Raffaella Resch
In mostra a Forte dei Marmi, a Villa Bertelli

Leone Piccioni, l’umanesimo nel ‘900

La collezione del critico con numerose importanti opere trasmette lo spirito con cui è stata nel tempo costituita: «l’amore per il bello e per la cultura, l’impulso per la condivisione delle arti e della conoscenza, le affinità elettive che legano il critico ai pittori, poeti, intellettuali suoi amici»

La figura del collezionista è sempre stata determinante nella storia dell’arte e nella formazione dei musei, sia per il lavoro di raccolta e individuazione di oggetti e opere che provenivano dalle migliori scuole di artigiani, dai più valenti artisti, sia per aver indirizzato, anticipato, in qualche modo costruito il gusto delle generazioni che ne accoglievano il lascito. I musei europei sono per lo più frutto di tali donazioni, a partire dalla seconda metà del ‘600. A predilezioni talvolta raccapriccianti, come la raccolta di feti dello Zar Pietro il Grande, che egli sistemò in un grande edificio di San Pietroburgo nei primi decenni del 1700, e che pure facevano parte di una Wunderkammer naturalistica di grande importanza per la scienza futura, si alternano vere e proprie manie controcorrente, incomprese dal contesto contemporaneo in cui i collezionisti vivevano, come la passione per gli impressionisti e l’arte occidentale che sconvolge i russi Sergej Šukin e i fratelli Morosov, artefici a Mosca nei primi del ‘900 delle più importanti collezioni di arte europea poi confluite nei musei Puškin di Mosca e nel Museo di Stato di San Pietroburgo, e diventate oggetto di adorazione da parte del pubblico planetario. Il collezionista “ama” uno o più artisti, seguendoli fedelmente, implorando loro di produrre, oppure cerca nel passato, tra le spoglie della loro vita, a caccia di loro testimonianze. Chi colleziona arte, anche senza volerlo, si pone come il punto di passaggio tra l’artista e la posterità, il suo pubblico e i suoi critici, si trasforma in una specie di fato che consegna al futuro una capsula del tempo, con dentro un microcosmo che può ancora sbocciare, riprendere vita.

Leone Piccioni (Torino, 9 maggio 1925 – Roma, 15 maggio 2018), critico letterario, docente di Letteratura moderna e contemporanea, ma anche giornalista e dirigente RAI, ha raccolto un’ampia collezione di opere del ‘900, visibile per la prima volta per volontà della famiglia presso Villa Bertelli a Forte dei Marmi (Burri Morandi e altri amici. La passione per l’arte di Leone Piccioni, a cura di Piero Pananti e Gloria Piccioni, catalogo Maria Pacini Fazzi editore, fino al 15 gennaio 2020). Le opere che Piccioni seleziona appartengono ai massimi artisti del secolo scorso, tra il figurativo, il concettuale e l’astratto, con nomi come Ottone Rosai, Carlo Carrà, Lucio Fontana, Alberto Burri, ma anche l’informale Jean Fautrier, l’espressionista George Grosz, e con qualche sorpresa come Gregorio Sciltian (armeno trasferitosi a Roma negli anni 20) e l’inglese Graham Sutherland, poco noti nel nostro paese. Si tratta di una collezione eterogenea, che non è frutto di una predilezione verso un genere artistico particolare, quanto di una sensibilità estetica che travalica gli stili, di una profonda condivisione di amicizia e di milieu che il critico intrattiene con quasi tutti i suoi artisti, e che ci lasciano molto di più di una raccolta di tele, per quanto molto belle.

La mostra, grazie a una serie di preziosi filmati delle Teche Rai e a una serie di fotografie e documenti, mette in evidenza quanto Piccioni capisse e apprezzasse le opere di cui si circondava, anche perché facevano parte di una storia di vita che attraverso di lui ci viene tramandata. Una sorta di umanesimo caratterizza gli interessi di Piccioni, che si nutre di poesia e letteratura con l’insegnamento di Giuseppe Ungaretti, a cui poi dedicherà saggi e trasmissioni televisive e di cui curerà l’opera completa (Vita d’un uomo – Tutte le poesie, Meridiani Mondadori, ndr); ama l’arte figurativa, la scultura, il teatro, che sostanziano la sua visione e percezione estetica. Allo stesso modo si prefigge di divulgare l’arte e la cultura, diventando uno degli artefici del linguaggio televisivo degli anni 50 e presentando per la prima volta al grande pubblico la cultura con la “c” maiuscola, con interviste e approfondimenti, ma anche la nota trasmissione L’Approdo che nasce con lui, o con Tribuna politica che hanno contribuito a creare informazione e senso critico nell’Italia della ricostruzione dopo il secondo conflitto mondiale, ancora semianalfabeta e divisa tra mille dialetti regionali.

La collezione che Leone Piccioni ha raccolto lungo la sua vita non è solo costituita da numerose importanti opere, ma anche da qualcosa di più immateriale che pure traspare attraverso esse: l’amore per il bello e per la cultura, l’impulso per la condivisione delle arti e della conoscenza, le affinità elettive che legano il critico ai pittori, poeti o intellettuali suoi amici. Accanto a pitture di grandi dimensioni di artisti già citati, piuttosto che di Guttuso, Morlotti e altri, in mostra appaiono serie grafiche legate all’illustrazione di poesie, come quelle di Piero Dorazio per la raccolta di Ungaretti La Luce – Poesie 1914 – 1961, ma anche finissime serigrafie e acqueforti di Alberto Burri e Fontana, e poi opere a tecnica mista, quali quelle di Remo Bianco e Mario Ceroli, o le emulsioni su tela di Mario Schifano, rivelatrici di un gusto colto, raffinato. Compaiono anche molti nomi che al momento dell’acquisizione non erano ancora famosi, ed è indicativo vedere come il gusto libero da pregiudizi e interessi di mercato riesce a cogliere opere fresche e originali.

A testimonianza del rapporto che unisce il critico – o come veniva anche chiamato il Professor Piccioni – alla sua cerchia di amici intellettuali, artisti, scrittori, basta sfogliare il libro che gli fu dedicato per i suoi 90 anni, pubblicato nel 2015 da Pananti (Maestro e amico, ed. Panantine); si noterà che i testi a lui dedicati sono di Alberto Arbasino, Raffaele La Capria, Claudio Magris, Roberto Mussapi, Marta Morazzoni, Margaret Mazzantini, Gianfranco Ravasi, Sergio Zavoli, per citarne solo alcuni. Oltre a esporre opere notevoli, la mostra ci mette in contatto con queste vite e questi ambienti, attraverso gli occhi e il gusto estetico di Leone Piccioni che riesce a rendere conto di un’epoca. Forse l’obiettivo più ambizioso che ogni esposizione e ogni collezionista dovrebbe porsi.

Nelle immagini: in apertura Renato Guttuso, “A Majakoskij”, 1963; a seguire: Alberto Burri, “Serigrafia 1973-1976”; Gregorio Sciltian, “Natura morta”, 1925; Mino Maccari, “De Chirico a spasso col cavallino”, anni 60; Giorgio Morandi, “Grande natura morta con la lampada a destra“, 1928  – foto © Alessandro Vasari

 

Facebooktwitterlinkedin