Raoul Precht
Periscopio (globale)

La storia di Emmy

L'Orma editrice pubblica per la prima volta in italiano "Prigione", romanzo di culto di Emmy Hennings, attrice, poetessa, icona surrealista che fu tra i fondatori (e soprattutto tra le maggiori attrazioni) del mitico Cabaret Voltaire

Mi è capitato di segnalare più volte, negli ultimi tempi, i libri di una casa editrice relativamente giovane, che sta facendo un lavoro davvero lodevole essendosi specializzata nella traduzione di opere molto interessanti e spesso neglette della letteratura francese e tedesca, anche se poi non disdegna qualche incursione altrove, come dimostra la bella edizione del Quinto evangelio di Mario Pomilio. Grazie all’Orma, dunque, approda finalmente in libreria dopo un secolo esatto Prigione, il romanzo d’esordio di Emmy Hennings, che era uscito in Germania con grande successo nel 1919 e da noi non era mai stato tradotto. Particolarmente encomiabile, dunque, lo sforzo di Marco Federici Solari, che si è trovato a dover rendere in italiano un testo, come vedremo, tutt’altro che facile.

Ma cominciamo da Emmy. Nata nel 1885, in una famiglia molto semplice e povera, a Flensburg – come dire: non proprio al centro della vita culturale tedesca –, dotata di un temperamento a dir poco vivace, si sposa già a diciott’anni con un attore itinerante, Joseph Hennings, con cui farà un figlio che muore però quasi subito; lasciato il marito, entra a far parte di una compagnia teatrale che gira tutto lo Schleswig-Holstein e si mette con un altro attore, Wilhelm Vio, condividendone per un breve periodo la vita e i viaggi e dandogli una figlia, Annemarie, che sarà poi cresciuta dai nonni materni. Successivamente, comincia a lavorare nei cabaret e conosce il poeta e giornalista Ferdinand Hardekopf: con lui fa anche un viaggio in Francia, durante il quale Emmy si ammala però di una febbre tifoide. Separatasi anche da Hardekopf, soggiorna poi a Berlino, dove fra gli altri conosce Frank Wedekind, Johannes Becher ed Else Lasker-Schüler e si lega all’anarchico Erich Mühsam, e a Monaco, città in cui lavora al Café Simplizissimus, luogo di ritrovo della bohème dove canta le canzoni di cabaret allora in voga e dove incontra Hugo Ball. Nel 1913, grazie all’interesse dimostratole da Franz Werfel, pubblica con l’editore Wolff – nella stessa collana, “Der jüngste Tag”, dove usciranno anche i libri dello stesso Werfel e di Hardekopf, ma soprattutto di Kafka – un volume di poesie, Die letzte Freude (L’ultima gioia). Gli introiti sono naturalmente miseri, se non quasi inesistenti, e la vera protagonista di quegli anni resta la povertà, una povertà estrema, immedicabile; per poter sbarcare il lunario Emmy, peraltro già da anni morfinomane, sarà costretta a una serie di attività collaterali o del tutto estranee all’arte: sarà di volta in volta cameriera, venditrice ambulante, modella nonché, occasionalmente, anche prostituta.

L’episodio descritto nel libro, l’arresto e la detenzione, si situa appunto in questo periodo e in questo contesto. Detenuta con l’accusa di aver derubato un cliente dopo un rapporto – accusa che nel romanzo non viene mai troppo approfondita –, Emmy approfitta per così dire dell’esperienza per immagazzinare una serie di impressioni che registrerà su carta qualche anno dopo, ormai in autoesilio a Zurigo. Uscita di prigione, infatti, dopo un semestre a Berlino accetterà l’invito di Hugo Ball a seguirlo a Zurigo, dove arriverà grazie a documenti contraffatti e dove il 5 febbraio 1916 fonderà con lo stesso Ball, Tristan Tzara, Jean Arp, Sophie Taeuber e altri il famoso Cabaret Voltaire, punto di partenza e locale feticcio del dadaismo. Del Cabaret Voltaire, con le sue canzoni e la sua presenza non appariscente ma magnetica, con la recitazione sommessa e intensa nonché con il suo indubbio carisma, Emmy diventerà una delle attrazioni principali, riuscendo a rapportarsi con il pubblico e a intuirne gusti e preferenze molto di più e molto meglio dei suoi compagni d’avventura. Le poesie composte e recitate in quegli anni si riallacciano anche idealmente ai temi del suo primo romanzo, che sono poi i temi per eccellenza dell’espressionismo: la solitudine, la prigionia, la prostituzione, la tossicomania, la morte. Il matrimonio con Ball, nel 1920, coincide con la pubblicazione del romanzo Das Brandmal, confessione di una prostituta, e coincide anche con l’avvicinamento di entrambi al cattolicesimo, con il tramonto del dadaismo, considerato in seguito da Emmy quasi come un errore giovanile, e con una forte e duratura amicizia con Hermann Hesse. Ball morirà già nel 1927 ed Emmy si occuperà con grande impegno delle opere postume e della biografia del marito, pubblicando nei vent’anni successivi qualche altro libro che non avrà però la stessa eco di Prigione, e finendo per morire in povertà.

Il linguaggio di cui la Hennings si serve nel romanzo è semplice e disadorno, va all’essenziale; scarno quanto basta per ricordarci come in certe circostanze una sintassi appena più complessa sia un inutile orpello. La sua è una prosa fluida, trascinante, che accoglie il lettore e lo stimola a continuare nella lettura, promettendogli implicitamente l’individuazione e la scoperta di verità che la protagonista ha saputo estrarre dalle proprie vicende vivendole sulla propria pelle. Le prime pagine, in particolare, scoppiettano di vitalità e di leggerezza e sono redatte in un tono svagato con cui Emmy sembrerebbe volerci parlare di tutt’altro; il prosieguo è quindi tanto più spiazzante, in quanto il lettore è stato ingannato da una levità che si rivela profondissima. Come diceva Hofmannsthal in quegli stessi anni, la profondità va nascosta in superficie.

Prigione inizia con la descrizione di una scena che ricorda moltissimo l’incipit del Processo di Kafka, con un funzionario, anzi, due!, che si presentano in casa della protagonista-autrice per convocarla in questura. Ma in realtà è l’antefatto ironico a dare il tono al racconto: l’arresto, che all’inizio possiamo tutt’al più intuire, avverrà infatti a seguito di una letterina scritta dalla stessa Emmy alla polizia; in essa, pur a conoscenza dell’apertura di un procedimento a suo carico, e da tre mesi in attesa dell’udienza, ma avendo al tempo stesso in progetto uno spostamento per un ingaggio all’estero (manco a farlo apposta, l’irresistibile Parigi), Emmy chiede ingenuamente e con tutti i crismi alla polizia il permesso di assentarsi dalla città. Inutile dire che l’autorità pubblica reagisce immediatamente, con burocratica prontezza.

Nella parte centrale, uno dei perni del libro sarà il rapporto di Emmy con le compagne di prigionia, soprannominate in qualche caso a seconda del reato commesso: abbiamo così “Per maltrattamento di minori” o “Furto con scasso” usati come nomi propri. La detenuta contrassegnata con quest’ultimo nome, che avrebbe sottratto i proventi della vendita di scarti animali, si è ustionata volontariamente una gamba con dell’acqua bollente per procurarsi un’invalidità fittizia, che poi tanto fittizia non sarà e che anzi la farà tribolare forse più della stessa prigionia.

Quanto al reato contestato alla stessa Emmy, e al suo contesto, ovvero la prostituzione, la scrittrice non vi si sofferma mai troppo, ma neanche lo sminuisce; con logica implacabile chiama semmai a correo il suo querelante: se la prostituzione è un reato, non dovrebbe essere perseguito anche il cliente, colui che usa il corpo della donna? “Se è proibito farsi pagare un’ora d’amore dovrebbe essere proibito anche pagarla.” Ma per il tribunale, tutto maschile, è naturalmente più facile colpire l’elemento più debole.

Il romanzo è stato letto dalla critica coeva, abbastanza giustamente, come un atto di denuncia contro le condizioni della carcerazione in quegli anni, ma in realtà la sua portata è ben maggiore e induce a una riflessione generale sull’istituzione della reclusione da parte della società quale forma di protezione della società stessa. Di grande acume alcune osservazioni della Hennings sulla situazione dei detenuti, che sono ancora di estrema attualità e possono essere emblematiche di qualunque forma di reclusione: “Che organizzazione singolare! Chi l’ha escogitata? Questa cosa che i detenuti vengono portati gradualmente dalla luce al buio e al freddo non può essere frutto del caso. Mi viene in mente l’immagine di una gigantesca ghiacciaia. Una cella frigorifera per conservare gli alimenti. Forse che non si va a male, qui dentro?” Oppure, qualche pagina dopo: “E dunque ci si può davvero abituare? Abituare a essere incarcerati? Ma allora ci si può abituare a tutto, anche alle frustate, perché no?”

Una considerazione davvero precisa mi pare poi quella sul senso della profondità, che con il tempo il detenuto sembra perdere: “Ovunque mi volti vado a sbattere con lo sguardo. È tutto troppo vicino. Manca qualunque profondità. Dov’è la lontananza? Dove sono le superfici? Resto immobile… non riesco a respirare. Che cosa c’è? Adesso lo so, lo so e non potrò mai dimenticarlo: non c’è spazio, non c’è tempo, non c’è aria.”

Un altro episodio illuminante è la distribuzione dei libri, che in uno sforzo d’augusta condiscendenza la direzione del carcere mette a disposizione dei detenuti. C’è solo un piccolo problema: come ben rileva la Hennings, i libri non sono tutti uguali, non possono essere semplicemente pescati da un cesto come pagnotte. Quando la compagna di cella chiede I dolori del giovane Werther, pensando di poter scegliere, assistiamo a un momento di alta quanto involontaria comicità. Dal carcere i dolori, soprattutto quelli dei giovani, sono evidentemente banditi…

Il linguaggio, sebbene rapido (espressionistico, appunto) e a volte perfino travolgente, non dà però mai vita a immagini banali o frettolose: al contrario, le cinque sbarre di ferro alla finestra “rilucono incorruttibili”, lo spioncino è di una “perfezione spietata”; la ragazza interrogata “risponde con grande garbo, quasi fosse all’ufficio di collocamento”, un’altra cui devono prendere l’impronta digitale, “fa la preziosa, si tira su la manica; pare stia prendendo lezione di pianoforte e non capisce dove mettere le dita”.

La traduzione, pregevolissima, ha incontrato qualche difficoltà a mio avviso solo al momento di rendere lo slang del dialetto di Monaco parlato da alcune delle detenute. Il risultato in italiano non mi pare eccezionale, ma in questi casi è sempre difficile scegliere una strada alternativa. Al limite, si sarebbe potuto optare per un dialetto italiano (napoletano? siciliano?), ma con tutti i possibili inconvenienti che la scelta avrebbe in ogni caso comportato.

Dicevo delle somiglianze con il Processo: posso sbagliare, naturalmente, ma non mi risultano contatti concreti fra la Hennings e Kafka, così come non sembra che l’uno abbia letto l’altra; e ciò malgrado il fatto, già ricordato, che entrambi trovano, almeno all’inizio, un attento lettore comune nell’editore Kurt Wolff. La stesura del Processo inizia nel 1914, Kafka ne dona il manoscritto a Max Brod nel 1920, ma il romanzo sarà pubblicato postumo, anziché essere distrutto, solo nel 1925. In ogni caso, il libro della Hennings non viene mai menzionato da Kafka quale eventuale fonte d’ispirazione. In mancanza di elementi concreti, possiamo tutt’al più concludere per una generica adesione dei due scrittori a una air du temps che qui è resa in maniera graffiante e ironica e in Kafka con ben più terribili effetti percussivi.

La reclusione acquista (o può acquistare) un senso solo attraverso la solidarietà fra gli individui. L’immagine forte proposta qui dalla Hennings è quella del muro che forse divide, ma certo non separa; non separa i detenuti fra di loro, perché consente loro comunque e sempre di comunicare, ma non separa neanche chi è prigioniero da chi vive una vita normale da uomo libero, almeno fino a quando quest’ultimo dedicherà di tanto in tanto un pensiero o una riflessione ai fratelli più sfortunati. Dai quali peraltro, un giorno o l’altro, e per le ragioni più diverse, potrebbe dover essere accolto.

Di sé stessa nel libro Emmy Hennings dice che non capiva mai i “perché”, ma sempre e solo i “come”: può valere come summa di una vita intensa, spesa a interrogarsi sul funzionamento delle cose, anche e soprattutto di quelle – come la libertà – che diamo per scontate.

 

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