Dante Maffia
“In campo lungo” di Sabino Caronia

Autodafé a Gerusalemme

Un viaggio in Israele per appropriarsi della propria intera esistenza. L’esito è un romanzo di formazione in cui il protagonista (lo stesso autore) è disposto a mettersi totalmente in gioco. Tra storia personale e storia universale, con l’abilità del letterato a tutto tondo capace di mescolarsi a temi e scrittori di cui ha «l’anima ingombra»

Nell’esistenza di ogni uomo esistono dei momenti, rarissimi, in cui la propria vita è posta su uno schermo dove transitano gli eventi del passato, del presente e del futuro. Non è soltanto Jorge Luis Borges ad affermarlo, ma la quotidianità che a un certo punto s’impenna, squarcia le tenebre e mostra la distesa del tempo nella sua circolarità. È il “campo lungo” di Sabino Caronia che con calcolata “sapienza del cuore” (è il titolo di un bellissimo libro di poesia di Luciano Luisi) registra il se stesso durante un viaggio a Israele per cercare di ritornare ad appropriarsi dell’arco intero della sua esistenza.

Lo fa in In campo lungo (Schena editore, 142 pagine, 15 euro), senza spogliarsi di nulla, anzi focalizzando con pienezza di particolari le tre fasi del percorso in cui ci conduce, cominciando a parcellizzare la sua condizione umana e intellettuale, rivivendo il dolore della perdita della madre e del padre e il patema del viaggio della figlia, del genero e dei due nipoti che si trasferiscono a Gerusalemme. La seconda fase è quella che fa fibrillare maggiormente la scrittura di Caronia che si espone con tutta la sua umanità e la sua fragilità di uomo alle intemperie di un mutamento religioso, vissuto per interposta persona, che lo vede tuttavia universalizzare la condizione fino a fare intendere che il viaggio a Gerusalemme deve essere compiuto da tutti, per redimersi, per approdare alla verità, per sciogliere i nodi intricati dei dubbi, per giunger comunque a un traguardo necessario per sapere finalmente chi siamo e dove andiamo. Infine l’ebbrezza del volo, lo staccarsi dalla terra per ritornarci con maggiore adesione, con la convinzione che l’augurio “L’anno prossimo a Gerusalemme” possa verificarsi nella più semplice solennità del vissuto.

Caronia è bravissimo nel saper impastare la storia personale con quella generale, nel saper dosare le situazioni intime e annetterle a quelle sociali. Da qui il tono del racconto che va oltre la caratura autobiografica e scende nella dimensione ardente di una confessione fatta a cuore aperto e con la coscienza di accordarsi a qualcosa che non voleva e non poteva abbandonare: la decisione della figlia. Insomma, un auto da fe’ in piena regola, e che a leggerlo bene mostra preminente il punto di vista della figlia, anche se appare sullo sfondo, come se non volesse disturbare, e che è invece l’idea portante del libro. Quel che meraviglia, molto positivamente, è la capacità di Sabino Caronia nel saper scomodare diecine e diecine di scrittori a sostegno delle sue tesi, soprattutto a sostegno del piacere di viaggiare alla ricerca di se stesso. Ciò mi fa pensare a Elias Canetti e a Louis-Ferdinand Céline, per gli intenti ideali e per la compattezza della tenuta narrativa, e per le atmosfere intense al Dino Buzzati de Il deserto dei Tartari, ma poi c’è un’infinità di affluenti che affiorano e s’incuneano nella scrittura, a cominciare da quella pagina (la 9) apertamente lampedusiana che sembra modellarsi con cadenze di consumato critico d’arte.

Non c’è dubbio che Caronia sia un letterato a tutto tondo e che ami riproporre gli archetipi di cui ha l’anima ingombra, ma bisogna sottolineare che non cade mai nel tranello della retorica e del calco, neppure quando affida alla figura di Kafka, «uno spirito solitario che vaga lungo la riva dell’assurdo», il ruolo del doppio, o quando suggella un patto quasi demoniaco col Fitzgerald de Gli ultimi fuochi o col D’Annunzio di Forse che sì forse che no.

Difficile stabilire a chiare tinte se questo sia un romanzo che ha voluto portare in primo piano l’amore curioso di un padre che ha paura di perdere l’affetto della figlia oppure se sia un romanzo di formazione. Già, non meravigli che il protagonista principale, l’io di Caronia (nella foto), sia adulto e che quindi il tempo della formazione dovrebbe essere passato da parecchio. Qui si tratta di formazione che tende a sostituire dei valori con altri, a mettere in gioco una fede per entrare in un’altra abbandonando i sentieri da sempre percorsi e nei quali è avvenuta l’estrinsecazione della propria anima. Intanto il passo verso Gerusalemme è avvenuto, il “viaggio sentimentale”, per citare non casualmente Sterne, è avvenuto e l’uscire ed entrare da se stessi è comunque valso a porre in primo piano il “richiamo della casa”.

Il libro però ha una complessità che è difficile condensare in una pagina; tocca diverse inquietudini dell’umanità del protagonista, si aggrappa alle adesioni dei tanti scrittori che egli ha vissuto, e ne dà un quadro che è, a un tempo, anche in questo caso, un campo lungo e una indicazione di massima ancora tutta da verificare nelle sue propaggini spirituali. È certo che siamo davanti a un testo che lascia inquieti e non dà via di scampo alla terrestrità dell’amore inteso come supporto perenne al proprio mondo mai però disgiunto da quello familiare.

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