Francesco Improta
A dieci anni dalla scomparsa

Ritratto di Nico Orengo

Un libro e un convegno celebrano uno scrittore appartato e raffinato che ha sempre mantenuto forti le radici con la sua terra (l'estremo lembo del Ponente ligure), con i suoi fantasmi e i suoi sogni

Sono trascorsi 10 anni da quando la notizia della morte di Nico Orengo, prematura ma annunciata, date le sue precarie condizioni di salute e quella innata libertà che lo portava a rifiutare qualsiasi restrizione o imposizione terapeutica, mi raggiunse a Roma, la mattina del 30 maggio, sotto un cielo umido e plumbeo che minacciava lacrime di pioggia. E finalmente il mondo accademico ed istituzionale, dopo un lungo e imperdonabile silenzio, si è ricordato di lui, organizzando una giornata di studi, o meglio di testi­monianze e di riflessioni, sulla sua opera nei Giardini Hanbury a La Mortola, nell’estremo lembo del Ponente ligure, dove Orengo ha trascorso tutta la sua adolescenza, prima di trasferirsi a Torino.

A questa terra di confine, che ha fatto da sfondo alla quasi totalità dei suoi romanzi, Nico Orengo è rimasto sempre legato; una terra magica in cui i colori non si percepiscono solo attraverso la vista ma anche tramite l’olfatto e gli odori passano neces­sariamente attraverso gli occhi, penso ai ciuffi di lavanda o ai vasi di basilico che occhieggiano dai davanzali e dalle terrazze inebriando l’aria, il cuore e la mente. La Liguria per Orengo non è stato solo uno spazio incantevole, intriso di luce e di odori, ma anche e soprattutto una stagione della vita, vero e proprio cronotopo per dirla con Bachtin, il tempo mitico dell’a­dolescenza, l’epoca avventurosa delle scoperte, quando i sogni riempiono le giornate e gli eroi della carta stampata, dei fumetti e della celluloide diventano i nostri abituali interlocutori e compagni di gioco, in uno spazio fisico e simbolico al contempo, come traspare da molti suoi romanzi (Miramare e Terre blu). Né va dimenticato che negli anni Cinquanta, quelli della sua adolescenza, questa striscia di terra, al confine con la Francia, era immersa in un alone fascinoso di mondanità, frequentata com’era da tantissimi personaggi, famosi e carismatici, si pensi a Hemingway, a Chaplin, ai Rothschild o ad attrici bellissime e seducenti come Grace Kelly che nel 1955 interpretò Caccia al ladro di Alfred Hitchcock, prima di diventare la principessa di Monaco, e Ava Gardner, splendida protagonista, nel 1954 di La contessa scalza di Mankiewicz, girato proprio in questi luoghi. «Un mondo, quindi, e una stagione indimenticabili che Nico Orengo ha rievocato spesso nei suoi romanzi (Le rose d’Evita, La guerra del basilico, Ribes, La curva del latte) con una straordinaria leggerezza di tocco, con quell’ironia lieve e divertita che gli suggeriva pagine fresche e spesso esilaranti, con un’attenzione commossa e sincera al paesaggio ligure in tutta la sua magnificenza e bellezza e con una scrittura piana e ricercata al contempo ma sempre godibilissima», come scrivo in Nico Orengo. Poeta della pagina e della vita, AA. VV. Fusta editore, 2019.

Nico Orengo, che in gioventù aveva frequentato il Gruppo ‘63 e il versante dello sperimentalismo (E accaddero come figure e La misura del ritratto), raggiunta la sua maturità di scrittore, ormai padrone di una sua personale cifra stilistica, ha saputo spingersi ancora più in là e ha messo in gioco se stesso e la propria famiglia verso la quale era sempre stato reticente, per una forma di malcelato pudore. E in Hotel Angleterre, suo penultimo romanzo, compie un viaggio, nell’accezione più ampia del termine, tra fantasmi, suggestioni e memorie alla ricerca delle proprie origini e del senso stesso della scrittura, rievocando con grande tenerezza la figura della nonna paterna, la contessa Valentina Tallevitch, che, nelle fredde sere invernali, mentre getta bucce di mandarino nel fuoco del camino, racconta ai nipotini raccolti intorno a sé aneddoti ed episodi, splendori e miserie, stravaganze e follie della nobiltà russa in Costa Azzurra e nella Riviera di Ponente, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.

Nel 2004 Nico Orengo, insieme a Giuseppe Conte, amico e poeta di chiara fama, ha ricevuto dalle mani del Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, la croce di commen­datore. Nell’ultimo romanzo Islabonita, ambientato a metà degli anni Venti, quando in Italia si stava concretizzando e consolidando il passaggio dalla democrazia parla­mentare al regime fascista, Orengo attraverso una figura antropomorfica di anguilla voyeur, che ci richiama alla mente la trota di Dogana d’amore, ci immerge in un’atmosfera noir con chiare valenze socio-politiche e culturali; si pensi alla mattanza dei cinghiali che nella sua efferata crudeltà rimanda alle violenze delle squadracce fasciste. Cinghiali e anguille che insieme ai tordi, alle trote e ai gamberi di fiume costituiscono il bestiario di Orengo ma che Nico, da raffinato gourmet qual era, preferiva gustare, accompagnandoli con un buon bicchiere di vino, preferibilmente rossese o vermentino, a tavola con gli amici secondo le antiche ricette della cucina ligure. Per un ritratto, però, non dico esaustivo ma più preciso di Nico non si possono dimenticare i suoi versi, i suoi acquerelli, le sue performances artistiche, con gli amici pittori Giletta, Tamburelli e Salvo, le sue filastrocche per bambini, agili e divertenti, le battaglie contro la speculazione edilizia e per la salvaguardia dell’ambiente e delle tradizioni culturali; né va dimenticata, infine, la sua attività di giornalista a La Stampa, quale responsabile di Tuttolibri, dove curava tra l’altro la rubrica Fulmini, frutto della sua ironia pungente e graffiante. Ed è proprio in uno di questi fulmini che Orengo, in polemica con Pietro Citati, che aveva affermato che “la morte di un’opera d’arte è molto più dolorosa della morte di un uomo”, rivendica l’umanesimo che è alla base della sua formazione e della sua produzione “La vita di un uomo – afferma Nico – è qualcosa di unico, irripetibile: un’opera d’arte assoluta […] è una irripetibile scintilla d’infinito.”

Ed è alla luce di questo suo umanesimo che si comprende anche la sua disponibilità nei confronti degli altri (homo sum, humani nihil a me alienum puto di terenziana memoria), la facilità nel tessere una rete di relazioni umane, la sua convivialità, il suo sodalizio con gli amici di lunga data, i quali, in concomitanza con il convegno organizzato dall’Università di Genova che si terrà il 30 Maggio a Villa Hanbury a La Mortola, frazione di Ventimiglia (IM), hanno voluto raccogliere ricordi, testimonianze ed esperienze comuni in un volume che verrà pubblicato a breve dall’editore Fusta di Saluzzo (CN) a cura di chi scrive e Alberto Cane. Amici non esclusivamente ma prevalentemente liguri, o gravitanti in quel Ponente ligure, che non a caso Nico ha scelto come ultima e definitiva dimora, in un piccolo, disadorno cimitero di campagna, tra La Mortola e Grimaldi, aggrappato alla roccia e affacciato sul mare blu cobalto.

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