Matteo Pelliti
Lapis

Lombroso e Melville

Roberto Abbiati ha riassunto per immagini “Moby Dick” puntando a un viso, a un particolare: nessuna psicologia affiora dai volti che diventano uno specchio della loro relazione con l’esperienza del mondo

E se Lombroso avesse avuto ragione? Torna, oggi, la pericolosa tendenza a giudicare prototipi politici, culturali, sociali sulla base di una fisiognomica lombrosiana? A volte sì, ed è una specie di magrissima consolazione. (Detto a bassa voce, come parlando tra me e me).

Uno straordinario campionario di facce si trovano raffigurate nella traduzione per immagini che Roberto Abbiati ha realizzato illustrando il Moby Dick di Melville. (Moby Dick o la Balena. Romanzo a disegni, Keller, 2018). Non una psicologia affiorante dai volti, ma uno specchio della relazione di quei volti con l’esperienza del mondo (in quel caso specifico, la caccia alle balene e alla mitica Balena Bianca). I volti dei suoi ritratti sono tatuaggi, carte nautiche, cicatrici stampate su facce deformate, o meglio, formate, dall’esperienze che sono state vissute, viste, patite da quei volti. Il suo Achab somiglia a un Louis Stevenson, il profeta del capitolo XIX a Borges, e nel personaggio di Stubb affiorano i baffoni dello stesso Abbiati, come per autoritratto disciolto nell’opera. Di questo e altro ho conversato con lui, presentando il volume recentemente a Pistoia, presso la libreria illuminata Les Bouquinistes.

Abbiati ha disegnato per condensazione, riducendo per scommessa – vinta – a una tavola sola ogni capitolo, a un volto, una scena, un dettaglio, un’evocazione. La co-essenzialità di Achab e della Balena, confusi in un unico disegno, il mare in tempesta di nero inchiostro in una tazza rovesciata, le carte macchiate d’acqua, in una scala di neri, di grigi, che contengono tutti i colori possibili e immaginabili. Tra tutti i personaggi memorabili di Moby Dick, che è un libro-balena infinito, non consumabile, proprio come un osso di balena, voglio citarne uno minore, “The Carpenter”, il maestro d’ascia del capitolo CVII: «Siediti come un sultano tra le lune di Saturno e prendi l’uomo solo, molto in astratto: ti sembrerà un prodigio, una grandezza e un dolore. Ma dallo stesso pulpito prendi l’umanità in massa e, nella maggior parte, ti sembrerà un’accozzaglia di duplicati superflui, sia contemporanei che ereditari. Ma, per quanto umile e ben lontano dal fornire un esempio di alta estrazione umana, il maestro d’ascia del Pequod non era un duplicato, ragion per cui esce ora in persona sulla scena».

Roberto Abbiati lo disegna con arti smisurati, mani enormi, una posa dimessa, terrena, pesante, la concretezza di chi possiede un sapere pratico, un uomo serramanico dice Melville, un uomo che si affaccia sul mondo confortato solo dal suo “saper fare”, privo di intelligenza se non quella depositata nella sua, diremmo oggi, manualità: «Il cervello, se mai ne aveva avuto uno, doveva essergli colato nei primi tempi giù per i muscoli delle dita», ci dice Melville nella traduzione di Cesare Pavese. Una figura esemplare, in tempi, i nostri, di perdita drammatica dei saperi manuali. E pure di quelli intellettuali.

E se Lombroso avesse avuto ragione? La pericolosa tendenza a giudicare prototipi politici, culturali, sociali sulla base di una fisiognomica lombrosiana a volte…funziona. E allora come diamine abbiamo fatto, lombrosianamente, ad affidare il governo del Paese a quelle facce, accozzaglia di duplicati superflui!? (Detto a bassa voce, come parlando tra me e me).

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