Marco Fiorletta
L'Italia di Salvini e Di Maio

Il prossimo fascismo

Spigolando tra memoria fasciste (e post fasciste) è drammaticamente facile cogliere nel presente i segni del passato. Davvero siamo pronti a evitare che la tragedia si replichi in farsa?

Benedetto Croce, come si sa, non fu all’inizio un tenace oppositore di Mussolini anzi, come ben sintetizza Antonio Scurati nel suo M Il figlio del secolo, «…egli guarda alla violenza illiberale del fascismo con un misto di supponenza, miopia e condiscendenza». Il filosofo votò a favore del governo fascista anche dopo il delitto Matteotti (1924); solo nel 1925 si dissociò dal fascismo per spostarsi su posizioni di “antifascismo non militante”. Alla caduta del Duce, scrisse nel suo diario, alla data 29 aprile: «Annunzio della fine del Mussolini e dei suoi gerarchi. Mi è parsa affatto naturale. L’uomo era nullo, e la fine ha confermato questo giudizio. Bisognerebbe dimenticarlo, ma insieme sempre ricordare che moltissimi o i più, in Italia e fuori, lo hanno creduto una grande forza geniale e benefica, e lo hanno plaudito e sostenuto per lunghi anni». (Benedetto Croce, Taccuini di guerra 1943-1945, Adelphi 2004, p. 289)

Quello sguardo disincantato, supponente, miope e condiscendente – e aggiungerei sciagurato – dovrebbe far aprire gli occhi a noi per vedere e capire meglio il periodo storico che stiamo vivendo. Sottovalutare, astenersi dal condannare, appoggiare la deriva politica del momento ci espone a nuovi e gravi rischi. Non basterà poi una semplice presa di posizione tardiva per dissociarsi da ciò che si sta permettendo di costruire. Il razzismo è tra noi, ormai si corre il rischio dell’assuefazione, del considerare gli atti di violenza contro gli stranieri o i rom, siano essi di nazionalità italiana e non, come un nuovo fenomeno inarrestabile che al massimo si può e si deve condannare ma che tanto non si può far nulla per fermare. Il fascismo del terzo millennio è tra noi. Il fascismo è tornato, se mai sia andato via.

Vincenzo Costa, ultimo federale di Milano, annotava nelle sue memorie (l’azione si svolge in Piazza San Sepolcro dove nel 23 marzo 1919 erano nati i Fasci di Combattimento): «La tromba suonò l’adunata: era giunto il momento terribile dell’ammainabandiera. Al mio fianco erano Franca Colomba, Giulio Rao Torres, Domenico Vianello, Pino Perrone; i fascisti accorsi si irrigidirono sull’attenti, il braccio teso nel saluto romano e un canto solenne si alzò ancora nella storica piazza, la preghiera del legionario. Lentamente, piangendo, calai la bandiera; gli occhi di tutti erano colmi di lacrime, ma una voce dal fondo gridò: “Torneremo!”». (Vincenzo Costa, L’ultimo federale. Memorie della guerra civile, 1943-1945, Il Mulino, p. 6)

“Torneremo!” fu la terribile minaccia lanciata dall’ignoto fascista in tempi lontani eppur ancora tremendamente vicini. E noi qui saremo ad attendere per difendere, se necessario, la nostra libertà. Ma non potrà e non dovrà essere la lotta di pochi contro tanti come fu quasi ottanta anni fa: dovrà essere la presa di coscienza di un popolo che ha smarrito la strada del rispetto, dell’uguaglianza, della tolleranza; che non conosce la Storia e corre il rischio di ripetere errori che tante sofferenze hanno dato agli italiani tutti.

È già accaduto la massa si trasformasse in ubbidiente esercito esecutore di ordini scellerati, in ogni latitudine e con ogni ideologia. Nei poco più di centocinquanta anni di unità d’Italia non mancano vergognose pagine di stragi, deportazioni, campi di sterminio, utilizzo di gas, eseguiti anche da normali cittadini arruolati nelle forze armate o negli organismi di polizia (rileggersi, tra i tanti libri, Angelo Del Boca, Italiani brava gente? Neri Pozza, 333 pagine). Eppure, noi italiani siamo tanto brava gente al punto che dei colpevoli ne abbiamo processati una minima parte, senza clamore e con condanne irrisorie: non abbiamo avuto una nostra Norimberga che ci costringesse a prendere atto delle nefandezze portate a termine dagli italiani. Anzi, in molti casi i colpevoli sono stati promossi, hanno fatto carriera, avuto onori; e ora tornano tristemente in auge. A Roma, nel quartiere Collatino, c’è una scuola materna intitolata a Dalmazio Birago, un perfetto sconosciuto, se non mi fossi chiesto chi fosse costui. Dopo una brevissima ricerca – l’utilità di Internet! – ho scoperto che Dalmazio Birago era un giovane piemontese arruolatosi volontario nella Regia Aeronautica nel 1927, quindi con il Duce già al potere, assegnato alla squadriglia comandata da Galeazzo Ciano e detta La disperata che si macchiò in Africa Orientale di molti crimini come bombardare profughi e/o bombardare con l’iprite, gas venefico già all’epoca messo al bando anche nei conflitti. Il giovane Birago ebbe la sfortuna di morire dopo un mese dal suo arrivo in Etiopia e fu per questo che ricevette una medaglia d’oro al valor militare, e fu il primo di tutta la campagna d’Africa Orientale. Perché si dovrebbe onorare la memoria di Dalmazio Birago, morto in una guerra colonialista, dove gli italiani si sono macchiati di crimini di guerra senza che nessuno abbia pagato?

In ciò che sta accadendo in Italia non c’è nulla di geniale, benefico né di nuovo: è un libro già letto. L’acquiescenza, il voltare la testa dall’altra parte, l’accodarsi alla maggioranza che urla e strepita senza pensare cosa e con chi si sta gridando è uno dei nostri grandi mali. E maggiormente colpevoli sono coloro che hanno ben chiaro il rischio ma cavalcano la tigre sperando che essi, i furbi, i violenti, lascino loro un piccolo osso da sbocconcellare per dare l’illusione di aver vinto.

Non si vince nulla, si può solo perdere: la dignità e, in ultima analisi, la libertà.

Facebooktwitterlinkedin