Nicola Fano
Trent'anni dall'Ottantanove/1

Il muro di Boris

Il 9 novembre di trent'anni fa non è caduto solo il comunismo: con lucida determinazione è stata spazzata via l'illusione che il mondo potesse essere giusto e migliore. Le menzogne che trionfano nella politica di oggi nascono tutte da lì

Oggi, 31 ottobre 2019 – vedrete – il premier britannico Boris Johnson si butterà in un pozzo. A meno che un topo possente non mangi contemporaneamente, e nel volgere di poche ore, i trattati europei e le registrazioni dei comizi del nostro, Johnson dovrà mantener fede alle proprie promesse. L’hanno sentito tutti dire: «Il 31 ottobre usciremo dall’Unione Europea a ogni costo, altrimenti mi butto in un pozzo». Prego, s’accomodi.

Fra pochi giorni, il 9 novembre, si celebreranno i trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino: a quell’evento epocale e simbolico Succedeoggi dedicherà una serie di riflessioni d’autore per cercare di capire davvero che cosa è successo quel giorno, con il senno di poi. Ma, allora, direte: che c’entrano Boris Johnson e la Brexit con l’Ottantanove? Se avrete la pazienza di seguirmi fino in fondo a questa modesta riflessione, forse troverete la risposta. Come si dice mentecatto in inglese? Blockhead, nitwit, chump? Fate un po’ voi: la menzognera cretineria dei massimi leader di oggi nasce lì, nell’Ottantanove. Vediamo.

Il 9 novembre del 1989 ero a Dublino: un illuminato direttore (Renzo Foa, l’Unità) mi aveva spedito lì per una strana inchiesta: ora che l’Europa si aprirà a Est, che ne sarà dell’Ovest? Diventerà la nuova periferia del Vecchio Continente? Salperà nell’Atlantico come la Zattera di pietra di Saramago? Feci queste domande in Spagna, Portogallo e Irlanda. Il 10 novembre, l’Irish Times, il più prestigioso quotidiano irlandese all’epoca (il web non esisteva), fece un titolo allarmato e, in prima pagina, accanto alla storica foto del Muro picconato, pubblicò un’intervista a Giulio Andreotti, che al tempo era capo del governo italiano. Nella conversazione, il nostro premier non si diceva particolarmente contento dell’evento (il crollo del Muro, appunto): lo spettro della Grande Germania, diceva, da sempre turbava i suoi sonni. Il problema, evidentemente, erano la prevedibile riunificazione tedesca e, di conseguenza, la modifica sostanziale degli equilibri della vecchia Europa. La Ue, l’Euro e tutto il resto erano ancora molto al di là da venire: l’Europa era un mercato economico comune nel quale gli equilibri erano abbastanza solidi. La Gran Bretagna la faceva da padrone, Francia e Repubblica Federale Tedesca erano alla pari; l’Italia raccoglieva oneste briciole. La sterlina dominava, il Franco francese, dopo una dura svalutazione, teneva botta: con l’unificazione il Marco si sarebbe rafforzato oltremodo. Andreotti temeva la voce grossa dei tedeschi, il loro rigore eccessivo o, se si preferisce, la loro totale assenza di elasticità. Questo mi pare di ricordare, almeno. Naturalmente, l’intervistatore dell’Irish Times era molto soddisfatto delle risposte. Tutta l’impostazione del giornale era critica nei confronti della caduta del Muro. Scrutando quella strana prima pagina, mi ricordai del monito di mio padre, ex staffetta partigiana, il quale, ogni volta che io ragazzo gli nominavo qualcosa di germanico, da Goethe alla Wolkswagen, mi ripeteva: «Io con i tedeschi ho chiuso il 25 aprile del 1945». Che potesse valere lo stesso anche per i dublinesi?

Andreotti era il diavolo, sicché – malgrado il dogma di mio padre – quella mattina del 10 novembre 1989 pensai di lui e dell’Irish Times tutto il male possibile. Chi si pone contro il corso della storia si mette contro Marx, era il mio ragionamento: l’obbligo di aggiornare alle modificazioni della storia e dei rapporti di forza tra borghesia e proletariato le proprie convinzioni e la propria dottrina mi era sempre parsa la legge più feconda tra le tante elaborate da Marx e Engels. Cambiare, aggiornarsi: il Muro caduto è il segno di una radiosa aurora di democrazia. Più libertà, più eguaglianza, più opportunità.

A fine anno (22 dicembre 1989) morì Samuel Beckett che era molto più che un mio idolo: stranamente, e senza capire bene perché, colsi subito il segno premonitore della sua uscita di scena. Scrivendone il coccodrillo sul mio giornale dissi che purtroppo non avrebbe potuto valutare se aveva avuto ragione lui a descrivere l’oblio del mondo occidentale o se invece la radiosa aurora della democrazia anticomunista e capitalista avrebbe dato un senso a quanti, nelle sue opere, andavano quietamente in cerca del proprio spopolatore. È indubbio, infatti, che Beckett prima di chiunque altro abbia descritto il gaio vuoto nel quale ciascuno di noi, oggi, 2019, si consuma. Anche Beckett – come mio padre e molti altri senza fare troppo caciara, dopo – era stato partigiano: perché quella generazione sfugge il peso della caduta del comunismo?, mi chiesi. Né io, né mio padre né Beckett eravamo stati comunisti in senso sovietico: lo eravamo (lo siamo) stati all’arrembaggio di un sogno. Di una prospettiva possibile.

In questo senso, la Caduta del Muro non ha segnato la fine del comunismo: Berlusconi sulla minaccia del comunismo ci ha lucrato per due decenni, lo stesso promette di fare quel bandito di successo di Salvini. No. Il 9 novembre 1989 è crollata un’illusione, una via di fuga dell’Occidente. Quella via di fuga che molti, di qua dalla Cortina di Ferro, coltivavano come una speranza di futuro migliore, ignorando – i più, non tutti, ovviamente – la realtà della vita quotidiana dietro al Muro. Abbattere il Muro del comunismo per molti governanti, dopo l’Ottantanove, ha significato ufficializzare l’impossibilità di una società equa, giusta, solidale: valori ingombranti, scomodi da perseguire, meglio metterli in soffitta come cascami del comunismo assassino.

Per anni qui in Italia, subito dopo l’Ottantanove, si è dibattuto intorno a un libello (pubblicato dalla nuova Mondadori appena comprata da Berlusconi) intitolato Il libro nero del comunismo. È vero che Lenin e Stalin mangiavano i bambini (con contorno di caviale, pare), ma non era quello il comunismo che Berlusconi e i suoi volevano esorcizzare sotto i resti del Muro di Berlino. Erano i sogni, semmai. Era l’illusione illuminista di un uomo in grado di coltivare se stesso come se fosse il proprio giardino (l’immagine è di Shakespeare, ripresa da Voltaire in Candido): un uomo da accudire e crescere per costruire un mondo giusto. E migliore. Voi pensatela come vi pare, ma noi altri intorno all’Ottantanove pensavamo che si dovesse (e potesse) stare meglio tutti. Anche i peggiori. Anche i ladri e gli assassini. Quando cerco di spiegarlo, ora, ai miei allievi, vedo facce appese, incredule: che s’è fumato, questo qui?

Così torniamo all’inizio, al mentecatto inglese (ma, se volete, ai mentecatti di casa nostra, che vanno tanto per la maggiore). Che c’entra con l’Ottantanove? Ecco: il sogno di equità e giustizia era un argine contro la soperchieria, l’abuso di potere, la corruzione, la menzogna, la tirannia di pochi. Ossia i valori propugnando i quali quelli lì, i mentecatti, fanno proseliti. L’uso furbo e criminale della caduta del Muro contro la speranza di un mondo più giusto (questo è stato l’Ottantanove) ha spianato la strada ideale di Johnson, Salvini e compagnia bella. Io non conosco abbastanza la cronaca politica inglese (so solo che Johnson oggi non si butterà in un pozzo benché lo avesse giurato), ma conosco molto bene il mio Paese. Abbastanza da capire che Salvini non ha presa in virtù di un razzismo generico. No. Buona parte degli italiani (la maggioranza?, forse) vuole un nuovo schiavismo. Con la scusa della “crisi”, vuole schiavizzare la restante parte di italiani e tutti gli “stranieri” per sopravvivere, per mantenere i propri privilegi, per truffare poveri disgraziati e arricchirsi alle loro spalle. Gli elettori di Salvini non vogliono che i “negri” muoiano in mare: vogliono che sbarchino qui e facciano gli schiavi in silenzio. Perché sono inferiori, perché se lo meritano: è questo il certificato che Salvini espone nei suoi comizi baciando non so che cosa di cattolico con la sua bocca bavosa.

È come nella tragedia greca: il capro espiatorio assume su di sé le colpe del pubblico liberandolo dalla pena che gli spetterebbe. Questo fa Salvini: libera gli italiani della colpa della propria vocazione schiavista. Il freno a questo orrore è caduto giù con il Muro di Berlino. Non perché l’Urss fosse giusta e onesta: per carità! Tutt’altro. Ma il problema, quel 9 novembre, per la maggioranza di noi non è stato liberarsi dell’Urss (ché Gorbaciov l’aveva già affossata) bensì c’era bisogno di distruggere l’utopia salvifica di chi desiderava lavorare per un mondo nel quale tutti avessero gli stessi diritti e le stesse opportunità.

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