Lidia Lombardi
Da domani la Festa del cinema di Roma

Il cinema che vola

La tradizionale kermesse si ripresenta ogni anno più ricca di appuntamenti. Questa volta brillano la storia di un uomo senza gravita di Marco Bonfanti con Elio Germano e il film-documentario di Tony Saccucci sulla cantante lirica Emma Carelli

La Festa del Cinema di Roma numero 14 comincia domani per durare fino al 27 ottobre. Ma ogni anno il direttore artistico Antonio Monda la rimpolpa (in questa edizione il nuovo format “Duel”, in cui due personalità del mondo dello spettacolo o culturale si sfidano davanti al pubblico su temi legati alla settima arte) e la dilata. Ecco allora le pellicole di preapertura, come dire che con due significativi film la kermesse capitolina è cominciata da ieri, lunedì, mettendo già a fuoco uno dei suoi filoni: la diversità e la conseguente emarginazione insieme con il tema della maternità.

Il regista Marco Bonfanti (Nastro d’argento speciale cinque anni fa per Tubiolo e la luna) lo ha fatto con una delicata favola, pur ancorata nelle disattenzioni colpevoli, alla strisciante violenza del quotidiano. Perché L’uomo senza gravità (Fandango lo porta nei cinema dal 21 al 23 ottobre, Netflix sulla piattaforma dal 1 novembre) ci parla di un eccezionale individuo, Oscar, appunto svincolato dalla legge fisica che tutti ci attrae alla terra. Così fin da quando nasce – in una notte di bufera con mamma e nonna che corrono in macchina all’ospedale della provincia trentina in cui vivono – egli si libra pulito verso l’alto tendendo il cordone ombelicale come fosse il filo del palloncino che è lui. Sua madre non sa (o non vuole) attribuire la paternità tra i suoi tanti amori e se lo cresce insieme con la nonna nel chiuso dell’appartamentino di paese, in un periodo, gli anni Ottanta, gravido di pregiudizi ancorché dominato dall’attrattiva della televisione. E infatti sono Raffaella Carrà e Batman i miti-passatempo di Oscar, confinato nelle quattro mura per evitare lo scandalo della sua naturale perenne levitazione. Severa la nonna a nascondere il “misfatto” di quel nipotino che vola; decisa la mamma a apparecchiargli una vita meno anormale. Allora gli mette due pesi in tasca e così Oscar, ancorato a terra, può uscire con lei. E conoscere Agata, una bambinetta tutta vestita di rosa che scopre il segreto e gli regala il suo zainetto da utilizzare come peso. Quella borsa appesa sulla schiena diventerà la costante della vita del protagonista, un’adolescenza confinato in montagna con la madre per evitare curiosi indiscreti.

È leggero anche nell’animo, Oscar: scrive sui post-it frasi tratte dalla letteratura più amata. Ma alla fine la tv lo tenta: ecco la fuga da casa, l’arrivo in una grande città europea, la partecipazione a uno show di fenomeni, la popolarità, il contratto che un press agent gli fa firmare per una serie infinita di esibizioni. Alla fine Oscar non ci sta a fare il fenomeno da baraccone, sia pure nel dorato mondo dello showbiz. Si àncora a una carrozzella che gli permette di ottenere l’assegno di invalidità e lavora come portiere in un albergo a ore. Capita che incontri per caso, proprio lì, Agata. E quel sogno carezzato da bambino, quell’innamoramento ingenuo alla fine diventa amore. In una scena clou della pellicola, è lei la sua zavorra, portata per gioco di corsa sulle spalle nelle stradine del paese d’origine.

Bonfanti ha il merito di aver evitato hollywoodiani effetti speciali, frenando l’uso della tecnologia ripresa dal kolossal Usa “Gravity”. Ed è riuscito a tenere il racconto filmico su quel registro di medietà coerente con il piccolo mondo in cui si muove l’Oscar degli affetti familiari e della gioventù. Nemmeno il bagno nell’universo del posticcio televisivo deborda volgarità, come fosse filtrato dagli occhi puri di Oscar. E perfino il press agent è un tipo da gatto e la volpe, senza troppa malignità. Traballa invece la sceneggiatura quando vira sull’incontro di Oscar e Agata diventati adulti: casuale ma poco credibile la circostanza. Però tutto riscattano gli interpreti: Elio Germano ha titubanze ed entusiasmi giusti per il suo Oscar; Elena Cotta dosa preoccupazione e realismo di fronte alla stranezza del nipote; Silvia D’Amico e Vincent Scarito ben reggono il ruolo di Agata e del manager. Palpita e sussurra il volto di Michela Cescon, la mamma che traversa tutte le età della vita proteggendo quel suo straordinario figlio condannato alla solitudine che fa anche di lei una scartata dalla vita.

Emarginata e scartata diventerà anche la protagonista di La prima donna, allusivo titolo al ruolo che ebbe Emma Carelli, mitica cantante lirica degli anni Venti. Primadonna appunto nei ruoli di Tosca o di Santuzza. Ma anche la prima e unica donna manager del Teatro dell’Opera di Roma (dove la pellicola è stata proiettata), quando ancora si chiamava Costanzi. La pellicola nasce da un’idea di Carlo Fuortes, il sovrintendente che ha il merito di aver fatto uscire l’ente lirico capitolino dai ricorrenti deficit di bilancio. Il quale non appena preso per mano il palcoscenico di piazza Beniamino Gigli rimase colpito dalla figura della Carelli, impresario e direttrice del Costanzi dal 1912 al 1926. Con polso fermo di fronte a maestranze, direttori d’orchestra e compositori presuntuosi come Mascagni, e insieme con curiosità intellettuale che la condusse a portare a Roma i balletti russi di Diagilev-Stravinskij, gli spettacoli del Futurismo, l’Elettra di Strauss. E che riuscì a tenere aperto il teatro anche negli anni più tragici della Grande Guerra, come invece non fece La Scala. Tony Saccucci – autore del film prodotto dall’Istituto Luce-Cinecittà nel quale Licia Maglietta interpreta con generosa irruenza Emma Carelli – costruisce la pellicola da storico oltre che da filmaker premiato a Taormina qual è: alternando rari filmati d’epoca – nell’arco che va dagli ultimi vent’anni dell’Ottocento al 1928, quando la Carelli morì guidando la sua spettacolare vettura – alla presenza live di Licia Maglietta, che racconta il legame con lo spregiudicato marito imprenditore teatrale Walter Mocchi, la trionfale tournée in Sud America, l’approdo al Costanzi, prima esaltata dal pubblico, poi messa da parte dal Fascismo, sintetizzato da un lapidario Mussolini che acquisì per il Governatorato il Costanzi e lo ristrutturò: «Nel nostro Stato essa non deve contare».

Increspano il documentario le tensioni operaie di fine Ottocento, la Rivoluzione d’Ottobre, le marce delle suffragette, quella fascista su Roma, il delitto Matteotti, la dittatura dell’uomo di Predappio divertito a farsi filmare mentre gioca in gabbia con un leoncino…Una filigrana che anticipa il clima del siluramento della Carelli, infilata innocente nelle vicende poco trasparenti del marito e oggetto di calunniose lettere anonime. Infine rispedita nell’anonimato, come volevano con le donnei totalitarismi posbellici. «Il 1928 – quando la Carelli morì – è l’anno in cui si registra il maggior numero di suicidi al femminile della storia d’Italia», recita una sovrimpressione di La prima donna.

Tornando alla Festa e ai suoi fil rouge, Monda ha destinato il Premio alla Carriera a Bill Murray e a Viola Davis: lui uno dei volti più anticonvenzionali del cinema Usa, interprete di personaggi sgangherati, ai margini. Lei nera, attivista per i diritti civili e per quelli delle donne. E passando dalla realtà al fantasy, come non sottolineare un altro evento della Festa, l’anteprima del sontuoso Maleficent – Signora del Male che è stato presentato a Roma dalle protagoniste Angelina Jolie e Michelle Pfeiffer e che da domani sarà nelle sale. Un’opera con una morale ben precisa: la denuncia dell’apartheid di un popolo considerato diverso, quello sotterraneo delle streghe come Malefica, in realtà madre amorevole e negata della anticonformista principessa Aurora.

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