Daniela Matronola
La prima parte di un racconto inedito

Amerigo

«Tu guardi nel quadrato dello schermo grigio tre uomini in scafandro saltellare per i buchi di una crosta glabra appesa al buio. I tre spaesati tra i crateri inerti sono Neil Armstrong, Edwin Buzz Aldrin, e Michael Collins in ferreo ordine di discesa»

That’s one small step for man,
one giant leap for mankind
[Questo piccolo passo per un sol uomo
è un salto gigantesco per l’umanità
]
NEIL ARMSTRONG (che mette piede sul
suolo lunare il 21 luglio 1969 alle 4h56 ora italiana)

Sisìna sta per Teresa, come nessuno l’ha chiamata mai: neppure sua madre, Liberina. Da ragazza, un po’ dopo la guerra, Sisìna se ne andava a passeggio sul Corso con: sua sorella Maria, ignara ancora del bel professore di Perugia; due amiche con gonne longuette a pieghe in vigogna grigia, e riccioli fitti scriminati da un lato e tenuti dall’altro col ferretto; una cugina appena adolescente o forse ancora bambina, ma ancora per poco, asmatica e spezzata di nostalgia per casa sua, e i genitori e i fratelli. E dire che era stata spedita lì apposta per ritemprarsi e respirare aria buona.

Per rimettersi.

Ricordi d’averla respirata anche tu, quell’aria, e di non averci annusato dentro nulla di buono. L’hai inalata da bambina, vent’anni dopo, temendo sempre il momento in cui saresti stata invasa dalle esalazioni sulfuree cui comunque non ti dannavi neppure poi tanto a sottrarti.

Quell’odore dopotutto era quel luogo quel tempo quella gente, ed era sano.

La ragazzina di poca salute era tua madre, per nulla grata, allora che dovette starci, che gli zii, Alberto e Liberina, e le cugine giovani, Sisìna e Maria (persino loro), si fossero subito prestati a tenersela in ostaggio in casa per un intero anno di scuola.

Una combutta vera e propria, le era sembrata.

Furono inoppugnabili ragioni di salute (sua), tutte oggettive e spietate per quanto fossero ragionevoli e medicamentose: in forza di quelle, suo padre, Germano, e sua madre, Maria (lei pure), avevano deciso, deciso!, che non le avrebbe fatto poi male (per litòte sempre parlava suo padre) quella sorta d’anno sabbatico e avevano potuto infliggerle a mente serena, cioè a fronte liscia e coscienza paga, quella specie d’esilio, e cambiarle il destino, spostarglielo topograficamente: smistarla a un’altra casa, a un’altra famiglia, e ad altri amici e compagni di scuola.

Come neppure la guerra era riuscita a fare.

Dirottarle la giovinezza come anni dopo le avrebbero dirottato la vita universitaria. Semplicemente convincendola che non le conveniva proprio iscriversi a Lingue all’Istituto Orientale e lasciando che cadesse letteralmente a casaccio in un paio d’altri contenitori della Sapienza. Scampata al caos di Napoli (una calunnia messa in circolazione da allora, e consolidatasi con la forza invincibile del luogo comune), sana e salva a Roma – ma deragliata definitivamente su tutt’altro binario. Che non era il suo. Semplicemente. Non era il suo.

Ricordi che per te Sisìna voleva dire vacanze, estate.

E voleva dire tutto questo a casa sua.

Anzi, ecco: ricordi Augusto, suo marito, una sera di luglio.

Tu guardi nel quadrato dello schermo grigio tre uomini in scafandro saltellare per i buchi di una crosta glabra appesa al buio. I tre spaesati tra i crateri inerti sono Neil Armstrong, Edwin Buzz Aldrin, e Michael Collins in ferreo ordine di discesa. Anzi a scendere e passeggiare sulla superficie petrosa furono i primi due, in quell’ordine: il terzo, Michael Collins, neppure uscì di cabina. Dice che li aiutò a vestirsi, a indossare le tute, a calzare il casco, e a attivare tutti i congegni idraulici per l’ossigeno, e tutte le diavolerie astronautiche che oggi fanno ridere. Poi si vestì anche lui, e accompagnò gli altri due al portello a tenuta stagna oltre il quale stava il tunnel ombelicale tra la nave madre, Columbia, il Saturn V a cinque stadi, e il Modulo Eagle. Collins li salutò come fosse, quella notte, l’ultima volta. Poi, richiuso il portello a tenuta stagna dietro le spalle degli altri due, Collins si dedicò alla propria parte nella missione: restare in orbita mentre il LEM ragnescamente si sarebbe adagiato sul suolo lunare – pare che nel momento di massima gioia abbia invocato via radio verso Terra, Ehi!: guardate che ci sono anch’io!; rimanere appeso al buio come Martin Landau in Spazio 1999 a sorvegliare dalla nave madre il modulo per l’escursione lunare, cioè Lunar Excursion Module, l’acronimo LEM, come persino tu imparasti a chiamarlo quasi fosse uno dei tuoi giocattoli, giusto allora che t’eri presa pure la fissa del modellismo e costruivi carlinghe d’aerei coi cilindri di cartone nei rotoli di carta igienica. Collins restò a bordo, restò a guardare, altrimenti l’Aquila kubrickianamente sarebbe finita nello spazio a volteggiare per conto suo e nessuno avrebbe saputo più come rimetterle il guinzaglio.

In due parole, Collins era finito sparato là fuori solo per fare da autista.

Invece di Edwin Buzz Aldrin si è saputo molto dopo che s’era fatto la prima e unica, ristoratrice, pisciata umana sulla Luna – direttamente dentro la tuta: una sorta di contributo organico alla conquista, di cui da allora va molto fiero.

Agli abitanti di là, se ce ne fossero stati (come minimo non si saranno mostrati e saranno rimasti, loro pure, a occhieggiare) sarebbero sembrati loro i marziani!

Combinati oltretutto in un modo: roba da perderci tutti i sentimenti.

L’aspetto decisamente più spaventoso della questione era che non gli si potevano vedere gli occhi. Come ci si può fidare di qualcuno che non si può guardare negli occhi e che pure ci sta guardando? Aldrin e Armstrong calzavano caschi mastodontici e le maschere dei visi erano bolle lucide che riflettevano il buio spaziale.

Senza occhi. Erano senza occhi. Uomini disumanati. Burattini.

Che gelo avrà inchiodato le loro mogli, i loro figli, a guardarli nei televisori, dalla Terra, dai loro stessi tinelli? Come saranno loro sembrati, affondati in quello sprofondo nero a saltellare come pupazzi a molla su quella buccia di grana ostile, dura come l’asfalto secco di certe strade metropolitane infestate di buche assassine di scooteristi?

Irriconoscibili – mostri, a guardarli così conciati.

Contemporaneamente in quella casa come in tutte le altre case tutti sono incollati all’allunaggio. E tu guardi gli zii: Alberto Augusto e Sisina – Liberina no, lei è di là sottochiave lasciata a smaniare in camera sua per i fatti suoi. E i tuoi genitori con loro

– che guardano.

Li guardi guardare. Per lo stesso traslato, rifletti ora, su cui Bernardo Bertolucci ha concepito di utilizzare le figure scolpite da Matthew Spender in un suo film: figure di un pubblico da casa, accomodato in giardino come potrebbe esserlo in un tinello o nella sala di un cinema o sulle gradinate di un anfiteatro.

Un pubblico intento a guardare.

Guardare, assistere da spettatori, agire – comportarsi da pubblico, per esercitare una percezione distratta, letteralmente slogata, dell’esistenza: l’unica rimasta, e la prima per la specie umana allo stadio evolutivo attuale dell’antropocène.

Quel film, rifletti, racconta di una vergine che vuole entrare nella Storia ed esserne a sua volta varcata, e del ritorno attraverso lei di tutti gli altri attori a uno stupore e a una purezza di cuore da varcare ancora come fosse, ogni nuova volta, la prima.

Come questa sensibilità labile che riparte sempre dall’esperienza di se stessa, per riconquistare la conoscenza di sé, per riapprendersi, ogni volta come fosse la prima, e puntualmente di nuovo tutte le volte.

Ricordi che Augusto ti stava mostrando un proiettore,

– È di Amerigo, questo,

e voleva insegnarti a usarlo. Lo puntava su una parete e quello ticchettava la pellicola sbrogliando sullo sfondo le imprese di Paperino alla velocità d’azione che lui dava al giro di manovella. Poi ti passa il proiettore e ti dice:

– Prova tu adesso.

Tu provi a guardare ma non trovi occhio da cui puntare il tuo.

– Ma no!,

protesta Augusto,

– …lo devi puntare contro la parete: così, forza!

Tu provi a guardarci attraverso di nuovo e intanto senti,

– Ha toccato! Ha toccato il suolo lunare!

Continui a non vedere che il rosso della plastica dura di cui è fatto questo aggeggio che non vuole saperne di obbedirti e senti,

– No, non ha toccato… ecco, in questo momento, ha toccato in questo momento!

Dallo schermo ti bersaglia un sottofondo estivo di rane in uno stagno impegnate in un coro assordante che a te, in una paurosa notte d’estate senza sonno, parve l’orribile arrampicata a forza di unghie d’un mostro alieno in avvicinamento lungo il muro esterno su su fino al terzo piano, fino al tuo balcone, alla tua stanza, e più la creatura scalava la parete giallastra (dotata si vede di qualcosa di irresistibilmente palustre) più tu al buio raccoglievi fiato e forze per emettere un grido lungo e disperato,

– Mammaaaa!,

come solo anni dopo, dissestata da un sinistro sciame d’assestamento, ti sarebbe riuscito: cosa pensavi d’ottenere quella nuova volta, di spaventare l’umore tellurico?

Stavolta è solo l’accanito parlottìo in cuffia tra scienziati e astronauti, una moquette senza buchi e con molte interferenze da cui è ridicolo tentare di estrarre senso.

Ruggero Orlando e Tito Stagno, frastornati pure loro – sicuramente emozionati, si stavano goffamente appiccicando sul touch down, uno nello studio RAI a Roma e l’altro in collegamento dal centro NASA di Houston.

In effetti ognuno dei due cronisti vide giusto salvo una manciata di secondi, lo scarto minimo nel ponte satellitare (quelli del mestiere lo chiamano delay time) che deve aver determinato l’insovrapponibilità di quello stesso istante scrutato da distanze incontemporanee appunto per sempre.

Come in una intercontinentale: tu ti precipiti a parlare ma la voce arranca a arrivare di là e si resta ad annaspare in paurosi vuoti siderali che spiazzano, te e l’altro dall’altra parte, che rimane definitivamente gelato quando gli parli via cellulare e la voce ti torna indietro, inesorabilmente, mentre la sua muore di là e lui aspetta che il treno imbocchi la prossima galleria e cada la linea come una liberazione. O come quando ti passa sopra la testa un F16, fai conto, o un M11 sparato oltre Mac2 – lanciato a oltrepassare il muro del suono che sta producendo.

Tuo zio Augusto, intanto, si è definitivamente lasciato andare a darti in testa, perché non riesce a farsi capace che tu possa volerti incaponire a chiedere a un proiettore, rudimentale oltretutto (un giocattolo dei tuoi cugini!), di comportarsi da videocamera.

Perché tu non vuoi vedere, tu vuoi guardare: tu vuoi guardarci attraverso.

Provvide poi Andrea Barbato a dare una spiegazione sensata a Ruggero Orlando e a pacificare Tito Stagno e Piero Forcella, perplessi in studio.

Ricordi che Andrea Barbato leggeva il telegiornale in bianco e nero sul programma nazionale RAI, e ti sembrava un americano per i suoi occhiali neri con la montatura grossa come quelli di tuo padre e il naso che deragliava da una parte, e ti era caro perché sembrava perpetuarti l’incanto, tutto di plastica, di certi telefilm americani che ti commuovevano fino alle lacrime, come i racconti eroici di Gli Uomini dell’ Elicottero, o gli episodi del Lucille Ball Show mandati in onda in lingua originale, di mattina, solo nei giorni della Fiera di Levante di Bari, applausi registrati compresi, e fu così che tu, a tre o quattro anni, ti ritrovasti a balbettare il tuo americano senza dire un bel niente, intenta a riprodurre a orecchio i suoni senza plasmarli in una sequenza sensata.

E poi ti conciliava, Andrea Barbato, col tuo dentista, Pietro, che portava gli stessi occhiali e aveva la stessa aria americana, e ti faceva ridere senza farti male, e poi un giorno, in modo del tutto indolore, inoculandoti la lidocaìna (comune anestesia tronculare a livello del nervo alveolare), ti spedì a esplorare il cosiddetto giardino del dormiveglia da cui udivi tua madre, e tutti gli altri a turno, chiamarti per riportarti in superficie, e dopo per settimane non facesti che goderti pizze al pomodoro croccanti, cotte dentro a tegamini di alluminio e buone anche la mattina dopo, e Canzonissime godute in poltrona sotto un plaid che veniva direttamente dalla Scozia, regalo di certe signorine, tutte sorelle, quando i tuoi si erano sposati, filato secondo lo schema cromatico o tartan del clan Gordon, in cui tua madre ti avvolgeva dopo cena dandoti un bacio sulla fronte da cui fiutavi, come un pulcino imbeccato, i profumi del cibo dalla sua bocca, con lo stesso gusto provato per il bacio che ti dava quando ti rimetteva a letto. E ti dedicasti con metodo a scorazzare in triciclo in camera dei tuoi genitori che era una piazza d’armi per ritarare il tuo senso dell’equilibrio facendo lo slalom su tre ruote attorno alle due poltroncine tornate appaiate dopo le separazioni del sabato sera televisivo patite tutto un autunno.

  • MENO TERGIVERSAZIONI: QUESTO AMERIGO?
  • PIANO E PER PIACERE: ADESSO CI ARRIVO!

Augusto e Sisìna hanno sempre trascorso il settembre al mare. Ogni anno passavano a salutarvi a casa, per rendervi la visita. A luglio voi, a settembre loro.

Voi, per sfuggire al caldo umido all’inizio dell’estate, salivate in montagna.

Loro scendevano al mare e al caldo allentato quando l’estate imboccava la sua coda più bella, e tornavano scurissimi come voi non sapevate diventare eccetto tuo padre.

Augusto, te lo ricordi benissimo, aveva una Taunus per la quale tu e Germano una volta litigaste. Era un modello Ford per il mercato europeo costruito in Germania. Ma tu lo sapevi, che la Ford è una casa automobilistica americana, fondata dal solito industriale gagliardo tipo Bogey nei panni di Larry Larrabee, presidente del consiglio d’amministrazione della compagnia Larrabee&Larrabee delle Industrie Larrabee con gli uffici nei piani alti del grattacielo Larrabee sulla Madison downtown Manhattan a NYC e quotazioni in borsa nel tempio di Wall Street: proprio quel Larry Larrabee che alla fine sposa la figlia dell’autista tornata da Parigi dove era stata deragliata per insignorilirsi e distrarsi dalle palpitazioni, completamente a vuoto, per il Larrabee bello e scapato con la scusa di un corso di haute cuisine sotto la guida paterna d’un anziano conte (una specie di Pigmalione e/o My Fair Lady al quadrato).

I ragazzini lo fanno sempre.

Se litigano su ciò che sanno o meglio si vantano di sapere, e nessuno la spunta, chi dei due bara fa sempre la mossa di invocare un adulto per garante. È come andare dal giudice, da grandi, se ci si separa. Si varca il tribunale civile neri ostinati e si resta sufficientemente spiazzati dai tentativi (strenui) del giudice di conciliare le parti – quando i due, infantilmente, si aspettavano, ciascuno, di ottenere ragione.

In quel caso, Germi chiamò a proprio garante suo padre, guidatore sportivo con un glorioso passato da motociclista e tutta una anamnesi di incidenti quasi mortali da cui si era evidentemente rialzato. Interrogato su questa disputa facile facile, se la Ford fosse europea o americana, lui se ne uscì addirittura che era inglese. E a te a quel punto fu tutto subito chiaro. Che questo era un vero incidente e che la fama di tuo zio, di adulto–rispondi–a–tutto, ne stava uscendo molto malandata. Per te aveva risposto a casaccio, senza pensarci su molto, perché doveva essersi detto che in fondo eravate solo due ragazzini rompipalle a cui si poteva dare in pasto una risposta qualunque.

Voi due non smetteste di litigare. Ma tu esitasti in cuor tuo solo per pochi secondi, mezza giornata fai conto. Più perché c’eri rimasta male che una verità tanto palese fosse stata contraffatta in modo così sfrontato, e a te era mancata la prontezza di inchiodare tuo zio, un adulto oltretutto, con la sua brava aura di sapienza inossidabile, all’evidenza di una risposta inaccurata data in fretta.

Ormai lo sapevi. Di avere ragione tu, e di aver imparato il principio di distinzione: la Taunus era un modello Ford destinato al mercato europeo, pertanto si costruiva in Germania, ma la casa–madre come tutti sanno è americana e l’ha fondata un tipo tenace di origine britannica (come l’80% degli americani bianchi anglosassoni e protestanti, detti WASP), anzi di famiglia originaria dell’Irlanda: Henry Ford, l’inventore dell’assembly line, la catena di montaggio, e della produzione seriale. A Germi non svelasti che aveva avuto negato per sempre e, guarda un po’, da suo padre (maldestramente – per pura distrazione) il semplice strumento di saper distinguere.

Ricordi che la Taunus di tuo zio Augusto era bianca e che lui la teneva sempre in ordine. Anche quando anni dopo fu vecchia non diventò mai un catorcio inguardabile per il rischio che si sbriciolasse con la sola applicazione dei vostri sguardi famelici, ammiratissimi peraltro per la tenuta appunto. E tu facevi il confronto tra la capacità tutta ingegneristica, di Augusto e Sisìna, di caricarla a dovere di figli e bagagli, e l’abilità altrettanto naturale dei tuoi di ridurre la vostra automobile un penoso carretto di profughi come capitava puntualmente quando per le vacanze partivate voi.

Del resto non ti pareva che loro quattro, Augusto Sisìna Amerigo e Pierluigi detto Pingi, fossero prede dell’avvilimento che in genere attanagliava voi quattro, Roberto Anna te e Antonella detta Titti, alle vostre partenze.

LORO erano SERENI.

Sembrava stessero partendo per una gita di poche ore, quando tu sapevi benissimo che quello era un vero e proprio trasferimento, come lo chiamava Roberto, tuo padre – un trasloco, per un intero mese, in un’altra casa, in un’altra città, una città di mare che è qualcos’altro ancora, neppure nella stessa provincia. Ma tutto risultava ordinato in modo preciso, e loro erano tranquilli, e, questo era il bello, non tradivano fretta.

Ricordi (eccoci) che Amerigo, di loro quattro, era il più imperturbabile. Il ritratto, invidiabile, dell’inattaccabilità. Di sicuro ti appariva, pure lui, un ragazzino molto americano. Il tratto più americano che gli attribuivi erano i denti.

Allora guardavi i denti a tutti, come ai cavalli.

I tuoi erano storti e non parevano disposti a raddrizzarsi. All’inizio c’era uno spazio tra i due incisivi (con diàstema, hai imparato che si dice) e il tuo dentista, Pietro, di cui non ti sei mai tolta la soddisfazione di valutare la dentatura, ghignando da sotto la mascherina verde come un asettico dentista americano, ti ferrò la bocca una prima volta. Tu avevi sette anni.

Gl’incisivi si richiusero però vennero avanti (vestibolarizzati: inequivocabilmente sporgenti). Bisognava ferrarti di nuovo, e sfoltire anche la folla, appunto, di molari che riducevano gli spazi e la libertà di manovra dei nuovi ferri lungo gli archi mandibolari. Bastò una semplice estrazione a escluderti in tempi utili da ogni possibilità di raddrizzamento. La lidocaìna dovette sforare in qualche neurocaverna profonda, e tu un pomeriggio d’ottobre che già si era fatto buio ti ritrovasti a cadere addormentata nel supermercato dietro a tua madre che ti stava comprando, per premio e per ragioni di agevole edibilità, certe vaschette di formaggio cremoso chiamate deluxe che ti piacevano da matti ma non si fanno più da anni. Avevi un gran sonno, e anche se ti sentivi chiamare pensavi che avresti risposto più tardi. Eri a un passo dalla coscienza ma te ne restavi gustosamente al di qua. Il bello era che se ti svegliavi cadevi sempre sul lato destro. E siccome Germi rideva, ridevi pure tu e ti pareva che le botte con la testa le desse qualcun altro perché non potevi dire che ti facessero davvero male. Ti pareva che la testa fosse avvolta in un turbante, delle pezze, dei panni. Poi verso Natale reimparasti a pedalare dritta su tre ruote nella stanza enorme dei tuoi dove coi cugini avevi sempre giocato a pallone e a rubabandiera. Però tua madre ormai era categoricamente avversa alla categoria dei dentisti, perciò tu fosti tagliata fuori per anni da ogni occasione di ortodonzia efficace. L’unico autorizzato a metterti i ferri in bocca era zio Gaetanino che aveva optato da anni per una politica di non intervento e imbottiva le caverne cariate di chiunque con una pasta bianca finché i denti marcivano e cadevano da soli. Lui preferiva tenerli, anche incancreniti così, fin quando non erano loro stessi, definitivamente sbriciolati, a togliersi di mezzo.

Fine Prima Parte

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