Nicola Fano
A proposito di "Sold out"

Orsini fuori scena

L'autobiografia di Umberto Orsini si legge come un romanzo: dalle difficoltà della provincia italiana degli anni Quaranta alle meraviglie della dolce vita. Insomma, in queste pagine c'è più vita (fuori dal comune) che teatro

L’autobiografia del grande attore è un genere classico; molto più di quanto si pensi. In fondo, la nascita della narrativa italiana – sia pure in lingua francese – si deve proprio a un libro del genere: i Mémoires di Carlo Goldoni, a fine Settecento, rappresentano uno dei primi esperimenti narrativi compiuti della storia. L’Ottocento, poi, ha consolidato il genere che lungo tutto il corso del secolo passato ha dato ottima prova di sé, tanto con le autobiografie di celebri comici (Petrolini, Viviani) quanto con quelle di grandi divi di fine secolo (da Vittorio Gassman a Carmelo Bene). È in questo contesto, dunque, che si inserisce anche Sold out, l’autobiografia di Umberto Orsini (Laterza, 196 pagine, 18 Euro) curata da Paolo Di Paolo.

Se i Mémoires (scritti da Goldoni per raggranellare qualche soldo nel lungo periodo di povertà parigina) alla prova dei fatti risultano abbastanza veritieri, non altrettanto può dirsi di tanti altri ricordi d’attori: gli attori sono vanitosi e la loro memoria è labile. Viviani, per dire, raccontò un solo insuccesso (avvenne a Milano, ma lo rese così clamoroso da trasformarlo in un episodio epico), mentre Nicola Maldacea, altro grandissimo comico morto in miseria nel 1945, si concentra solo sulla sua stagione d’oro, impedendo allo storico del teatro di cogliere il senso del rapporto conflittuale che la società aveva (all’inizio del Novecento e non solo) appunto con la comicità. Insomma: le autobiografie degli attori, lungi dall’avere un valore documentale e storico, finiscono per assomigliare a dei romanzi. Qualcosa di simile alle agiografie dei santi. Del resto, non si arriva in libreria con una sontuosa raccolta di memorie se non si è dei divi di grande popolarità. Lo stesso vale per Umberto Orsini, ovviamente.

Il nostro grande attore, infatti, ricama con maestria sull’aspetto romanzesco (pur senza mai cadere nel pettegolezzo) della sua vita: l’infanzia in provincia, l’incontro casuale con il teatro, l’esplosione di popolarità con la televisione e infine la maturità vissuta da “venerato maestro” anche grazie alla contiguità avuta con altri “venerati maestri” (Luchino Visconti, Romolo Valli, Rossella Falk, Luca Ronconi e tanti altri).

Chi conosce Orsini attore sa che, specie in questa sua più recente stagione, si staglia come uno dei nostri interpreti più sapienti: i suoi ottantacinque anni zeppi di esperienza di scena gli garantiscono una profondità che altri pur bravi attori non possono minimamente raggiungere. Eppure, in questa sua sommaria autobiografia di teatro in senso stretto ce n’è poco. Il racconto procede a saltelli, come in una confessione privata: la Novara della Seconda guerra e dell’immediata liberazione, poi la Roma della dolce vita, infine gli alberghi lussuosi di Londra, i ristoranti di Parigi e i locali di Los Angeles. Sold out risponde al criterio secondo il quale una vita è da raccontare solo se è eccezionale, ossia extra ordinaria. Mentre le parti migliori – a mio modo di vedere – sono proprio quelle nelle quali traspare la quotidianità quieta del mestiere d’attore: le prove, gli incidenti durante le repliche, i ritmi smorzati della vita da tournée. C’è poi una pagina che ogni teatrante dovrebbe imparare a memoria, ed è quella in cui Umberto Orsini (che giustamente vanta una fama di chi ha un ottima memoria) racconta come “digerisce” i testi che deve interpretare.

Si deve sapere, infatti, che gli attori si dividono in due grandi categorie: quelli che mandano subito e facilmente a memoria la parte da dire in scena (e dunque hanno più tempo ed energia, poi, per studiare l’interpretazione propriamente detta) e quelli che hanno una memoria ballerina e fino al debutto scordano una battuta o l’altra (e quindi raramente riescono a fissare la propria chiave di lettura emotiva delle parole e del personaggio). Naturalmente, Umberto Orsini fa parte di questa prima schiera e nel libro spiega dettagliatamente come fa a raggiungere il suo risultato: inizia da lontano, imparando tre righe al giorno ogni giorno per molto tempo prima dell’inizio delle prove e poi, una volta imparata, si ripete tutta la parte correndo con una matita in bocca. Un magnifico espediente per scandire le sillabe (e timbrare le finali, un vincolo tipico della lingua italiana e ostico a molti attori, oramai) e per dire le battute sotto sforzo con naturalezza. La differenza è che Orsini, come i grandi, oltre a saper recitare sa ascoltare gli altri personaggi invece di inseguire nella propria memoria ciò che deve dire. Il che è più raro di quanto si pensi. La gran parte degli attori italiani d’oggi sono di stampo ottocentesco: si limitano a curare la propria interpretazione sovente dando l’impressione di dire o fare qualcosa solo perché l’hanno imparato a memoria. L’attore novecentesco (Eduardo De Filippo fu il primo e Orsini è di questo tipo) mette la propria nevrosi in relazione con quella degli altri; ma come se succedesse lì, in quel momento, casualmente davanti al pubblico.

Insomma, Sold out si legge più come un romanzo che come un’autografia teatrale. Non so se sia un merito o no (io m’aspettavo più teatro, ma so che è un mio problema, una mia deformazione…), di sicuro ha pesato l’apporto di un ottimo narratore, Paolo Di Paolo, non propriamente interno al teatro. E, se questo libro forse lascerà un po’ scontenti gli appassionati della Compagnia dei Giovani, di certo Ronconi o di certe commedie di Arthur Miller (cui Orsini ha sovente prestato corpo, voce e passioni), di sicuro soddisferà in pieno i lettori che nei libri cercano storie che li portino lontano dalla propria realtà.

Facebooktwitterlinkedin