo la prima edizione del loro spettacolo dedicato a Majakovskij, Giorgio Barberio Corsetti, Marco Solari e Alessandra Vanzi riportano in scena "La rivolta degli oggetti". Non è un'operazione nostalgia, ma uno sguardo al futuro

Quarantatré anni fa, nel più importante teatro off di Roma, la seguente domanda di Vladimir Majakovskij risuonava silenziosamente un’altra volta ancora: «Onnipossente che hai inventato un paio di braccia / e hai fatto sì che ciascuno / avesse una sua testa, / perché non hai inventato una maniera / di baciare, baciare e ribaciare / senza tormenti?!?!». Fattisi carico di quell’infinito enigma, Giorgio Barberio Corsetti, Alessandra Vanzi e Marco Solari cercarono di rispondervi nulla rendendo, parola per parola, verso dopo verso, al poeta dell’idea e della passione al quale, grazie a quella versione de La rivolta degli oggetti, tre giovani attori dettero una vita, una morte e un volto. Da quel folgorante spettacolo in poi, l’originaria “Gaja Scienza” e i tre cognomi di cui sopra avrebbero intrapreso ciascuno la sua ricerca, seguiti da un pubblico e da una critica sempre attenta e riconoscente. Ancor più oggi, dopo quattro decenni di assidua presenza sulle scene più significative del teatro che ricerca (e di assenza dal teatro che non ritrova), valgono quei lontani giudizi di Franco Cordelli (“la sensazione di questo evento ammirevole e sublime”) e di Tommaso Chiaretti (“un esercizio d’impegno, di eleganza e di qualità”).

Il primo sedeva col pensiero tra il pubblico per gustare una soluzione di remake al Teatro India annunciata da mesi – giacché Roma resta pur sempre la città del “se ne parla” – e sul cui evento Barberio Corsetti aveva dissipato ogni dubbio: «Misurare lo scarto, la differenza tra quel tempo e questo, è stato il lavoro che abbiamo svolto con i tre giovani, che noi abbiamo chiamato per ragionare sul loro vissuto e sulla possibilità o meno di una visione utopica. Non cercavamo dei replicanti o degli avatar ma persone con le quali costruire un evento nuovo, disponibili ad aprire il loro immaginario, individuale e generazionale.»

E così, Carolina Ellero, Dario Caccuri e Antonino Santalena non hanno fatto alcun verso a coloro che non hanno sentito come pionieri, bensì hanno garbatamente salutato Vanzi, Solari e Barberio Corsetti per incamminarsi col loro passo sul sentiero del grande autore di un’epoca che si era chiusa da un pezzo. Di gesto in gesto i loro corpi andavano disarticolandosi nell’impari lotta contro quelle cose da cui non riuscivano a distaccarsi. Di atto in atto le pretese di una rivoluzione assai più surreale che concreta mutavano in parola, in poesia, in poesia sulle parole amanti (struggenti quei versi). E per la coda si afferrava un sentire che non era morto, le cui tracce erano persino visibili tra i rovi, tra il sangue e tra le urla di un secolo così pieno che era impossibile riflettervi con un po’ di senno.

Le reazioni da giovane veterano, quale sono: la sbandierata pari indifferenza tra il prossimo e l’estraneo mi rimandava al discernimento, che ancora difendo, tra famigliare e perturbante (visto che sono un po’ freudiano); l’essermi domandato se sarebbe stato più sano che la memoria di una creatività, pure tanto feconda, venisse perpetuata dagli stessi eroi divenuti centenari, da epigoni inverosimili… oppure lasciata con bella noncuranza – com’è accaduto in questa circostanza – in un angolo di giardino, o lungo una strada poco battuta. Tutto questo affinché il testimone fosse ripreso casualmente, senza darne troppa eco e senza darsene importanza. L’esito di tale scelta è stata una dimostrazione di stile da parte dei tre seniores.

Nemmeno per La rivolta degli oggetti il tempo era trascorso invano. Non che ne avesse scalfito la forza; era il tempo a essersi indebolito… Quell’antico sistema che Majakovskij aveva respinto in nome di un falso malinteso (e che infine Georges Perec, ne Les Choses, aveva licenziato dal dizionario ideologico degli anni Sessanta), restava muto, e con esso i corpi, che sempre meno avevano da mostrare…

«Potranno mai le foglie secche delle mie parole
trattenerti un momento
per aspirare avidamente?
Ma lascia almeno
ch’io lastrichi con un’ultima tenerezza
il tuo passo che s’allontana».

Per coerenza poetica ed etimologica l’oggetto è tutto ciò che si materializza a servizio dell’arte. L’oggetto in rivolta è tutto ciò che si neghi a tale scopo. Al rischio dello svanire di qualunque gesto percepibile, Ellero, Caccuri e Santalena hanno giocato in equilibrio su questo filo e sono stati bravi a trasmettere il vero segnale di pericolo: quello secondo cui la violenza dell’immagine duplicherebbe la violenza fatta all’immagine medesima, con ciò amplificando ogni sfruttamento documentale, ogni testimonianza e tutti i messaggi lanciati per moralismo, in nome della pedagogia e della politica. Sono stati bravi i tre attori a ricordarci – magari senza volerlo, non importa – che è l’oggetto che ci pensa, come scherzava Jean Baudrillard, ma non solo, che occorre restituire “l’oggetto all’immobilità e al silenzio” e con questo isolare l’immagine rispetto al caos urbano. Alla nostra stessa morte.

L’insospettata ferocia delle cose, così definita di Gadda, è stata sconfitta dall’emozione di un applauso sincero e un po’ commosso. Per quei tre là e per quei tre qua che si prendevano per mano come giovani amici… Che poi il loro abbraccio non fosse l’effetto di una somma ma di una moltiplicazione, mi è parso evidente. Io ne ho visti nove in tutto, ieri sera, sul palco del Teatro India. I tre assenti non sono ancora nati.

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