Raoul Precht
Periscopio (globale)

Il mare di Melville

Prima parte di un ampio ritratto critico di Herman Melville (a duecento anni dalla morte). La parabola di uno scrittore sfortunato che sapeva di abitare un mondo inospitale ma voleva mettere in luce il lato oscuro degli uomini

Per i cultori della letteratura il mese di agosto del 2019 non può che essere dedicato a uno scrittore immenso, Herman Melville, di cui ricorre il bicentenario della nascita. Nato a New York il 1° agosto del 1819 in una famiglia che faceva parte della borghesia agiata, con antenati scozzesi e olandesi, Melville sembrerebbe sin da subito baciato dalla fortuna. Nel 1830, tuttavia, a seguito della bancarotta del padre, che due anni dopo darà segni di squilibrio mentale e morrà, la famiglia si stabilisce prima ad Albany, poi a Lansingdon, un villaggio sull’Hudson, dove, lasciata la scuola, Herman lavorerà come commesso e maestro elementare. Quella che si prospettava come una vita facile si è insomma complicata improvvisamente, e comincia a prendere corpo nell’animo del giovane Herman il desiderio di fuggire il più lontano possibile, fino a quando, nel 1839, riuscirà a recarsi a New York per imbarcarsi su un mercantile diretto a Liverpool. La vita di mare e l’Europa di cui tanto si fantasticava in famiglia saranno due fortissime delusioni, così come fallirà in seguito il tentativo di far fortuna nel leggendario Far West, tanto da indurlo a tornare in mare nel 1841 per un viaggio nel Pacifico della durata di quattro anni. Dopo un’esperienza di vita con una tribù indigena sospettata di cannibalismo e l’imbarco su una baleniera australiana che finisce con un ammutinamento generale, Melville è arrestato a Tahiti dal console inglese, evade di prigione e s’imbarca in tutta fretta su un’altra baleniera, chiudendo la carriera di marinaio nel 1843 alle Hawaii e tornando l’anno successivo negli Stati Uniti, dove scriverà un primo romanzo, Typee.

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La storia della vita di Melville è quindi una storia di costante, pervicace insuccesso. Che il lettore di oggi non si faccia illusioni. Anche le opere che ebbero una relativa fortuna, ovvero i primi romanzi Typee (1845) e Omoo (1847), furono oggetto di feroci polemiche; tutti pensavano che Melville avesse inventato di sana pianta le vicende narrate, almeno fino a quando non sorgerà dal nulla un tale Richard Tobias Greene, pittore di insegne commerciali a Buffalo, il quale rivela di essere il Toby delle due opere di Melville e conferma tutte le avventure narrate nei due libri. L’imprevista agnizione dovrebbe portare fortuna allo scrittore, rinsaldarne la reputazione. E invece…

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In White Jacket (1849), uno dei romanzi successivi, leggiamo una frase che, pensando ai successivi Moby Dick e Billy Budd, può suonare quasi profetica: “La nave è un pezzo di terraferma isolata dal resto; è uno stato a sé, e il capitano è il suo sovrano.” Sulla nave la gerarchia rigorosa e il potere repressivo sono necessari alla sopravvivenza dell’equipaggio anzitutto a causa dell’ambiente ostile del mare: il benessere collettivo diventa quindi il massimo bene al quale tutto il resto, compresa la felicità individuale, deve essere sacrificato. Occorre aggiungere che White Jacket sarà l’ennesimo insuccesso?

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Segue Pierre or the Ambiguities (1852), romanzo estremamente costruito e ragionato, con situazioni romantiche all’eccesso, ma anche con singolari e vigorose pitture d’ambiente, in particolare della New York della metà del XIX secolo, come rileva Alessandro Portelli in un saggio pubblicato nel volume collettivo Il romanzo (a cura di Franco Moretti, vol. 3). Qui il motivo predominante è quello dell’incesto, della sopraffazione psicologica e dell’affermazione di un desiderio del tutto incurante dei freni morali. L’attacco alla convenzionalità della società borghese americana è del tutto evidente, e il libro sarà oggetto di dispetto e derisione. Dopo tutti questi fallimenti come scrittore, raggiunta l’età di Cristo Melville è già un vecchio, afflitto dalla sciatica, con gli occhi malati, pieno di debiti, con una famiglia a carico e probabilmente non esente da impulsi omosessuali accuratamente repressi. In una parola, è un uomo solo.

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Verranno poi i cosiddetti “racconti della veranda” (The Piazza Tales), il più sviluppato e complesso dei quali è Benito Cereno, descrizione di una giornata trascorsa nel 1799 dal capitano Delano sulla nave San Dominique, su cui a seguito di un ammutinamento un gruppo di schiavi ha ucciso tutto l’equipaggio e preso in ostaggio il solo capitano, appunto Benito Cereno, affinché li riconduca in Africa. Tradotto da Cesare Pavese nel 1940, il racconto si rifà a un evento storico e alle memorie del vero capitano Delano, ma Melville ne fa una narrazione estremamente complessa e stratificata, in cui la rivolta degli schiavi rappresenta un banco di prova per la sensibilità di un’aristocrazia occidentale al tramonto.

In un racconto di Joyce Carol Oates trovo un’annotazione interessante su Melville, o meglio su un suo commento riguardo alle Galápagos, che chiamava anche le Enchanted Isles o Encantadas: «In no world but a fallen one could such lands exist», intendendo con questo probabilmente – glossa la Oates – che si trattava di un posto quasi affatto privo di vegetazione, abitato solo da rettili e tartarughe giganti, e dunque inospitale come pochi. Un luogo che può quindi trovarsi solo in un mondo, altrettanto inospitale, come il nostro. Credo che sintetizzi bene la visione che Melville aveva delle cose.

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Lascio da parte di proposito Moby Dick, di cui parlerò diffusamente nella prossima “puntata”, e mi volgo invece a un altro capolavoro, Bartleby lo scrivano, storia di un impiegato fantasma che protesta contro la società rifiutandosi di compiere il proprio dovere professionale. È stato detto che Bartleby è una figura senza salvezza, ma che forse non vuole nemmeno essere salvata; del resto, Bartleby non rifiuta mai nulla, semmai si limita a declinare un invito, benché – come sa bene chiunque sia subordinato a un superiore gerarchico – l’istruzione ricevuta in ambito lavorativo, per quanto espressa con cortesia, in realtà non sia un invito, ma un ordine. Eppure, Bartleby riesce a opporre al suo superiore una sovrana indifferenza e un’infinita rassegnazione. Nel suo idioletto il termine “prefer” va preso alla lettera: scrive a tale proposito Gianni Celati che il “pre” indica un’anteriorità rispetto alle «trame di intenzioni su cui gli uomini si accordano». Bartleby è anche un personaggio che si sottrae a qualunque connotazione: Melville non tenta nemmeno di descriverlo, se non attraverso l’elenco delle misere proprietà che l’avvocato trova nel suo cassetto. Il vero contrasto qui è fra l’eloquenza (dell’avvocato) e la laconicità del suo oppositore, che alla fine trionfa: rinunciando alla scrittura Bartleby sconvolge anche l’uso delle parole, che in uno studio legale è quanto di più prezioso vi sia. Ma non basta: Bartleby rappresenta anche una provocazione nei confronti dell’utilitarismo, in quanto incarna tutto ciò che a quest’ultimo ripugna: l’ozio, l’inerzia, la mancanza di uno scopo ecc. ecc.

A proposito della tessitura verbale, sempre Celati parla di un «andamento inerziale sempre dispersivo nella scrittura di Melville, una scrittura che sbanda e si apre in tutte le direzioni, come in un lancinante vacillamento davanti alla distanza, l’incatturabilità delle presenze nel mondo». E insiste, più avanti: «La potenza della scrittura non sta in questa o quella cosa da dire, bensì nel poco o niente da dire, in una condizione in cui si annulla il dovere di scrivere. Ogni dover scrivere e voler scrivere è la patetica vittima delle proprie aspettative. La potenza della scrittura sta nell’essere senza aspettative, nell’essere rassegnazione e rinuncia al dovere di scrivere, possibilità di rimanere sospesa soltanto come preferenza”».

Da parte sua, Lewis Mumford (nel famoso saggio Melville, del 1929) vedeva in Bartleby la proiezione del fallimento letterario dello scrittore, in rivolta contro il pragmatismo utilitaristico americano. Va segnalato che in seguito parte della critica riprenderà questo concetto, sviluppandolo ulteriormente e facendo di Bartleby, probabilmente al di là delle intenzioni di Melville, l’emblema della crisi dell’artista nell’industria culturale moderna.

Non dimentichiamo en passant anche che Melville era un appassionato lettore della Bibbia, e che Bartleby è in parte ricalcato sul Vangelo secondo Matteo. Interessante anche un’annotazione di Gilles Deleuze: «Vocazione schizofrenica: anche catatonico e anoressico, Bartleby non è il malato, bensì il medico di un’America malata, il Medicine Man, il nuovo Cristo, o il fratello di noi tutti» (Bartleby ou la formule, saggio del 1989). Varrebbe forse la pena di ripercorrere allora la tradizione del Medecine Man almeno fino a Henderson, the Rain King di Saul Bellow. Se Alessandro Portelli ha potuto leggere Underworld di Don De Lillo come romanzo melvilliano, con lo stadio di baseball al posto del mare, laddove, sia detto per inciso, la descrizione della folla ha davvero echi whitmanniani, mi chiedo quanto di Melville non ci sia anche in Saul Bellow. Tema da approfondire.

Vita e creazione artistica si fondono; nel suo Canone occidentale Harold Bloom rileva quanto il Nostro stravedesse per Cervantes e le sue creature: “…con autentico entusiasmo americano [Melville] definiva don Chisciotte il più saggio dei saggi che sia mai vissuto, felicemente ignorando il carattere fittizio dell’eroe.”

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The Confidence-Man: His Masquerade è l’ultima opera pubblicata da Melville (1857): su un traballante battello che percorre il Mississippi assistiamo alla caduta dell’uomo nell’inganno e nella perversione. Tanto per cambiare, per Melville è un periodo di salute malferma e di delusioni; all’amarezza per così dire privata per l’insuccesso in particolare di Pierre e Moby Dick, si aggiunge l’impressione che tutto il mondo, almeno il suo, sia lì lì per fallire, preda di un bieco affarismo. Il romanzo racconta le truffe di uno scaltro imbroglione, che carpisce la fiducia di sprovveduti viaggiatori; l’epopea del con-man è il trionfo dell’iniziativa personale tanto cara agli americani ed esente da qualunque regola, nel contesto del liberalismo economico, del laissez-faire che diventa anche modo di vivere e vedere le cose e nell’illusione tragicamente errata dell’autosufficienza di una intera società. Per Melville, evidentemente, l’umanità si è arresa prima ancora di lottare; nella figura del con-man è presente allegoricamente il Maligno, che l’allontana, ingannandola, dal suo Creatore – ma va detto anche che è un’umanità che si lascia fuorviare facilmente. Come il suo amico e (per un certo periodo) sodale Hawthorne, Melville si oppone alla faciloneria di chi si lascia raggirare, di chi in altri termini si rende complice della propria sconfitta, per sciattezza o debolezza di spirito. Il romanzo è una satira menippea in prosa, una “anatomia”, secondo la terminologia di Northrop Frye – come del resto il Satyricon, Gulliver, Candide e Gargantua –, all’insegna del libero gioco dell’immaginazione e di uno sfrenato umorismo. Ma è anche l’occasione per Melville di dire la sua su argomenti di tecnica letteraria: ecco allora che in tre capitoli, precisamente il 14, il 33 e il 44, lo scrittore discetta di questioni tecnico-narrative. Nel capitolo 14 se la prende con l’eccessiva coerenza della ricostruzione psicologica dei personaggi che non corrisponde sempre all’incoerenza delle persone reali, e si chiede: «…non è un fatto che nella vita reale un personaggio coerente è una rara avis?». E continua: «Benché vi sia un pregiudizio contro i personaggi incoerenti di un libro, tale pregiudizio influisce in senso opposto, se in seguito la presunta incoerenza, grazie all’abilità dello scrittore, si rivela per una giusta armonia. I grandi maestri eccellono più che altro in questo particolare. Provocano meraviglia di fronte all’intricato viluppo d’un personaggio, e poi suscitano ammirazione ancor più grande dipanandolo in modo soddisfacente…». Nel capitolo 33 sottolinea poi il primato della fantasia sul realismo, e nel 44 descrive quelli che per lui sono i personaggi davvero originali: «Per la stessa ragione che c’è un solo pianeta per orbita, così non può esserci che un solo personaggio originale in un’opera di inventiva. Due creerebbero un conflitto e determinerebbero il caos».

Nel rilevare i riferimenti in quest’opera a Milton e Shakespeare, Sergio Gerosa rileva: «…per la sua amara parabola Melville sceglie proprio quel mondo variopinto e tumultuoso, ancora libero e informe, del West, giungendo ad un caratteristico amalgama di commedia realistica e proiezione metafisica, colore locale e dibattito filosofico, satira spicciola e cupo senso di incombente tragedia». E aggiunge: «Se poi quelli del Fidèle possono far pensare ai pellegrini di Chaucer, in realtà la loro sembra piuttosto una medievale nave degli stolti, alla Sebastian Brant. Così ci si fa gioco, nel libro di Melville, dei melanconici settecenteschi e delle aspirazioni romantiche, degli utopisti e dei fautori entusiastici del progresso (…) al fine di denunciarne l’illusione ottimistica e la scarsa consapevolezza delle forze tentacolari del Male».

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Ma parliamo dell’ultimo libro pubblicato, non dell’ultimo libro scritto. C’è ancora Billy Budd, del 1891, risalente quindi a poco prima della morte, il cui manoscritto sarà ignorato fino all’edizione postuma di Raymond Weaver, il biografo di Melville, del 1924, edizione pubblicata tre anni dopo l’uscita della biografia e forse solo grazie alla riscoperta di Melville che la stessa aveva provocato negli ambienti culturali di lingua inglese. Ambientato alla fine del ‘700, Billy Budd è un racconto lineare, quasi privo di digressioni, ma con forti valenze allegoriche: trovatello, abbandonato in un cesto di seta a Bristol, Billy più che protagonista è l’elemento unificante del racconto, Adamo-Cristo da cui tutto si sprigiona per contrasto con l’idea della società urbana come inferno. Billy è innocente e in armonia con la natura, ignora il peccato; gli corrisponde inevitabilmente la depravazione del maestro d’armi Claggart, che trova insopportabile l’innocenza e la bellezza morale perché denunciano la sua propria alienazione. Fra l’altro, e parlando di allegorie, è ironico che Billy venga reclutato con la forza su una nave chiamata “I diritti dell’uomo”; un po’ meno che a odiarlo sia proprio Claggart, personaggio quasi shakespeariano tanto ricorda Iago, un ufficiale maniaco della disciplina che cerca di rendergli la vita impossibile e di indurlo ad ammutinarsi affinché venga punito; e ancor meno ironico, o se si vuole, allora, tragicamente ironico, che Billy finisca per uccidere Claggart con un pugno e sia effettivamente condannato a morte dall’umano ma impotente capitano Vere.

Il critico Francis Otto Matthiessen (Rinascimento americano, 1941), grazie al quale il Nostro sarà finalmente studiato a livello accademico, ricorda che Melville aveva attentamente letto Schopenhauer e assorbito l’idea che una delle verità del Cristianesimo sta nel riconoscimento della fondamentale corruzione della natura umana. Da parte sua, W. H. Auden mette in risalto la latente omosessualità di Claggart e la grottesca fratellanza (Caino-Abele) con Billy. Da sottolineare il fatto che Claggart muore colpito dal pugno di Billy che non può rispondergli verbalmente a causa della balbuzie – e qui l’analisi dell’impotenza verbale ed espressiva ci porterebbe lontano. L’altro personaggio tragico della triade è il capitano Vere, che se da un lato è costretto a trasformare Billy in un divino capro espiatorio, in un nuovo “uomo crocifisso”, vive poi una crisi che lo porterà a invocare il nome di Billy sul letto di morte.

Ma simboli e allegorie sono onnipresenti. Si pensi ancora al nome delle navi: Billy, scrive Claudio Gorlier, «viene trasferito dalla Diritti dell’uomo, che porta il nome del libro programmatico dell’ala radicale della rivoluzione americana, scritto da Thomas Paine, profeta disconosciuto e rifiutato a posteriori, alla Indomita, simbolo della restaurazione anti-rivoluzionaria capeggiata dall’Inghilterra. (…) Il capitano Vere, Grande Marinaio sopravvissuto e senza più gloria, statista moderato e antiegualitario (a somiglianza della sezione vincente della rivoluzione americana), costretto dalla coerenza della sua ideologia a far impiccare Billy, egli stesso eroe imperfetto e sopravvissuto di uno stato di natura che a Paine e a Rousseau si riallaccia, muore dopo un confronto estremo con L’Ateo, il vascello dal nome emblematicamente legato a uno degli aspetti per lui più aberranti della rivoluzione francese».

Appunta Eugenio Montale, autore nel 1942 della traduzione italiana, nella prefazione alla stessa: «…il periodo alto, il periodo eroico della letteratura americana è proprio quello (1845-1855) che, dopo i saggi emersoniani e il Walden di Thoreau, dopo le prime prove degli scrittori di Concord che trapiantano e ricreano nella Nuova Inghilterra le verità carlyliane e le scoperte della filosofia romantica tedesca, vede sorgere le figure di Poe, di Hawthorne e di Melville. (…) In lui [Melville] quel senso oscuro e condannato che il puritano Hawthorne moderò e contenne in una onorevole carriera letteraria non priva di compromessi, si solleva a soffi biblici, esplode talora con violenza manichea…». E in particolare sul canto del cigno prosegue: «Billy Budd rappresenta, in parole povere, un grande argomento in mano di un forte poeta che in esso riassume e incentra tutti i fantasmi, tutti gl’idoli e i segreti di un’intera vita. (…) In Billy Budd la vita che esprime con pari violenza il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, tenta, ma non riesce, di chiarire a se stessa il suo mistero». Non è certo un caso se Billy Budd ispirerà a Benjamin Britten un famoso melodramma, su libretto di E. M. Forster ed Eric Crozier, rappresentato per la prima volta il 1° dicembre 1951 al Covent Garden e da allora riproposto in tutti i maggiori teatri d’opera del mondo.

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Resta da dire, a provvisoria chiusura del discorso, che tra il 1857 e il 1891 di Melville usciranno solo alcune raccolte di versi, fra cui, nel 1876, il lungo poema Clarel, e che l’ultima di queste raccolte la pubblicherà a proprie spese.

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