Raoul Precht
Periscopio (globale)

Ascoltare Primo Levi

A cent'anni dalla nascita, ancora si impone, forte, il disagio di Primo Levi, mente lucida del Novecento non solo per quel che ha vissuto e raccontato, ma per come si sia posto l'obiettivo di vedere, parlare e farsi ascoltare

Nella letteratura italiana non sono mai mancati i suicidi: fra i più eclatanti del Novecento mi limito a citare quello del giovanissimo Michelstaedter – appena ventitreenne – nel 1910 a Gorizia, poi quelli di Pavese nel 1950 all’albergo Roma di Torino, di Morselli nel 1973 a Pavia, di Mastronardi nel 1979 a Vigevano, di Amelia Rosselli nel 1996 a Roma, e chissà quanti altri ne sto tralasciando. La domanda, evidentemente, non è tanto perché o con quali modalità (ognuno di questi casi essendo del tutto peculiare), la domanda vera è come interpretarli, quale significato attribuire a un atto talmente individuale da non poter essere sottoposto ad alcuna generalizzazione. Eppure, si ha come l’impressione che un filo rosso ci sia, rosso perché insanguinato, come lo è stato tutto il secolo.

Un suicidio nel quale il male di cui ha sofferto il secolo si ravvisa con estrema limpidezza è quello di Primo Levi, avvenuto nel 1987 nella sua casa torinese. Di Levi celebriamo oggi il centenario della nascita, ed è forse una buona occasione per cercare di capirne i motivi e le ossessioni, parlandone con il massimo di semplicità possibile, come Levi – scrittore razionalista e trasparente – avrebbe forse amato.

Quasi tutti conoscono Se questo è un uomo, moltissimi ne hanno almeno letto dei brani a scuola, trattandosi di uno dei libri sacri, dei più significativi del secondo Novecento; non tutti sono però al corrente delle enormi difficoltà che Levi ebbe, al suo ritorno da Auschwitz, per farlo accettare da un editore. Al punto che in realtà non gli riuscì del tutto: incassati nel 1947 i rifiuti di Mondadori, Comunità ed Einaudi – quello più problematico e doloroso, anche perché fu un’amica come Natalia Ginzburg a doverglielo comunicare – dovette risolversi a pubblicarlo con un piccolo editore, De Silva, grazie ai buoni auspici di Franco Antonicelli che di Levi era stato per un periodo insegnante al liceo. Delle duemilacinquecento copie stampate il libro ne venderà solo millecinquecento, in gran parte a Torino. Sarebbero dovuti passare undici anni, durante i quali Levi continuò ad apportare modifiche, anche importanti, al testo (aggiunta di interi capitoli, intensificazione delle allusioni all’Inferno dantesco, e così via), perché Einaudi si decidesse ad accoglierlo, e comunque solo nella collezione di saggistica. Il testo veniva infatti considerato un ibrido fra saggio e testimonianza, non una prova narrativa degna di figurare a fianco dei maggiori romanzi proposti dalla casa editrice. Oggi possiamo prendercela con la cecità del mondo editoriale, ma lo stesso discorso generico potrebbe applicarsi alla maggior parte dei libri e degli autori che hanno fatto veramente la storia del nostro Novecento: negletti e bistrattati all’inizio, scoperti o riscoperti solo tardi, a volte post mortem, da parte di un’industria editoriale disattenta e spesso incapace di valutare in base a criteri diversi da quello dell’immediato tornaconto economico.

Il caso di Levi è però anche particolare: le perplessità dell’editore nascevano non solo dall’eccesso di testimonianze sulla guerra e la prigionia che stavano invadendo il mercato, ma anche e soprattutto dal timore di rivangare il passato, di riaprire ferite ancora non ben rimarginate, di costringere il lettore italiano, anche quando aveva fatto parte delle vittime, a confrontarsi con una realtà dolorosissima che la società degli anni ‘50 stava gradualmente rimuovendo dalle coscienze. Inoltre, la doppia personalità di Levi – chimico oltre che scrittore – ha sempre impedito che gli venisse riconosciuto il secondo status, diversamente da quanto successe all’ingegnere Gadda, che come scrittore, e anzi grande scrittore, venne alla fine accolto, sia pure in ritardo e all’inizio solo da uno sparuto gruppo di giovani ammiratori. A queste due personalità, Se questo è un uomo ne aggiunse una terza, forse la più inquietante per i meccanismi editoriali, quella di testimone; e la testimonianza si tende a privarla, a torto o ragione, di ogni valore creativo, dev’essere spontanea, non costruita, come avviene invece per qualunque artefatto letterario. Ecco allora che il passaggio dalla prima alla seconda versione del libro – quella pubblicata finalmente da Einaudi nel 1958 – segna anche il trionfo della letteratura sulla mera memorialistica, trionfo di cui Levi era consapevole e che ha perseguito attivamente, ricordando anche in libri successivi, in particolare nel lucidissimo I sommersi e i salvati, la probabile fallacia di tutto ciò che è tanto testimonianza immediata, quanto memoria a distanza di anni, se non passa per il vaglio della forma letteraria. Sia lo sguardo ravvicinato, sia quello lontano, scrive Levi, possono risultare sfocati e difettosi, e uno dei compiti della letteratura, come dimostrerà con i libri successivi, è proprio quello di rimettere a fuoco le cose con rinnovata precisione. A condizione di essere un bravo narratore, e lui in questo era straordinario.

Dicevamo della difficoltà di far accettare il libro in un’Italia che cercava anzitutto, e disperatamente, di dimenticare. In un certo senso il romanzo successivo, La tregua, che Levi non pubblicherà che nel 1963, ne rappresenta la presa di coscienza. Nel raccontare le peripezie del suo avventuroso nostos, un interminabile periplo per quasi tutti i paesi dell’Europa centro-orientale, Levi si chiedeva fra l’altro se nel dopoguerra la vita di tutti fosse tornata normale, ossia umana; e cosa significasse questa normalità. Per quanto lo riguardava personalmente, come dirà poi a Philip Roth quando questi lo intervisterà nell’ottobre del 1986 – la confessione è riportata in Shop Talk (Chiacchiere di bottega) – la vita prima e dopo Auschwitz gli sembrava sempre più in bianco e nero, gli anni nel Lager tedesco, invece, in technicolor; a trionfare erano gli incubi, primo fra tutti quello basato sul timore di non essere ascoltato né creduto, in un mondo in cui le spinte revisionistiche e negazioniste si facevano sempre più forti. Del resto, in questo stesso mondo per Levi non si era ancora placata l’eco di quello che aveva chiamato il “silenzio di Dio”, che come ebreo non professante – l’ebraismo per lui era una faccenda d’identità culturale, non di fede – denunciava con convinzione. Sebbene con La tregua avesse vinto il Campiello – ma in Italia i premi, si sa, contano poco –, la missione era ben lungi dall’essere compiuta. Quel che premeva a Levi era essere presente, nelle fabbriche, nelle scuole, in tutti i luoghi dove lo si invitava a parlare della sua esperienza, dove la gente comune sembrava interessata ad ascoltarlo. Per tutta una serie di coincidenze fortunate – grazie al fatto cioè di conoscere un po’ di tedesco, di essere un chimico, d’incontrare persone che lo avrebbero aiutato, di resistere fisicamente e di ammalarsi poi di scarlattina al momento giusto, sfuggendo alla ritirata tedesca cui molti non sopravvivranno – non solo era sopravvissuto, ma era tra i pochi a poter davvero raccontare con lucida obiettività quanto avvenuto.

La gente comune, però, può essere un altro motivo di cruccio. Ne I sommersi e i salvati (1986), forse il suo capolavoro, in ogni caso un libro di prodigiosa lucidità scritto quarant’anni dopo Se questo è un uomo, Levi partirà dal presupposto che la divisione fra le due categorie indicate nel titolo, divisione evitabilissima nella vita quotidiana con le sue infinite sfumature, è invece propria del Lager; il nazismo è riuscito fra le altre cose anche a spezzare la naturale solidarietà tra le vittime, alcune delle quali si sono trasformate a loro volta in aguzzini. I suoi libri, come anche i resoconti del processo Eichmann a Gerusalemme a opera di Hannah Arendt – che conierà la formula, poi divenuta famosa, della “banalità del male” – o le ricostruzioni storiografiche più attente, come quelle di Raúl Hilberg, indicano come tanto le vittime, quanto gli assassini fossero per la gran parte persone comuni e come connivenze e comportamenti equivoci anche in seno ai Consigli ebraici in molte città europee, combinati con il nazionalismo ebraico e il sionismo, abbiano potuto aggravare la situazione degli ebrei. Da analizzare a fondo e con imparzialità restavano ancora, per Levi, certi meccanismi universali iscritti nell’ideologia collettiva, come il conformismo, la cieca obbedienza agli ordini, il carrierismo, il rapporto di ciascuno con il potere, la mentalità burocratica che trasforma in aguzzini persone che in circostanze diverse riterremmo del tutto normali e relativamente innocue.

Detto questo, nel libro la riflessione predomina sul racconto, e per la prima volta, più che rifarsi alla propria esperienza, Levi riferisce quella degli altri deportati; avendo acquisito così un minimo di distanza in più dai fatti narrati racconta gli accadimenti senza mai perdere di vista la differenza tra bene e male, ma tenendo conto al tempo stesso di tutte i possibili gradi intermedi fra l’uno e l’altro, mantenendosi in un arduo equilibrio. Difficile, come rileva Tzvetan Todorov nella prefazione all’edizione italiana, evitare di idealizzare le vittime e di demonizzare i carnefici, senza al contempo rischiare mai di confonderli, soprattutto in una società in cui, come Levi apprende sempre di più, la semplice memoria del male, che non sia assistita da un’acuta interpretazione di quanto avvenuto, non basta a prevenirne il ritorno. Soprattutto quando, oltre all’emergere dei movimenti neofascisti e neonazisti, mai debellati, si tratta di far fronte alla storiografia ufficiale dei vincitori, americani e russi in primis, per i quali la Shoah era un intralcio, una questione troppo complessa per poterla spiegare in termini semplici e propagandistici. Era molto più agevole, in altri termini, limitarsi a contrapporre la perfezione della democrazia al terrore dei regimi totalitari, ma se gli anni fra il 1939 e il 1945 hanno dimostrato qualcosa è stata proprio l’esistenza di una zona grigia, per analizzare la quale non ci si può accontentare di risposte schematiche. A ben vedere, è la grande sfida anche dei giorni che stiamo vivendo, e se Levi fosse ancora tra di noi sono certo che ne soffrirebbe in modo acuto e forse intollerabile.

La prosa di Levi è lineare, chiara, razionale, precisa, direi quasi illuministica: si basa su un linguaggio italiano medio, con qualche tecnicismo e, come hanno sottolineato nelle loro attente analisi Cesare Segre e  Pier Vincenzo Mengaldo, qualche concessione, qua e là, a un lessico colto, connotato per esempio da taluni passaggi ai limiti dell’aulico, dalla collocazione prenominale dell’aggettivo, dall’accordo del participio passato con l’oggetto; Levi disponeva inoltre di un’indubbia capacità comunicativa che metteva al servizio di un’innata brevitas. Fu proprio lui a coniare per se stesso l’immagine piacevolmente tecnica della «pompa-filtro che aspira acqua torbida e la espelle decantata, magari sterile».

Se negli altri libri Levi aveva scelto quali esergo alcune sue pregnanti poesie – pubblicherà, con Garzanti, anche un libro di versi dal titolo Ad ora incerta – ne I sommersi e i salvati opterà per una quartina dalla Ballata del vecchio marinaio di Coleridge che dice testualmente: «Da allora, ad ora incerta / quell’angoscia ritorna: / e finché la mia agghiacciante storia non è detta / il cuore mi brucia dentro». Quartina che forse esprime meglio di ogni altra sintesi il disagio di colui che deve parlare, non fosse che per rendere onore a chi, diversamente da lui, non si è salvato, ma al contempo sa di poter essere compreso solo in parte, a prezzo d’inevitabili fraintendimenti, rischiando di rimanere sommerso.

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