Demetrio Marra
“Lingua/Parole” per giovani poeti /3

Coincidenza Emigrante

Partenze e corrispondenze. Per Demetrio Marra, un movimento dinamico che rivela presenze e legami e anche una direzione di sguardo. E il tema del viaggio connota specialmente chi è partito dal Meridione lasciando «notti profumate di arance»

Nato a Reggio Calabria nel 1995, Demetrio Marra è il terzo giovane poeta a cui è stato chiesto di definire una parola comune ai poeti della sua generazione e una parola che identifichi la sua poesia. Laureato in Lettere moderne a Pavia, con una tesi di filologia italiana dal titolo “Percorsi di intertestualità volgare nel Tasso lirico d’amore”, ha pubblicato nel luglio 2018 una silloge di poesie per il n. 90 di “Atelier”. Nell’antologia “Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90” a cura di Giulia Martini (Interno Poesia 2018), a cui questa rubrica è ispirata, è introdotto da Riccardo Donati. Scelgo questa poesia perché qui emerge quella discesa nel regno dei morti che il poeta fa nella sua città, la Reggio nell’estremo Nord di un mondo capovolto, indagata con piglio civile e amaro, con indignazione morale quasi pasoliniana. Ma qui la “commedia” è uno sprofondare per casuali coincidenze, tra connessioni in chat e altrettante disconnessioni. E l’incontro col fratello dell’io nell’Aldilà è quello con un altro sé, migrante, uno slalom in quella spessa cortina delle bottiglie vuote, immagine di un deformato, allucinato perdersi.

***

Dazn

Ieri nel sogno con Pepè in Skype call,

come se nell’inferno ci fosse un corso per down

di aggiornamento informatico, ecdl. Mi ha detto

strascicando la mascella che va

tutto bene, che aspetterà che Dio

gliela mandi buona. E io: guarda tu,

come sei sciupato, sei tutt’ossa: ha riso

come vivo lo sfottevamo papà e io

e tra i vetri delle bottiglie col tappo a macchinetta

gli si distorceva il muso.

 

Coincidenza
Dal momento in cui si sfoglia l’antologia, emerge la percezione di un’unità: un’unità – con cautela – ingiustificabile, o solo parzialmente. Se di generazione parliamo, come farlo se la differenza di formazione, di stile, di realizzazione si palesa atrocemente? È vero, ma non c’è atrocità – credo (un’atrocità di tipo “critico”) – senza dinamica, cioè senza movimento; ed è chiaro l’arco tra questo discorso e la prefazione di Giulia Martini, per avventura dedicata al mezzo di trasporto. In realtà, una lettura continua o saltuaria del volume dà l’impressione di coincidenza, oserei tranviaria: nel senso che il bagaglio è pesante, magari lo zaino svolazza per l’appiglio unico alla spalla destra (quella dolorante) e tra un treno e l’altro la coincidenza è breve, se non brevissima, pur cambiando binario. Qui il centro: una distanza fisica che connota un centro di relazioni, qualcosa come un’abitudinaria presenza, seppure eventuale. Parafrasando, la distanza (anche grafica) tra gli spazi di ogni autore è una distanza che lega, al pari di una inarcatura che materializza un legame laddove il legame era debole, se non addirittura “normale” e quindi neutrale. E il treno mi fa pensare a un incipit giornalistico di Caproni, in omaggio a Saba, i giorni seguenti della sua morte: «Ora che Saba è partito, senza nemmeno un cenno d’addio dal finestrino dal momento che non ci conosceva affatto, come siamo rimasti, noi, sotto la pensilina?». Ed è quando si effettua il passaggio dal non conoscersi affatto alla presenza reciproca che la rete sottesa all’antologia si mostra, come una prospettiva, una direzionalità di sguardo, non necessariamente aprioristica. Più come contromisura: e non sono extra-testuali ma legami emergenti dalle profondità. E allora partire dal meridione è lasciare notti profumate di arance; non solo il lavoro, persino l’università è ricominciare a cicli, o la ricerca; partire (ancora) è addensamento di luoghi, nell’assurda duplice temporalità che si mostra dal finestrino di un treno (un paesaggio che indifferente a suo tempo scorre, e le figure, gli astanti dei porti e delle stazioni che svaniscono) o di un aereo. Come dire, corrispondenze? Certo, come tra un trasporto e un altro, nelle gallerie sotterranee, a stupirsi dei legamenti tra città che si creano, non esistono “preferibilmente” prima.

Emigrante
«Gli altri migravano: per mari / celesti, supini, su navi solari / migravano nella eternità. / I siciliani emigravano invece. / […] figurati sul piede / dell’imbarco come per simbolo / della meridionale specie, / spatriavano, il passo di pece / avanzato a più nere sponde, / al tenebroso, oceanico / oltremare, al loro antico / avverso futuro di vivi» (Stefano D’Arrigo, Codice Siciliano, Pregreca). Mito dell’emigrante, l’orizzonte più a nord, oltre la linea gotica, o almeno oltre le mura della Capitale. Ottieri dice (L’irrealtà quotidiana): «Siano A e B due città. O vado nell’una o vado nell’altra». Il luogo α dove «arroccarsi e riacquistare una unità che assiste alla lacerazione come fosse la lacerazione di un altro» è una miserabile bugia, e β, il luogo dove si è, perché sempre si è in un luogo, esiste, transizione da A a B e viceversa, o anche coincidenza, con quella dissociazione corpo-mente sempre possibile, anche se «dove non c’è il corpo non c’è niente». Da qualche parte diceva «Milano del dover essere»; con correctio per la mia realtà: Pavia del “dover essere”, forse un giorno anche la Milano degli stranieri in città, ugualmente tutti, oppure Roma, o altrove, in Svizzera magari o su una zattera. La città del “sono stato” non è – non basta il cielo azzurro, tanto non basta la nebbia a evocarlo. Reggio evoca Pavia, Pavia evoca Reggio ma come passato, Pavia come ogni altra città del triangolo e della resistenza basta dove il Sud ora non è abbastanza, che si arrocca su α, che è spiaggia libera, il caldo, il mare, le rosticcerie e il gelato, oh cordialità – ma sono passatempi, bugie per me che non sono rimasto. L’emigrante, il suo luogo di sollievo è un luogo -non (un’utopia), una Freccia (ma solo da Salerno), un Trenotte (la pacata rassegnazione dei compagni di cella), un aereo, un pullman, un’auto che traversa la Penisola, una nave persino a solcare l’orrore di Scilla e Cariddi, la terra ballerina come braccia a cullare di una madre, piccole scosse continue, a memoriale di quando fu il giorno della Calabria.

(A cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi)

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