Pier Mario Fasanotti
Consigli per gli acquisti

Vivere di guerra

Andrea Molesini racconta la guerra di Resistenza a Venezia; Mauro Costa quella di sopravvivenza a Palermo e Jostein Gaarder quella contro «l'esattore finale”, ossia la malattia. Tre storie (dure) da leggere

Il capitano. Questa è la storia di Guido, un ragazzo che diventa uomo in anni di estrema difficoltà. Ed è anche la storia di un brandello di Resistenza – ambientata nella laguna veneziana – quando non ci si poteva fidare di nessuno, quando si scopre il tradimento di un amico, quando ci si affaccia nel favoloso mondo femminile. Guido, rimasto prematuramente orfano di madre, ha come punto di riferimento il padre, chiamato da tutti il Capitano. Guido capirà che «quando gira il vento gli uomini pensano storto e le donne vedono dritto».  Tra queste C’è la giovane e sinuosa etiope, c’è l’anziana (“Sussurro”) nelle vesti di saggia profetessa, c’è il primo amore dall’animo non così limpido come l’adolescente credeva e sperava.

In brutale sintesi questo è uno dei migliori romanzi (Dove un’ombra sconsolata mi cerca) recentemente editi dalla Sellerio (282 pagg., 15 Euro). L’autore è Andrea Molesini, già vincitore  del Premio Campiello, ampiamente tradotto all’estero. Una Laguna di insidie dove suona imperioso il precetto del Capitano: «Se non vuoi diventare lo zimbello del mondo devi vivere intero, essere uno. Niente di te esagera o escludi, devi sentirti completo in ogni cosa fatta, pensata e detta». Dalla madre Guido impara ad ascoltare voci e sensazioni apparentemente impercettibili, insomma il lato nascosto della vita.  Gli anni infidi e brutali della guerra generano equivoci. E fratture. Anche tra padre e figlio. Silenzi che durano e fanno male all’anima, a qualsiasi età.

Anima nera. Dopo più di vent’anni, torna a Palermo Elina, amica di prima infanzia di Angela che nel capoluogo fa la sbirra. Arriva da Milano, dove è stata adottata da una famiglia per bene che le ha consentito di laurearsi in Architettura. Un ricongiungimento insperato che dà il via alla ricerca di una verità dolorosa (“le verità puzzano”). Questo il nucleo di Quando mamma prendeva il tè, di Gian Mauro Costa, uno dei più struggenti e ben scritti racconti in circolazione (contenuto in Cinquanta in blu, raccolta Sellerio, 423 pagg., 15 Euro). Perché Elina ha abbandonato la terra natia? Perché sua madre è stata ammazzata. Era una delle donne che nella stanza di un appartamento “prendeva il tè” assieme ad altre donne: il tè era il pietoso eufemismo per prostituzione. La poliziotta Angela, complice anche un libro su fatti e misfatti della città dai volti sfuggenti, vuole scoprire ciò che accadde anni e anni prima. La madre di Elina s’era innamorata di un africano che la voleva portare nella sua terra promettendole di sposarla. Un sogno che appare per scomparire poco dopo. Lo sfruttatore, uno di quelli “che sbarrano la strada” a certe belle ragazze della Palermo della miseria, frantuma il progetto con il sangue.  Una donna è cosa che rende “piccioli”. Vien fuori il sempiterno ritratto di Palermo (e del Sud), slabbrato, dilaniato da feroci distinzioni tra onesti e mascalzoni, tra carezze e sangue, tra aspirazioni e rassegnazioni.

L’addio. Sono certamente in molti a ricordare il bellissimo e celeberrimo libro Il mondo di Sofia del norvegese Jostein Gaarder. La sua nuova prova (Semplicemente perfetto, Longanesi, 132 pagg., 14,90 Euro) è imparagonabile, a parte il buon tono della scrittura (e della traduzione: di Ingrid Basso). Unito da 27 anni di amore alla moglie, Albert riceve una notizia tremenda dal suo medico. Come reagire? Si rifugia, per meditare su se stesso e sulle parole da tramandare alla moglie Eirin (in Australia per lavoro) in un cottage da sempre chiamato “Casa delle fiabe”. Prende consapevolezza di certi vuoti di reciproca conoscenza. Ricorda la fiaba dei “Riccioli d’oro”, dove è presente una volpe (in inglese vixen), parola che indica anche una strega. Davanti a sé Albert ha un lago incastonato in un panorama mozzafiato: «Ma non ci trovo alcuna eternità alla quale aggrapparmi; non ci trovo nessuna dimensione riconciliante». Alla sua porta c’è l’Esattore «con la sua orrenda cambiale», l’uomo si pone domande, umane e scientifiche, ben sapendo di restituire un universo preso in prestito. Amaramente vere sono le sue parole: «Perché c’è sempre stato un velo funebre sopra ogni istante di vita? Il fatto è che in realtà non siamo mai stati: c’è soltanto il divenire, perché non c’è nulla al mondo che duri». L’ultima sua fonte di gioia è il ricordo della famiglia. Romanzo sapiente o soltanto ovvio?

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