Lidia Lombardi
Incontro con la scrittrice cilena

Nuovissimo Cile

Paulina Flores parla del suo Cile senza Pinochet: «Non ho vissuto la dittatura in prima persona, sono figlia della Rete e mi rivolgo a una generazione di cileni che guarda al futuro con altri occhi rispetto a quelli del passato»

Paulina Flores è esile e riflessiva. Non ha guizzi nella voce, non sorride mai troppo, ma intercetta l’interlocutore con lo sguardo acuto ed è pronta a mettersi in sintonia con lui. Ha idee ferme e chiare, questa scrittrice trentenne nata cresciuta a Conchalì, un quartiere a nord di Santiago del Cile, venuto su sopra vecchie costruzioni. Famiglia piccolo borghese, pochi libri in casa. Ma di libri ha fatto un’indigestione quando ha frequentato l’università. Le si è dischiuso lì il demone della narrativa che l’ha condotta, di pari passo con il lavoro di insegnante, prima in una scuola scrittura creativa, poi alla messa in pratica. Ne è scaturito un libro di nove racconti uscito nel 2015, che ha ottenuto unanimi consensi dalla critica ed è stato pubblicato in dieci lingue. La versione in italiano, lavoro di fino ad opera di Giulia Zavagna, è appena uscita per Marsilio con lo stesso titolo dell’originale in spagnolo (“Qué verguenza”, Che vergogna, 234 pagine, 16 euro), portando peraltro la Flores in Italia dove ha partecipato, a Venezia, al festival Incontri di Civiltà.

Ciò che colpisce, in questo libro, è l’impasto sapiente, mai farraginoso, mai sovraccarico, di realismo e intimismo. Nei nove racconti agiscono bambini, adolescenti, e quasi tutti si trovano sul crinale della cosiddetta perdita dell’innocenza. Che, certo, non significa perdizione, ma presa di coscienza del peso del mondo. Aprono gli occhi su situazioni fino a un mese prima, una settimana prima, più grandi di loro, e all’improvviso si rendono conto di doverle affrontare. Si portano dentro un impercettibile peso, svariatamente generato. È il padre disoccupato, con la madre che lo rimprovera e allora la sua bimbetta gli ritaglia le inserzioni di ricerca personale sui giornali; è il genitore che beve troppo e ciondola in una cittadina di provincia dove non c’è troppo da fare, e allora un gruppo di ragazzini patiti per il rock si inventa un furto con scasso nella parrocchia per procurarsi, stile ninja, gli strumenti per suonare; è una ragazzina insidiata da un giovane pedofilo che le fa provare un sentimento misto di vergogna e di dipendenza, nell’illusione di essere diventata grande; è la vacanza al mare con le zie di un ragazzetto prima di allora abbandonato a se stesso; è l’incontro di una ragazza madre con una disinvolta ex collega nel fast food, un’americana che sembrava leale e invece svela il più lubrico dei tradimenti ai danni di un collega.

È un universo in cui quasi tutti i protagonisti sono povere solitudini e anelano ad un altrove ma sanno che resteranno a vedere la tv, a sentire i dischi, a fare avanti e indietro in biblioteca, a chiudersi in bagno per interminabili immersioni nella vasca. Narrato con uno stile nitido, che si focalizza sugli ambienti, sugli oggetti, sui particolari che diventano appropriati sfondi di stati d’animo. E con uno sviluppo narrativo che non sfocia mai in tragedie, ma quasi s’interrompe all’improvviso, perché così è la vita, subita, e scorre senza troppi colpi di scena.

E poi ha un’altra singolarità. Nelle 234 pagine, dove agiscono cileni di oggi su sfondi urbani o di mare/campagna, mai è nominato Pinochet. Perché, Paulina Flores?

Non ho vissuto la dittatura in prima persona, sono nata quando c’è stato il plebiscito per la caduta di Pinochet. Dunque non posso parlare di una contingenza che non ho provato.È una forma di rispetto, di onestà intellettuale. E poi sono ai primi passi del mio impegno di scrittrice, devo sviluppare un’esperienza personale prima di affrontare il tema della dittatura. Ma in filigrana nei miei personaggi ce n’è il retaggio, e lo portiamo dentro ogni giorno. Ci sono le disparità sociali, una Costituzione che è ancora fondamentalmente quella di Pinochet. La mia missione, quella della mia generazione, è sperare, e nella speranza forte trovare un bandolo per cambiare quello che non va.

Eppure i protagonisti dei suoi racconti sono ripiegati su se stessi. Un ritrarsi che è solo del Cile o è l’effetto di una disillusione globalizzata?

Ma no, i trentenni cileni vogliono essere forti. Ho tratteggiato i personaggi partendo da realtà specifiche della società cilena. Per i giovani la città è vissuta come unica speranza di un futuro migliore. E in alcuni dei miei racconti questo richiamo, questo anelito è venato di tristezza, che deriva dall’inevitabilità dell’allontanamento. Però scovo anche chi non la pensa così. In quello intitolato Ultime vacanze un ragazzino non vuole andarsene via: capisce che vivere nella marginalità del posto dove è nato è uno scudo che lo protegge dalle insidie della vita.

C’è nei suoi personaggi il mito dei paesi più avanzati economicamente. Il mito degli Usa soprattutto, dalla musica al cinema, compresi Jim Morrison e Orson Welles.

Sì, per lungo tempo siamo stati ossessionati da quel mondo. Ora cominciamo a riappropriarci di certe nostre specificità, come il Regueton, la musica da ballo nata negli anni Novanta a Porto Rico, che sfondò in Centro e Sud America . Anche questo è il sintomo che vogliamo rialzarci, aver l’orgoglio della nostra identità, anche se abbiamo vissuto esperienze terribili.

Ma come si vive in Cile oggi? L’economia va bene, ha il Pil pro capite più elevato tra i Paesi dell’America Latina.

Bisogna distinguere. Godono di benessere soltanto certe classi sociali. Come in tutto il mondo non c’è una equa distribuzione della reddito. Rispetto al Venezuela, certo, vantiamo un equilibrio politico ed economico invidiabile. Ma restano le diseguaglianze. A guardar bene, il Cile è nelle classifiche dei paesi più sbilanciati del pianeta in tema di ricchezza nella popolazione. Ecco un esempio: mi capita di intervistare persone incontrate per la strada. Fino a qualche tempo fa ce n’erano tante venute dalla Colombia, dal Venezuela, da Haiti. Ora specie di haitiani se ne trovano meno, hanno preferito ritornare nel loro paese, nonostante le ferite della guerra, del terremoto. Evidentemente sanno che lì staranno meglio. Una situazione che ho inserito appunto in Ultime vacanze, dove entrano in gioco reduci che scelgono il cammino inverso, in direzione della loro città natale.

Lei insegna lingua e comunicazione al liceo, e però mancano nella sua opera riferimenti a figure chiave della letteratura cilena, Neruda prima di tutti

Per la verità ho smesso di insegnare per concentrarmi meglio sulla narrativa. Quanto ai mostri sacri del Paese, dovete tenere presente che la mia è una generazione cresciuta e formatasi nella Rete. Addirittura posso dire che ho ottenuto i miei traguardi grazie a Internet. Un modo per uscire da una visione concentrata sul proprio Paese. In Cile le persone sono portate a guardare fuori, io non le giudico, le assecondo.

Che cosa pensa di Francesco, il primo papa sudamericano?

Non sono credente, ma giudico quello di Bergoglio come un pontificato interessante. Egli da vescovo è andato tra le gente, nelle strade, tra i diseredati. Ha fatto progressi sul tema della omosessualità, mentre purtroppo ancora non scioglie il divieto ai preti di sposarsi. La sua visita in Cile poi è andata male. Ha difeso un vescovo accusato di pedofilia sostenendo che si trattava di calunnie. E pur vero che in seguito ha riconosciuto di aver sbagliato, ma è rimasta la prima impressione, quella di una Chiesa che continua a insabbiare gli scandali.

C’è libertà di espressione in Cile, ha mai subito censure?

Mai. Ma, vede, la censura è un fenomeno difficile da analizzare. È il mercato che la fa: sceglie i prodotti e li rende vendibili, anche nel caso della letteratura e delle espressioni di libero pensiero.

Chi c’è nell’Olimpo letterario di Paulina Flores?

Alejandro Zambra è stato il mio maestro. Ma ho letto tutto di Alice Munro e amo molto Bolano, Kazuo Ishiguro e la vostra Natalia Ginzburg.

Già, Lessico famigliare trova eco nei suoi racconti dove padri, madri, fratelli, nonne, zie sono molto presenti. E dove però certe sue descrizioni sono tanto realistiche da alludere ad altro

Il mio libro è realista e intimista insieme perché cerco di mettermi nella testa dei personaggi. Alcune situazioni inquietanti restano in bilico tra i due opposti, realtà e surrealtà. Ma voglio percorrere altre strade, perché penso che un autore debba essere diverso in ogni sua opera, come quella che sto scrivendo, una prova impegnativa perché passo dai racconti al respiro lungo di un romanzo.

Di che cosa parla?

Isola delusione è il titolo, pur provvisorio. Il tema è quello dell’abbandono della vita conosciuta per cominciare qualcosa di nuovo. Ecco allora un’imbarcazione coreana adibita alla pesca dei calamari in un tragitto dalla Corea al Cile, dove salgono tre persone di diversa nazionalità. Staranno due anni insieme…Ecco, qui lievitano le situazioni inquietanti, fuori dalla realtà. Come dicevo, ritengo importante tentare percorsi nuovi, mettermi alla prova. È crescere.

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