Raoul Precht
Periscopio (globale)

Sradicato Otero

Rileggendo Blas de Otero, poeta spagnolo della generazione del '36, morto quarant'anni fa: una testimonianza forte dell'inquietudine intellettuale in piena epoca franchista. La retorica come unico scudo contro la barbarie

Anche se quelle del 1898 e del 1927 sono le due generazioni poetiche più famose e celebrate, in Spagna, non mancano gli estimatori della generazione del ’36, i cui poeti si fanno cantori della cosiddetta “poesia sradicata”, secondo la fortunata definizione di Dámaso Alonso, inscindibilmente legata al malessere anche politico degli intellettuali in quella che comincia con la guerra civile e sarà poi l’interminabile era franchista. Fra questi ci soffermiamo, a quarant’anni dalla morte, avvenuta presso Madrid il 29 giugno del 1979, su Blas de Otero, poeta che dopo una prima fase influenzata da una profonda formazione religiosa, si è andato sempre più aprendo a una poesia di tipo sociale se non addirittura di stampo militante, e nel quale lo stesso Alonso ha individuato l’esponente più lucido nell’esprimere appunto “i dati essenziali dello sradicamento” con un “canto frenetico e a brandelli”, comparando la sua importanza con quella di García Lorca per la generazione precedente.

Il caso di Blas de Otero è interessante perché emblematico, molto più di quello di autori a lui coevi e di notevole spicco, fra cui andranno citati (restando ai soli poeti) almeno Leopoldo Panero, Luis Felipe Vivanco, Luis Rosales e l’amico fraterno dello stesso Otero, Gabriel Celaya. Emblematico soprattutto per la capacità, che svilupperà con il passare del tempo, di trasformare le proprie peripezie individuali in allegorie universali e di passare progressivamente, grazie a una crescente varietà di argomenti e toni, da versi ancora sostanzialmente lirici e incentrati sull’io del poeta ad altri, ben più complessi, in cui a prevalere è invece il “noi” di un cantore che si somma ai suoi lettori nella denuncia delle ingiustizie sociali, se non politiche. Questo lo induce a muovere verso un dettato poetico globale e inclusivo e a ripercorrere nel corso del tempo tutti gli stilemi e tutte le possibilità espressive della lingua spagnola.

Nato nel 1916 a Bilbao, di buona famiglia (con tanto d’istitutrice francese), la cui fortuna muta però rapidamente negli anni a venire soprattutto a causa della morte prematura del padre, profondamente tributario della cultura basca oltre che di quella spagnola, Otero comincia ad affermarsi – superata la breve fase della poesia religiosa – con due raccolte di versi, edite rispettivamente nel 1950 e nel 1951, Ángel fieramente humano (bel titolo tratto da un verso di Góngora) e Redoble de conciencia. Saranno riproposte poi parzialmente, ma con l’aggiunta di altri componimenti, nella raccolta Ancia, del 1958, il cui titolo riprende appunto la prima e l’ultima sillaba dei due precedenti, come a tracciare un primo bilancio di un’intera fase poetica. Qui l’accento è ancora posto appunto sul concetto di sradicamento tipico della generazione del ’36, sui dubbi esistenziali di un io per il quale l’esperienza del mondo e il pessimismo che ne deriva sono tratti innanzitutto individuali. Soprattutto nel primo dei tre libri i dialoghi con Dio, fra supplica e risentimento, fino all’approdo a un disincantato nichilismo, rappresentano inoltre un trait d’union con le primissime esperienze poetiche.

Almeno a partire dal 1955, con Pido la paz y la palabra, Blas de Otero si andrà tuttavia aprendo anche a una prospettiva diversa, in cui prenderà forma, non solo quale pubblico della poesia ma anche in quanto io narrante, la collettività, da un lato attraverso il concetto di fratellanza o “hermandad” che consente la condivisione del malessere, e dall’altro con la proiezione immaginaria verso un futuro più radioso, una salvezza che è tale solo se comune, e che faccia dimenticare o quanto meno mettere fra parentesi le tristezze di un presente che vede la Spagna sempre più isolata e umiliata. Se da questo momento la lotta politica, condotta in parte, come vedremo, dall’estero, diventa una delle cifre che rendono riconoscibile la poesia di Otero – nel 1951, dopo un viaggio a Parigi, si era intanto iscritto al Partito comunista, dopo aver militato fra i repubblicani durante la guerra civile -, in una fase successiva il poeta torna ad accenti più intimi, raccogliendo ora anche l’eredità modernista e surrealista e in qualche misura chiudendo il cerchio di un’esperienza poetica che pare sintetizzare tutto il Novecento spagnolo. Negli anni ’60 titoli come Con la inmensa mayoría e Hacia la inmensa mayoría, nell’opporsi al concetto opposto di minoranza immensa coniato da Juan Ramón Jiménez per definire i fruitori della sua poesia, consentono di confermare come a Blas de Otero interessi una comunione con l’intera popolazione, non solo con l’élite che deliba i versi dei poeti chiusa in uno studio, in un’aula universitaria o in una saletta per l’ennesima, asfittica presentazione. Uno dei suoi maggiori studiosi, Emilio Alarcos Llorach, segnala come a questo fine Otero metta il dito sulla piaga collettiva, quella di cui tutti soffrono. Per raggiungere ciascuno, la poesia, “viento de pueblo” nell’accezione di Miguel Hernández, deve allora contenere davvero tutto: essere a un tempo spirituale, sentimentale, carnale, mondana, colta – non mancano ricorsi intertestuali a Quevedo, Góngora, Unamuno e così via -, con un equilibrio (che a volte può sembrare forzato) fra moduli espressivi molto diversi o appartenenti a tradizioni diverse: ecco quindi che nell’arco del suo tragitto poetico Blas de Otero si avvale di forme classiche come il sonetto, una delle sue specialità, ma certo non esita di fronte al verso libero, alla ballata o al poema popolare, per non parlare di testi d’avanguardia in cui strizza l’occhio allo sperimentalismo, con una ricchezza lessicale che ha pochi paragoni nel panorama letterario spagnolo. Oltre all’enjambement, che è una delle sue peculiarità, va segnalato l’uso di praticamente tutte le figure retoriche (ripetizioni, anafore, iperbati, sineddochi, metafore, allegorie, metonimie, ossimori: questi ultimi tratti dalla sua consuetudine con la poesia mistica del Seicento) nonché, come ha ricordato un altro studioso, Pablo Jauralde Pou, di allitterazioni e onomatopee, tutti elementi volti a indicare ansia espressiva e l’urgenza di dire, senza dimenticare la presenza stabile di vocativi e imperativi che svolgono la funzione di avvicinare il poeta al lettore e di rafforzare la comunicazione.

Sebbene sia più una curiosità che un atto poetico intenzionale e foriero di sviluppi, Otero è anche autore della poesia più breve della letteratura spagnola, un distico dal titolo “Poética” che recita: “Escribo / hablando” (“Scrivo / parlando”) e che a noi ricorda inevitabilmente il “M’illumino / d’immenso” ungarettiano. Ma attenzione: in un testo teorico, “Poesía y palabra”, Otero avverte che se non si deve scrivere come si parla, non si deve neanche scrivere come non si parla; specialmente in poesia tutto, in altri termini, è preferibile alla vaghezza e alla falsità dell’espressione. Il singolare rapporto del poeta con le parole è ancor meglio espresso per esempio nella poesia “Escucho las palabras”, pubblicata nella raccolta postuma La Galerna (1979) e scritta in occasione del conferimento, nel 1977, del premio Nobel a Vicente Aleixandre, di cui riprendo qui la parte finale: “Por las noches, escucho las palabras abrir las puertas de la casa, / andar por la sala, / salir un momento a la terraza y respirar con libertad. / Es cuando escojo los vocablos / y los pronuncio parsimoniosamente / y, tomándolos de la mano, los coloco en su sitio.” (“Di notte, sento che le parole aprono le porte di casa, / vanno in salone / salgono un attimo in terrazza e respirano liberamente. / È allora che scelgo i vocaboli, / li pronuncio con parsimonia / e, prendendoli per mano, li metto al loro posto.”)

Gli anni Sessanta sono caratterizzati anche da lunghe permanenze all’estero, in Unione Sovietica, Cina e Cuba, dove si fa per lui importante il contatto diretto con i massimi poeti non solo dell’isola, ma ispanoamericani, fino al definitivo ritorno a Madrid nel 1968, anche a causa dell’avanzare del tumore con cui avrebbe convissuto negli ultimi dodici anni di vita. Non mancano, soprattutto nei libri più improntati al sociale, tonalità ed esagerazioni retoriche, anche se, come ha sottolineato il più giovane Jaime Gil de Biedma, “la buena retórica suntuosa me le hace simpático” (“la sua buona, sontuosa retorica me lo rende simpatico”), volendo intendere che in Otero persino la retorica non era mai disgiunta da un approfondimento contenutistico e da una cura formale che finivano per renderla digeribile.

In italiano di Blas de Otero non è disponibile più nulla da anni e sono di difficile reperimento i due volumi pubblicati da Guanda negli anni Sessanta; è quindi un poeta per il quale chi non sa lo spagnolo deve ricorrere a lingue terze per potersene fare almeno un’idea. Il che, in un paese come il nostro che traduce tanto, ma spesso non il meglio, è davvero un peccato. Cerco di colmare qui, per quel poco che posso, la lacuna, presentando a mo’ di risarcimento almeno qualche verso, una poesia di tre quartine intitolata En el principio e tratta dalla già citata raccolta Pido la paz y la palabra, centrale nell’opera di Blas de Otero: “Si he perdido la vida, el tiempo, todo / lo que tiré, como un anillo, al agua, / si he perdido la voz en la maleza, / me queda la palabra. // Si he sufrido la sed, el hambre, todo / lo que era mío y resultó ser nada, / si he segado las sombras en silencio, / me queda la palabra. // Si abrí los labios para ver el rostro / puro y terrible de mi patria, / si abrí los labios hasta desgarrármelos, / me queda la palabra.” (“Se ho perso la vita, il tempo, tutto / quel che ho gettato, come un anello, in acqua, / se ho perso la voce tra gli sterpi, / mi resta la parola. // Se ho sofferto la sete e la fame / e ciò che era mio risultò non esser nulla, / se ho falciato le ombre in silenzio, / mi resta la parola. // Se ho aperto le labbra per vedere il volto / puro e terribile della mia patria, / se ho aperto le labbra fino a strapparmele, / mi resta la parola”).

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