Alberto Fraccacreta
A colloquio con Roberto Mussapi

Nostra madre Luna

A 50 anni (oggi) dall’allunaggio, il poeta ha dedicato un libro a quell'evento e a tutto ciò che esso evoca e ha evocato. Il suo è un viaggio nella cultura del mondo da Leopardi a Kennedy, da Verne a Ciolkovskij, da Gagarin e Glenn a Shakespeare a Li Po. Senza trascurare Miles Davis, John Coltrane, i Pink Floyd e molte altre cose

Il 20 luglio di cinquant’anni fa – 22,17 ora italiana, per la precisione – l’uomo mise piede sulla Luna. Evento epocale quant’altri mai, si trattava non soltanto di una conquista “territoriale” connotata più o meno ideologicamente, ma del coronamento di un sogno ancestrale: una rêverie mitica e immaginativa che ha accompagnato le diverse tradizioni dall’aurora dei secoli. La Luna coincide, infatti, da sempre con l’emblema di qualcosa di sfuggente e indefinibile, è «un’emanazione della Terra, […] muove le maree e fa salire l’enorme massa d’acqua degli oceani», come sottolinea Roberto Mussapi nel suo ultimo libro, Il sogno della Luna (Ponte alle Grazie, pagine 130, euro 13), dedicato appunto a celebrare l’importante anniversario dell’allunaggio compiuto da Neil Armstrong e compagni a bordo dell’Apollo 11. Ma il racconto di Mussapi si smarca dai gangli del resoconto cronachistico per entrare nel vivo di una cultura davvero totale: da Leopardi a Kennedy, da Verne a Ciolkovskij, da Gagarin ad Andersen, da Pirandello a Li Po, ognuno di loro ha in qualche modo corteggiato la «graziosa». Vale a dire: dall’Highbrow dell’alta tradizione occidentale – non mancano ampi riferimenti a Plutarco, Edgar Allan Poe, Shelley – al middlebrow delle dichiarazioni stupefatte degli astronauti che viaggiano tra cielo e terra, anzi tra Luna e Terra: «Ora che stiamo avvicinandoci all’alba lunare, l’equipaggio dell’Apollo 8 vuole trasmettere un messaggio a tutta l’umanità, laggiù sulla Terra… All’inizio Dio creò il Cielo e la Terra…».

Il sogno della Luna è un’ardita rielaborazione di miti classici, di importanti stralci della letteratura mondiale, un crogiolo incandescente di riflessioni e mémoires su autori, uomini politici e navigatori spaziali che ha come fine perspicuo la traduzione nella sua accezione più alta: ossia il tradurre quale valico interstellare, il senso di passaggio da una mentalità all’altra, da una visione del mondo all’altra, per affermare la sostanziale unità del sogno umano: la Luna, in questo caso, supplicata da Leopardi, scrutata da Li Po, ma veramente toccata non da Astolfo, bensì da Armstrong, avveramento del poeta taoista, uscito «dalla cronaca e dalla storia lungo la via del grande Fiume Celeste, nell’Infinito».

Nelle prime pagine del libro lei scrive: «Questa era ed è la mia vita, o mia diletta Luna: graziosa e diletta, due aggettivi che definiscono limmagine della donna che appare a Cavalcanti, o al Dante delle Rime della Vita Nuova». Poco più avanti cè un riferimento a Leopardi e al fatto che la Luna fosse generalmente intesa come «una creatura femminile, divina, regnante silenziosa e solitaria nel cielo». Perché, secondo lei, prevale spesso questo carattere “femminile” della Luna?
«La Luna appare di notte, è un astro notturno, ha una luce meravigliosa, sicuramente è un essere luminoso e sicuramente nasconde, pur nel bagliore, un segreto. Il Sole è immediatamente, archetipicamente maschile perché splende, brucia, accende, dà la vita e la consuma. Non dimentichiamo che l’antico fabbro è un fonditore e che la fonditura è un’attività maschile. Il Sole è quindi percepito come forza virile. La Luna in realtà accompagna, custodisce la vita, non è associata a un potere distruttivo – come il Sole -, eppure l’uomo sospetta che, mentre il Sole sia elemento di vita, la Luna sia depositaria del segreto stesso della vita. I giorni del ciclo della Luna corrispondono, inoltre, a quelli del ciclo femminile. La Luna in forma di donna non è un’invenzione dei poeti, è semplicemente una verità dei poeti, perché essi non inventano nulla, ma scoprono ciò che è nella realtà, ciò che riescono a vedere prima degli altri. Mircea Eliade, con il quale avevo un rapporto di amicizia, mi ripeteva spesso un concetto espresso nei suoi diari e in un celebre libro intervista, La prova del Labirinto, che nella dimensione “diurna” faceva lo studioso e in quella “notturna” scriveva romanzi, racconti etc., cioè si abbandonava alla Luna. Shakespeare non si sognerebbe mai di anteporre la bellezza della Luna a quella di Giulietta, eppure la Luna è per lui una creatura superiore, divina. Nello stesso tempo i personaggi di Shakespeare – soprattutto nelle commedie – sono agiti dagli influssi, dai capricci, dagli scherzi dell’astro, che rivela ancora una volta una natura tipicamente femminile, un’influenza magica, senz’altro più affascinante».

Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia è «la più toccante e urgente poesia mai scritta allastro». Tra la prima e la terza parte del libro – la seconda è dedicata al famoso discorso di Kenney del 1962 in Texas («abbiamo deciso di andare sulla Luna») – lei fa del testo leopardiano unanalisi bonnefoiana, se così si può dire, un corps-à-corps tra il lettore e il pastore interrogante, il quale «sta chiedendo alla Luna se il suo pensiero non stia errando». Quanto è possibile errare nella poesia?
«L’uomo errante è il primo uomo, è un pastore che non sa ancora coltivare i campi. È quello di cui parlerà Ungaretti con I fiumi, quando chiamerà in causa il “beduino […] chinato a ricevere il sole”. Il pastore segue col suo povero armento le fonti d’acqua. In realtà, nella notte si accorge che la sua guida è la Luna. Per Leopardi, appena nato al mondo e già autore moderno, la Luna è la vera guida, la vera risposta. Dal punto di vista del poeta, però, l’esistenza stessa della Luna può esser un’illusione. In Shakespeare, di converso, tutto è illusione – “noi siamo fatti della stessa stoffa dei sogni”: ma questo prova in noi una natura superiore a quella fisica, l’illusione della vita è prova della sua dimensione non riducibile al fenomeno. L’ottica di Leopardi è opposta: il fatto che l’esistenza della Luna sia apparente, indica una probabile inesistenza del Tutto. Per me la Luna non è illusione o sogno, è una cosa che esiste. Una prova, l’ennesima, dell’esistenza del Tutto. Sono simile al suo pastore errante quando la guardò la prima volta, non quando ne fu deluso».

Uno dei maggiori modelli di questo libro è Plutarco, in particolare la sua opera Il volto della Luna. Traducendo un passaggio fondamentale dell’opuscolo dell’autore greco, lei chiosa: «Il discorso iniziato dalla Luna conduce, inesorabilmente, alla riflessione sullanima». Perché la Luna già anticamente era vista come un elemento utile a scandagliare la propria interiorità?
«Perché appare di notte nel tempo del riposo, nel prossimo reame del sogno. Perché è silenziosa. Lo splendore del sole non è muto: si può avvertire sentire il “rumore” del Sole quando sorge e persino quando tramonta. Il suono della Luna è quello di Miles Davis e, in Quit Nights o Nefertiti, quello dei Pink Floyd in certi momenti, certo non in The wall… Non dimentichiamoci che la notte è da un lato la dimensione dell’incubo, delle streghe. Ma esiste anche una notte dell’incanto. La Luna è la parte incantevole della notte. Credo che, in relazione a questo lato “grazioso”, in The Dark Side Of The Moon i Pink Floyd non vogliano indicare l’aspetto nero della Luna, ma il suo aspetto nascosto, misterioso».

Per rimanere nellambito del “volto della Luna”, lei narra anche della missione dell’Apollo 8, i cui membri dell’equipaggio (Anders, Borman e Lovell) furono i primi a scorgere the dark side of the moon. Mi ha colpito molto il paragone antinomico con Il dottor Faustus di Marlowe. «Più sali più ti senti umile, umile da humus, terra». Esattamente lopposto di Faustus…
«Questa è una mia intuizione, ricorrente nel corso del libro. Faustus – prima in Marlowe poi anche nella grande opera di Goethe – attua una folle salita al cielo per sfidare Dio. Vola nel cosmo trainato da draghi volanti e vede la Terra “più piccola della mano”. La sua impresa è un salire sempre più in alto per spregiare il globo terrestre. Gli astronauti, invece, salgono per ringraziare. Si spostano nel cielo come il monaco buddista o l’anacoreta cristiano ascendono alla sommità del monte. Mi sembrano umili cantori del creato…».

Uno dei più famosi «Sogni della Luna» è quello di Verne, Dalla Terra alla Luna. Come quello di Poe in Lincomparabile avventura di un certo Hans Pfall, il romanzo di Verne «non ha origine nel sogno di Leopardi e dei poeti e degli astronauti che verranno». Dove risiede la differenza?
«Volevo descrivere i sogni della Luna così come se avessi voluto parlare del teatro del mondo: accanto alle tragedie e alle commedie di Shakespeare, ci sono i testi briosi di Aristofane, di Plauto, c’è la tradizione farsesca… Così tra i sogni della Luna ce ne sono anche di diversi e buffi: sono intuizioni in forma per lo più caricaturale. Verne racconta il viaggio verso il nostro satellite con una posa di sostanziale irrisione. Poe con un paradosso della mente. Una simile rappresentazione del viaggio dimostra singolare capacità intuitiva, ma si vive il sogno della Luna come una prova d’ingegno che si applica alla realtà in maniera poco sensata».

A metà del libro è posta la frase di Ciolkovskij, «la morte è un fenomeno illusorio». Che significato ha per lei?
«È incredibile come questo strano scienziato sia uno dei padri delle imprese astronautiche e mantenga, però, la ferma idea che tale ricerca diretta agli astri dimostri l’eternità dell’esistenza, che la vita è immortale. In sostanza, Ciolkovskij dava una spiegazione metafisica all’universo in pieno regime sovietico…».

Che posto hanno nel suo immaginario figure come Gagarin e Glenn, ai quali dedica ben due capitoli?
«Sono due eroi anche nella mia mitologia di poeta, perché si lanciano verso l’infinito e cercano di portare sulla terra l’impeto dell’infinito. Gagarin – in modo più difficile perché affogato nella propaganda sovietica – e Glenn – favorito invece da un clima kennediano – incarnano, come altri loro colleghi, il sogno dell’uomo verso la Luna, e grazie a imprese solitarie le loro figure assumono un peso maggiore nell’immaginario e nell’immaginazione. Erano uomini molto buoni, e da ragazzi avevano cominciato entrambi come piloti d’aereo…».

Una lunga digressione riferita al grande poeta cinese Li Po, vissuto nel 700 d. C., chiude il libro. Nel suo Canto daddio alla Regina dei Cieli è possibile intravedere un nesso culturale con la figura di Maria?
«A 25 anni mi accostai ai grandi poeti cinesi grazie a Ezra Pound. La mia passione per il mondo mitico della Cina – nata con la personale mitologia del Milione di Marco Polo – mi ha portato in seguito a un’attenzione maggiore per quella letteratura: ho conosciuto Li Po, poeta straordinario, dotato di una lingua che si fondeva perfettamente alla sua liricità verticale. È il cantore del cielo notturno, del fluire della vita, un autore mistico. Poeta sistematicamente ubriaco, cercava nell’ebbrezza l’avvicinamento al cielo. Alternava a feste e sollazzi lunghe camminate in montagna dove se ne stava per ore a dormire e a meditare sotto gli alberi. È un poeta meraviglioso e nella lirica con cui si conclude il libro, in questa luminosa ascesa alla madre del cielo, si può trovare una presenza non direttamente mariana, ma indubbiamente un archetipo nel quale la visione mariana e le visioni di altri mistici convergono entro una simile idea di una madre nei cieli. Questa donna assomiglia più all’immagine beatricesca che a tante altre donne concrete di cui Li Po scrisse…».

Chi è, secondo lei, tra poeti e astronauti quello che ha dato una frase “definitiva” sulla Luna?
«Tutti hanno dato delle immagini poetiche straordinarie sulla Luna. Ma se si parla di una definizione secca credo che bisogna far riferimento a Leopardi…».

In un sondaggio della Gallup, nel 1999, è stato rilevato che il 6% dei cittadini americani aveva dubbi sullallunaggio. Cosa ne pensa del Moon Hoax, la teoria del complotto lunare?
«È una balla che dimostra la grande crisi morale e spirituale del nostro tempo. Nel momento in cui si verifica un evento positivo, bello, alto, bisogna cercare a ogni costo il complotto. Direi che questa è una forma, molto sottile, di nichilismo popolare. È lo scoopismo – inventato di sana pianta – anche sulla Luna».

foto di Roberto Mussapi: © Roberto Orlandi

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