Attilio Del Giudice
L'ultima parte di “Arcane procedure"

La favola di Vito

«Certo, le cose del mondo (e dell’altro mondo) seguono percorsi strani, talvolta bizzarri ed ironici. Questo ragazzo doveva fare con Vito Aiello la stessa cosa richiesta dal vecchio: raccontare la sua vita»

Riassunto della prima parte: Vito Aiello si ammazzò a Torino in un albergo e si trovò  in un Aldilà, di cui non aveva alcuna cognizione. Fu scambiato per uno scrittore, lui non chiarì la sua condizione di non scrittore, pensando che l’equivoco potesse giovargli in qualche modo. Così fu costretto a seguire le procedure previste per gli scrittori , previo la sopravvivenza: doveva, cioè, trovare un personaggio che gli raccontasse la sua storia, dalla quale  scrivere un racconto di 30 cartelle e consegnarlo all’organizzazione centrale. Aiello trovò il personaggio, Luca, uno studente d’Architettura, un meridionale come lui, di Ischia, dove viveva con la madre Annalisa, disperata e perduta nell’alcol dopo la misteriosa  scomparsa del marito.

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Raccontò la sua storia con ordine e quasi con un’armonica logicità narrativa, mettendo a fuoco i particolari importanti ed economizzando per gli episodi secondari e poco funzionali alla chiarezza dell’esposizione.

Vito Aiello pensò che questa capacità fosse, in qualche modo, specifica di un tipo di artisticità e che Luca l’avesse ereditata, per vie cromosomiche, dal padre. Verosimilmente, l’esiguità del tempo a disposizione e la situazione particolare dovevano aver stimolato l’intelligenza del ragazzo. Comunque sia, Vito Aiello venne in possesso di un materiale narrativo ben articolato nel suo insieme e già, in parte, pronto all’elaborazione letteraria.

Luca, nel treno, si svegliò di soprassalto e si accorse di non essere più solo nello scompartimento. “Sarà salito a Bologna.” Pensò.

Il vecchio, che gli stava di fronte, nonostante la primavera avanzata, vestiva un cappotto nero e una sciarpa di lana bianca. Luca notò che assomigliava al protagonista di “Umberto D”, un film che, qualche giorno prima, aveva visto alla televisione. Guardò l’orologio: erano le cinque e venti. Fuori la campagna cominciava a ingrigirsi. “Fra poco sorgerà il sole.” Disse, tanto per rompere il ghiaccio. Ma il vecchio restò in silenzio. Luca sentiva su di sé uno sguardo pieno di stupore e di angoscia. “Vado fuori a fumare una sigaretta.” Aggiunse. Ma il vecchio lo trattenne per un braccio e gli fece cenno di aspettare. Estrasse un taccuino e scrisse: “Ho un cancro alla gola e non posso parlare. Ti prego, resta! Il fumo non mi dà fastidio. Avrei tanto piacere di conoscere la tua vita.”

Luca restò sorpreso. La situazione lo intimidiva. Abbozzò un sorriso. “Non so… mi scusi… torno subito.” Uscì nel corridoio. Accese una sigaretta. Era turbato. Guardò ancora l’orologio.

“La mia vita?…” Non aveva mai pensato alla vita come fuori di sé. Come qualcosa di omogeneo che si potesse raccontare. “Perché vuole conoscere la mia vita?”

Certo, le cose del mondo (e dell’altro mondo) seguono percorsi strani, talvolta bizzarri ed ironici. Questo ragazzo doveva fare con Vito Aiello la stessa cosa richiesta dal vecchio: raccontare la sua vita. Ma, evidentemente, allora, le prospettive erano diverse, profondamente diverse. Quella volta non fu così sollecito e gli mancò l’arte del montaggio. Gli vennero in mente accadimenti, sensazioni, sentimenti che aveva provato, persone che aveva conosciuto, che aveva amato, volti anonimi appena intravisti, ma gli sfuggiva il senso e, come dire?, l’anelito a identificarsi in un raggruppamento selezionato di comportamenti, quanto, insomma, conferisce alla vita di ogni uomo una specificità, una insostituibile identità, un’autonomia, una sorta di coscienza di sé, che, pare, sia alla base delle tante filosofie sulla sacralità della vita umana. Tuttavia, a pochi minuti dalla fermata di Bolzano, dove scese il vecchio, a Luca sembrò che, da un magma caotico di ricordi, alcune scene, alcune immagini, prendessero rilievo e assumessero forme più significative e quasi simboliche.

Una limpida giornata alla fine dell’estate. Alcuni ragazzi e ragazze mangiano frutti di mare. Sono molto allegri. Uno fa l’imitazione di vecchi cantanti strappacore. Tutti ridono. Anche due anziane signore inglesi, un po’ distanti dal gruppo dei ragazzi, sembrano divertite e, a un certo punto, applaudono entusiaste.

La scena si svolge in uno chalet in riva al mare. Dal mare viene Luca, manovrando un surf dalla bella vela arancione. Una ragazza gli va incontro. Lui le affida l’imbarcazione e riceve un prolungato bacio sulla bocca.

Nella casa, sulla collina di Casamicciola, Annalisa mette in funzione il videoregistratore. Sul monitor compaiono i titoli di testa di un videofilm. Deve essere uno dei videofilm del pittore geniale. Il volto disfatto di Annalisa, che beve whisky dalla bottiglia. Sullo schermo si vede una bambina malata. Si lascia scivolare sui pattini, spingendosi da un muro all’altro di un pianerottolo, nelle scale di un vecchio palazzo borghese. Ha occhi enormi, che sembrano perduti in uno sguardo oltre la realtà. Due facchini trasportano un pacco grande come un uomo. Chiedono alla bambina dove abiti il destinatario del pacco. La bambina non risponde, guarda lontano. Sopraggiunge una vecchia scorbutica. Grida istericamente: “E’ sordomuta! Dite a me che sono la portinaia!” Dalla porta d’ingresso di un appartamento, si affaccia un uomo sui quaranta, in vestaglia variopinta. L’attore somiglia moltissimo a Leopoldo Trieste dei primi film. Fa cenno ai facchini di entrare. Con gesti furtivi allude all’eccessiva invadenza della vecchia.

Annalisa guarda il film con occhi sbarrati, è come ipnotizzata dalle immagini.

Il personaggio, che assomiglia all’attore Leopoldo Trieste, estrae dal pacco una meravigliosa donna di plastica. E’ una bambola iperrealista, che, attraverso un congegno elettronico, apre leggermente la bocca e muove la lingua. Leopoldo (chiamiamolo così per comodità) sorride, follemente felice, come chi sia venuto in possesso di un qualcosa a lungo sognato.

Luca entra in un negozio di tabacchi. Una ragazza, dagli occhi dolci, gli dà un pacchetto di sigarette straniere. Luca bacia la ragazza sui capelli. Lei lo accarezza sul viso. “Sei cattivo, mi fai soffrire.” Dice.

“Perché?”

“Come, perché? Non ti sei fatto vedere più.”

“Però ti ho pensato… Sto sotto esame. In questi giorni sto studiando molto.”

“Veramente a me hanno detto che ti sei messo con una tedesca gigantesca…”

“Sono voci di corridoio…”

Sullo schermo di Annalisa scorrono le immagini del video. Leopoldo fa colazione in compagnia della bambola e le parla sommessamente: “Sai, ti aspettavo. Tu non devi farmi soffrire! Io sono buono. Non ti farò mancare niente. Qui, vedi, c’è tutto. Tutto quello di cui hai bisogno…”

La bambola apre leggermente la bocca e muove la lingua.

Annalisa beve dalla bottiglia, senza distogliere lo sguardo dallo schermo.

Luca e Traude, una donna sui trent’anni, alta quasi due metri, guardano il mare dal molo. L’aria è tersa. C’è un po’ di vento. I due si abbracciano.

Il videofilm di Annalisa mostra Leopoldo e la bambola in un enorme letto matrimoniale. Sul capezzale, c’è un grande quadro della madonna di Pompei. Leopoldo dorme. Sta facendo un sogno terribile. Sogna la donna di plastica nuda, che muove come sempre la lingua, oscenamente. Si rivolge a un manichino in una vetrina di negozio di fronte alla casa di Leopoldo. E’ un negro magrissimo, con un grosso pene eretto. Leopoldo si sveglia all’improvviso da quest’incubo, vede la bambola al suo fianco sul letto. Grida: “Troia, troia schifosa!” Si scaglia sulla donna di plastica con inaudita violenza. Le stacca la testa.

Annalisa, con lo sguardo incatenato alle immagini, stringe al seno la bottiglia di whisky, come fosse una creatura.

Sullo schermo appare un drappello di giovani. Cinque ragazzi. Sono ragazzi del Sessantotto. Una, in minigonna, lecca un gelato. Gli altri reggono le aste di bandiere rosse e una gigantografia di Che Guevara. Qui le immagini scorrono in rallenty. I ragazzi avanzano in una piazza deserta. C’è una luce surreale. Raggiungono la casa di Leopoldo. Dal palazzo esce la vecchia portinaia e depone sulla strada sacchetti di immondizia e la bambola smembrata. Un ragazzo vede la testa della bambola, la prende e la infilza sulla picca di una bandiera rossa.

Annalisa è scivolata dal divano. Ora è a terra stravaccata, con le cosce aperte. E’ sempre tesa alle immagini del video. Entra Luca. Ha il volto duro. Non saluta. Va dritto al televisore e lo spegne. Estrae dal videoregistratore la cassetta e con rabbia la sbatte a terra.

“Basta, basta!”

Annalisa con voce rauca urla: “Che fai? Assassino, è un’opera di tuo padre!”

“Mio padre? Chi è mio padre? Mio padre non esiste! Non è mai esistito!”

Annalisa tenta di scagliarsi contro il figlio, ma non riesce ad alzarsi. La bottiglia si rovescia. “Sei un mostro!”

La donna ha terribili conati di vomito, mentre piange disperatamente. “Vigliacco, vigliacco!” Improvvisamente, come per una soluzione definitiva, per una estrema accensione espressiva del disprezzo, divarica le cosce e infila il collo della bottiglia nella vagina. “Guarda, canaglia, guarda!”

Luca si copre gli occhi con le mani e piange sommessamente. Poi si avvicina alla donna e le pulisce con un fazzoletto la bocca. Il furore di Annalisa si placa in un pianto più umano. Abbraccia le gambe del figlio, che le accarezza con grande dolcezza i lunghi capelli.

Sotto la spinta della strana richiesta del vecchio dal cappotto nero, Luca rivisse queste scene, come spezzoni di un film, confusamente. Quando, però, le raccontò a Vito Aiello, fu in grado di conferire alle situazioni adeguati rapporti di consequenzialità narrativa. Tuttavia, per Vito Aiello, questo fu il momento più difficile o, almeno, lo sarebbe dovuto essere. Si trattava di gestire tre diverse atmosfere: quella spensierata e allegra dei ragazzi, quella allucinata e violenta di Annalisa e la storia, assai metaforica, del videofilm sperimentale.

In verità, Vito Aiello, benché intuisse che gli improvvisi cambi di registro fossero rischiosi e richiedessero un mestiere a lui pressocché sconosciuto, non se ne preoccupò più di tanto e andò avanti, senza badare alle sottigliezze letterarie, con l’ansia, peraltro comprensibile, di giungere, a tutti i costi, alla fine della storia.

Traude era stata un celebre pivot nella squadra di basket femminile di Monaco e vantava 87 presenze nella nazionale tedesca. Una vera star in quell’ambiente. Quando, a ventott’anni lasciò lo sport attivo, si sposò. Sposò il dottor Helmotz  di vent’anni più anziano.

Il dottor Helmotz, ogni mese, lasciava Monaco, assentandosi, per pochi giorni, da casa. Aveva avuto il prestigioso incarico di condurre, presso l’università di Karlsruhe, corsi speciali sulle teorie e sui metodi della comunicazione.

Traude non amava i locali da ballo, dove si sentiva goffa e preferiva frequentare, anche a Ischia, dove veniva ogni anno, a settembre, per una cura di fanghi, le palestre e i campi sportivi.

Vide Luca, in un torneo di tennis, la prima volta, e se ne innamorò.

Non avrebbe mai pensato di tradire il marito, verso il quale nutriva rispetto e stima, ma il clima e i colori meridionali, le canzoni appassionate, il sorriso ingenuo di Luca e la diffusa sensualità che il corpo elastico del ragazzo esprimeva, concorsero ad un repentino sconvolgimento degli schemi morali, delle convenzioni e dei patti sociali.

Tuttavia, sull’idea di farsi l’amante, si innestò nella mente di Traude il senso dell’organizzazione pratica e della chiarezza, che sempre avevano caratterizzato la sua condotta. Pensò di parlare lealmente e con franchezza al ragazzo e di stipulare con lui accordi precisi.

“Io ti voglio come amante, perché mi piaci. – disse. – Non voglio, però, distruggere il mio matrimonio. Da te voglio affetto e sesso. Ogni mese mio marito lascia Monaco per pochi giorni. Io voglio incontrarti a Merano, dove non sono conosciuta. Pagherò il tuo soggiorno in albergo e il viaggio. So che sei uno studente ed è giusto che questi aspetti finanziari siano risolti da me. Non voglio fare l’amore ora, perché desidero che tu rifletta su questa proposta. Ti chiamerò al telefono da Monaco dopodomani e mi darai una risposta. Se sei d’accordo, ti dirò io quando potrai raggiungermi a Merano.” Traude parlò col suo caratteristico accento tedesco e con queste parole  inequivocabili. Il vento le muoveva i capelli. Era bella e forte come una Valchiria.

* * *

Luca, con le donne, aveva fortuna. Non c’erano dubbi che piacesse molto, ma il primo impatto con l’amore fu doloroso.

S’era fatto la ragazza quando frequentava il quarto corso del liceo scientifico. Quell’anno la festa della maturità fu organizzata nell’aula magna della scuola.

Luca non ci poteva andare, aveva febbre e mal di gola. La ragazza, invece, che faceva parte della commissione organizzatrice, essendo all’ultimo anno, non ci avrebbe rinunciato.

Luca andò a letto presto, non riusciva, però, a dormire. Si girava e rigirava fra le lenzuola e pensava alla sua Mariella. Alla fine, verso le undici, non ce la fece più. Si vestì in fretta, prese il motorino e raggiunse il liceo.

Qui la festa era all’apice del frastuono. La musica rock, le luci psichedeliche, la calca enorme di ragazzi e ragazze scatenati avevano tolto alla grande e antica sala della scuola, coi busti di Silvio Pellico e Luigi Settembrini, ogni connotato di severità e prestigio.

Luca sentì di star male. Non vedeva la sua Mariella. De Cristoforo, il più odioso compagno di classe, gli consigliò, con uno sguardo pieno di malizia, di dare un’occhiatina nell’aula della sperimentazione scientifica.

Tutte le aule adiacenti alla grande sala, nell’occasione della festa, onde evitare pericolosi isolamenti, per ordine del preside, erano state chiuse.

Il professore di fisica, detto Pippo, era l’unico con la vecchia segretaria, ad avere la chiave del gabinetto scientifico.

Pippo aveva fama di conquistatore di allieve. A qualche frizzatina di gelosia di Luca, Mariella aveva risposto, però, con sdegno e rivelando verso Pippo un’antipatia profonda e irreversibile. “Quel pallone gonfiato… il gallinaccio sull’immondezzaio”.

Senza alcuna precauzione, la porta del gabinetto scientifico non era stata chiusa a chiave. I due erano nudi come vermi e  “la cosa” si faceva con spudorato fervore sul tavolaccio degli esperimenti, tra provette, vasi di Pascal e al cospetto, finanche, di un cranio enorme di animale preistorico.

La circostanza che si fossero scordati di chiudere la porta a chiave, palesava un’urgenza incontrollabile dei sensi, violenta, primordiale, tanto da indurre la suggestione di una qualche parziale innocenza. Ma, nella maggior parte dei casi, l’orgoglio maschile viene ferito proprio dalla dimensione fisica del tradimento; né il riconoscimento della preterintenzionalità mitiga la sofferenza, anzi, di molto la accresce. E, così, accadde anche per Luca, che tornò a casa con la febbre alta e con l’animo lacerato.

Avrebbe voluto piangere sul petto della madre, ma la trovò in uno  stato di completa ubriachezza. Andò, allora, a consumare il primo dolore della vita nella sua cameretta, dalla quale vedeva il mare inargentato da una silenziosa e ironica luna piena.

Capì, però, la lezione e, in pochi giorni, superò la crisi.

Era fatto così. Non era portato per le angosce abissali. Tuttavia, da allora, pur non coltivando pregiudizi meschini e pur evitando di compiacersi in cristallizzazioni ideologiche sulla natura femminile, quasi per istinto, considerò le attenzioni del gentil sesso con diffidenza e, spesso, si sorprese a pensare che dalle donne si dovesse trarre il piacere fisico, ma mai affidar loro la sincerità del proprio cuore. E il piacere lo trasse in svariate occasioni, lasciandosi corteggiare, desiderare ed amare, anche se il suo eros non raggiunse i livelli di spregiudicatezza  di un vero amatore professionale.

Va detto, però, che, da quel trauma della festa, visse solo tre anni.

* * *

In treno, Luca ricordò l’immagine di Traude sul molo. Col mare viola e verde, increspato da un vento leggero e ricordò che quel corpo, grande come la natura, apparsa all’Islandese, nell’operetta di Leopardi, gli avesse dato un senso ancestrale di protezione e di appagamento mai prima avvertito.

Faceva il viaggio per Merano l’ottava volta. Rientrò nello scompartimento. Il vecchio si preparava a scendere.

“Mi chiamo Luca.” Non disse altro. Il vecchio gli diede un biglietto e gli strinse la mano.

Sul biglietto c’era scritto: “Vieni a Bolzano appena puoi! Il mio nome è Giuliano Rinaldini. Abito in via G. Maheler. Non mancare! Ti prego!

Luca raggiunse l’amante nel piccolo albergo Goldener Lowe a Merano un’ora dopo e si dimenticò del vecchio dal cappotto nero,  che assomigliava a Umberto D.

Traude concepiva l’amore sessuale come una specie di performance sportiva, che bisognasse attuare con efficienza e precisione, puntando all’obbiettivo tecnico della simultaneità degli orgasmi, senza violare le regole del gioco. Insomma non aveva estro per le varianti fantasiose, verso le quali si opponeva, anche concettualmente, considerandole perverse anomalie. In tal modo le sembrava che la sua sessualità fosse molto naturale e non contenesse le colpevoli degradazioni della passione adulterina. La strettoia dello schema veniva, però, compensata, ampiamente, dalla frequenza. Facevano, infatti, l’amore, ininterrottamente, per due giorni consecutivi, con le sole brevi pause dei pranzi, delle cene e di poche ore di sonno.

Alle sette in punto del terzo giorno, con impressionante iterazione, Traude si svegliava, si vestiva, lasciava sul comodino i soldi per il treno, l’albergo e le sigarette, baciava gli occhi assonnati del ragazzo e se ne ripartiva per Monaco con la sua elegante porsche gialla fuori serie.

Luca, invece, dormiva fino a tardi e, solo verso le undici, con quel torpore tranquillo, che attestava una giovinezza senza ansie e turbamenti, si accingeva a prepararsi per la partenza, che avveniva col rapido per Napoli delle tredici e trenta.

Quella mattina, però, non dormì così a lungo. Infatti, a poco a poco, s’era fatta strada, nella sua mente, il ricordo del vecchio.

Improvvisamente, alle otto, stabilì che avesse tempo sufficiente per andare a Bolzano e far visita a quello strano signore, dagli occhi lucidi e penetranti, appagando una curiosità che, dopo la parentesi di due giorni e due notti d’amore, s’era insinuata, misteriosamente, nella sua semplice coscienza di ragazzo.

* * *

Il numero undici della Gustavmahler strasse era un antico e prestigioso palazzo, dal portone nero in legno decorato e con lucidi battenti a zampa di leone.

Luca salì una rampa di scale di marmo e si trovò di fronte una porta di ingresso verniciata di bianco con cornice dorata. Sulla targa di ottone si leggeva: “professore Giuliano Rinaldini”.

Bussò con un po’ di trepidazione. Gli venne ad aprire un’anziana signora, vestita di nero , col viso pallido e serio.

“Buon giorno. – disse Luca – dovrei parlare al professore Rinaldini.”

“Il professore, purtroppo, non è più. E’ deceduto l’altro ieri.”

“Il professore è morto?”

“Sì, ci ha lasciti. Ieri ci sono stati i funerali. Io ero la sua governante…. Lei è Luca?”

“Sì” rispose il ragazzo, con voce deformata dal nodo alla gola per un’improvvisa commozione.

“Ne ero certa! Si accomodi! Il professore, poche ore prima di morire, mi ha dato l’incarico di consegnarle una lettera. Prego, si accomodi!”

Luca osservò che i quadri, i mobili e i tendaggi denotavano un gusto raffinato e insieme severo. L’anziana signora tornò subito con la lettera. Sulla busta c’era scritto: “Per il signor Luca.”

Il ragazzo la prese e la infilò con qualche impaccio in una tasca posteriore dei jeans. “Mi scusi… io e il professore c’eravamo conosciuti in treno… e… insomma, volevo chiederle: che cosa insegnava il professore?”

La donna ebbe un moto di meraviglia, spalancando gli occhi dietro le lenti cerchiate di metallo.

“Come, non lo sa? Il professore era stato insignito del premio Nobel per la ricerca biologica…”

Luca avvampò di vergogna. “Oh!… Mi scusi, non lo sapevo.”

Non gli vennero altre parole. Ringraziò e, con frettolosa goffaggine, si congedò.

Avrebbe voluto subito leggere la lettera, ma, chissà perché, gli sembrò sconveniente farlo in istrada, quasi che la governante del professore lo potesse spiare da una finestra del palazzo e sorprenderlo in un comportamento volgare.

Finalmente, entrò in un caffè, ordinò un aperitivo e si sedette presso un tavolino per leggere la lettera. Assieme al foglio, scritto con chiara ed elegante grafia, Luca vide un assegno bancario al portatore di dieci milioni. Lesse la lettera.

“Caro Luca, ti sarai stupito che un vecchio malato mostrasse senza ritegno, l’ardente desiderio di conoscerti; ma se leggerai queste righe, sono sicuro che comprenderai.

Più di mezzo secolo fa, la mia cara moglie, che ho perduto l’anno scorso, mi dette un figlio. Decidemmo di chiamarlo Ivan, in onore del nonno materno, che era un russo, eroe della rivoluzione di ottobre.

Ivan, dal nonno, non ereditò solo il nome, ma anche una straordinaria vitalità e una forte propensione alle passioni ideali. Dotato di un grande talento musicale, studiò il violino, con risultati eccellenti. A meno di vent’anni e alle soglie del successo internazionale, lo stesso inesorabile male che, tanto tempo dopo, ha colpito me, concedendomi, ormai, poche ore di vita, lo strappò al nostro tenero amore.

Caro Luca, io sono un uomo di scienza e rifuggo dalle facili suggestioni, ma, quando ti vidi sul treno, mentre dormivi come un angelo, ho provato quello che si può provare di fronte a un prodigio. Infatti tu assomigli al mio Ivan come una goccia d’acqua assomiglia ad un’altra. Questa somiglianza è così straordinaria che, per qualche minuto, osservandoti, ho creduto d’esser preda di una allucinazione provocata dalla mia malattia.

Ora, se verrai qui e leggerai questa lettera, sono certo che capirai l’ardimentosa voglia di conoscerti e amarti. Sappi, comunque, che ti sono grato per avermi dato una grande emozione e, nel ringraziarti, ti prego di accettare questo dono.

Ti abbraccio. Giuliano Rinaldini.”

* * *

Quale sia stata la reazione emotiva di Luca, di fronte a una lettera così insolita e di fronte a una somma di denaro, piovutagli, è il caso di dire, dal cielo, la si può desumere dal fatto che, piuttosto che avviarsi verso la stazione dei treni, si mise a camminare nella parte opposta della città, senza avere una meta precisa, permettendo, anzi, che la meta precisa fosse appannaggio esclusivo del Destino e della Sorte. Questi se ne approfittarono, dando corso, precipitosamente, ad eventi che, forse, avevano già progettato nelle loro misteriose fabuLazioni siderali.

Camminando lungo i portici di Bolzano, Luca vide, tutto a un tratto, in una vetrina, un’Honda 1100, rossa fiammante, la motocicletta giapponese che aveva sempre sognato. Un cartello precisava: “quasi nuova. Lire 9.000.000”

Senza un attimo di esitazione, entrò nel negozio e mostrò l’assegno del professore.

Per la consegna dovette attendere un po’ di tempo. Il proprietario del negozio ritenne, infatti, opportuno accertarsi dell’autenticità e “copertura” dell’assegno bancario. Luca comprò anche un giubbotto e un casco protettivo.

Sulle motociclette di grande cilindrata si sentiva forte come un centauro e libero e felice come un uccello.

La morte venne per lui, senza preavviso, con le sembianze di un camion con rimorchio, che gli si parò dinanzi, come un muro nero, per un colpo di sonno dell’autista. Venne alla velocità di quasi centottanta chilometri all’ora, sull’autostrada del sole, tra Frosinone e Cassino, in una bella e struggente luce “a cavallo”, come si dice nel gergo del cinema e, precisamente, alle diciotto e trentacinque del ventuno maggio millenovecentottantasei.

* * *

Vito Aiello finì di scrivere la storia di Luca esattamente alle ventidue e trenta. Mancava un’ora giusta per consegnare il manoscritto all’Organizzazione Centrale, della quale, però, niente sapevano: né dove si trovasse, né se si dovesse seguire una qualche procedura particolare per la consegna.

Durante tutte quelle ore, mentre Vito Aiello scriveva, consultando, di tanto in tanto, gli appunti, Luca aveva mostrato un’agitazione eccessiva. Non riusciva a star fermo un minuto. Si alzava, usciva, camminava su e giù nel corridoio, rientrava nella saletta, si sedeva, poi si rialzava.

Appena Vito Aiello si fermava e chiudeva gli occhi per concentrarsi su una frase, Luca chiedeva se ci fossero problemi. Vito Aiello rispondeva: “No, no! Non ti preoccupare!” Oppure, se lo vedeva scrivere più a lungo, diceva: “Sta andando bene, no?”

“Bene, bene!” Rispondeva Vito Aiello. Allora lui riprendeva il moto perpetuo: si alzava dalla sedia, usciva, rientrava. A un certo punto, Vito Aiello si innervosì: “Senti, – disse – ora ti devi stare un poco fermo! Così mi fai girare la testa! Siediti e cerca di stare tranquillo!”

“Scusami, hai ragione! – disse Luca – forse è meglio che me ne stia fuori, se ti do fastidio…”

“No, no! Rimani pure qui! Solo mi devi fare la cortesia di non alzarti in continuazione. Te l’ho detto: siediti e cerca di dormire!”

Luca girò la sedia, vi si sedette a cavalcioni e con la testa sugli avambracci, sembrava aver trovato una posizione giusta per tentare di riposare. Ma la tensione doveva essere forte, perché restò a lungo con gli occhi spalancati, fissi sulla mano di Vito Aiello che scriveva. Finalmente, dopo più di un’ora, la stanchezza lo vinse e si addormentò.

Vito Aiello aveva finito il suo lavoro. Non c’era il tempo per rileggere quella storia, per correggere, per rielaborare.  Bisognava darsi da fare, cercare quella benedetta Organizzazione Centrale.

Guardò il ragazzo. Aveva ragione il professore Rinaldini, sembrava proprio un angelo. Gli parve crudele doverlo svegliare, ma era necessario. Lo chiamò sommessamente: “Luca, Luca!”

Luca aprì gli occhi per un attimo, poi li richiuse. Ma qualcosa in lui era cambiato. Vito Aiello se ne accorse. Sì, non poteva sbagliare, era troppo evidente: la trasparenza era aumentata, enormemente aumentata. Il nulla avanzava a vista.

“Oddio! – disse Vito Aiello – sta succedendo anche a me. Non ce l’abbiamo fatta!”

Lo chiamò ancora: “Luca, Luca!”Ma, ormai, di Luca non restavano che pochi labili segni.

“Però è stato esaltante averci provato, non ti pare?” Aggiunse con l’inveterata enfasi del giocatore d’azzardo, rivolgendosi al nulla. E questo fu l’ultimo pensiero di Vito Aiello. Poi, anche lui, dolcemente, svanì.

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2. Fine. Nelle immagini, alcune opere futuriste dedicate ai treni. Accanto al titolo, “Gli addii” di Umberto Boccioni della serie “Stati d’animo”.

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