Stefano Raimondi
Il Ceppo in tre parole /5

Tu Ospitalità Abbandono

Il dialogo tra il Me del pensare e il Tu del dire, lo spazio della parola poetica che accoglie i molteplici significati, la traccia dell’“ancora” e dei sedimenti del tempo. Questo e altro ne “Il cane di Giacometti” finalista al Premio Selezione Ceppo Poesia

Tu – Pensare la parola poetica è come rendere visibile un luogo, una città: un posto nel quale verranno conferite le cittadinanze. Frontiere di respiro e ritmi capaci di rendere possibile lo scambio tra un “Me” del pensiero, effettivo e reale, e un “Tu” possibile, presumibilmente vero, del “dire”: entrambi dialoganti e presenti. Questo Tu può essere tutto e tutti, può diventare nome proprio di persona o di cosa. Può farsi carico di ognuno e di ogni situazione, sapendo che, in definitiva, sarà sempre e comunque “altro” da Me: il meravigliosamente “altro” dei giorni. Ma tutto questo resta teoria! Eppure resta comunque! Serve! L’altro lato della luna vigila il suo buio indefinibile e, resta in sua presenza, sempre! Anche questa oscurità è una forma d’alterità. In tutto c’è il due di ogni cosa: la mia distanza: «Ecco le notti lunghe, notti / che a dirle bisognerebbe / stare in due: ognuno / dalla sua parte, dove / incominciare a credersi». Così nel mio libro Il cane di Giacometti (Marcos y Marcos, 2018).
La mia prossimità: l’Inizio. Un nome detto con il coraggio del caso. Il nome dell’Altro sparso nell’etere che attende di essere creduto e chiamato perché riconosciuto, proprio come ebbe a scrivere il poeta russo Osip Mandel’štam: «Nessun poeta è ancora esistito»; «Ciò che è vero di un poeta, è vero di tutti»; «La parola è carne e pane. Condivide la sorte del pane e della carne; la sofferenza. Gli uomini hanno fame»; «La parola viva non definisce un oggetto, ma sceglie liberamente, quasi a sua dimora, questo o quel significato oggettivo, un’esteriorità, un caro corpo. E intorno alla cosa la parola vaga liberamente come l’anima intorno al corpo abbandonato ma non dimenticato»; «Scrivi versi orrendi, se puoi, se ti riesce. Un cieco riconoscerà il viso caro appena lo avrà toccato con le dita veggenti, e lacrime di gioia, della vera gioia dell’agnizione, sgorgheranno dai suoi occhi dopo il lungo distacco. I versi vivono di un’immagine interiore, di quel sonoro calco della forma che precede la poesia scritta. Non c’è ancora una sola parola, eppure i versi risuonano già. È l’immagine interiore che risuona, e l’udito del poeta la tocca»; «Bisognerebbe spargere il grano nell’etere».

Ospitalità – Ma che cos’è dunque l’ospitalità? Il dizionario dice: “chi accoglie in casa propria una persona e la persona accolta in casa d’altri”. In italiano la parola “ospite” ha una plurima radice semantica, deriva da hospes, itis, parola enantiosemica – e quindi antichissima, come il greco doron – dall’etimo incerto e significa sia chi ospita sia l’ospitato e più in generale “straniero”, “forestiero”, cioè colui che viene da fuori. Questa caratteristica che nella nostra lingua è speciale rende chiaro l’importanza che ha eticamente. L’ospite è sacro, l’ospite è importante e all’ospite non bisogna far mancare nulla. Ma anche chi ospita è sacro perché mette a disposizione la sua dimora, la sua intimità a chi viene a trovarlo ed è importante perché rende possibile la permanenza e la “sussistenza” a chi si reca nella sua casa. Il simbolo dell’ospitalità è il beduino nel deserto. I beduini sono un popolo arabo e più precisamente una tribù nomade che vive nel deserto a economia pastorale. Una loro usanza è quella di ospitare chiunque passi davanti alla loro tenda offrendogli una tazza di tè speziato. Ma soprattutto all’ospite non viene chiesto nulla: non gli si domanda il nome, né gli si chiede da dove venga, né dove sarà diretto. La permanenza nella tenda è libera e non dovrà avvisare nessuno della sua ripartenza. Questo modo particolare di ospitare è il senso primo dell’ospitalità e cioè lasciare il proprio luogo a disposizione dell’altro, dello straniero finché ne abbia bisogno, fino a quando le sarà utile. Nulla viene chiesto in cambio, e nulla viene dato in cambio se non la generosità dell’ospite.
Anche questo accade con la poesia. Infatti l’ospitalità deve portare a questo punto decisivo: lasciare che l’altro si senta come a casa propria, farlo sentire a suo agio, lasciargli uno spazio per sentirsi bene. Apparentemente sembra non esserci regole che stabiliscano questa legge antica dell’ospitalità. Ma alla base di questa usanza ci sono le regole della fiducia, della comprensione, della tolleranza e del rispetto reciproco. Anche la poesia è un luogo ospite e ospitante: ospitale! “Ospite” perché va dove l’accettazione è chiare ed evidente. Non c’è poesia che non voglia farsi capire e quindi non ci sono parole incomprensibili per chi è disposto alla comprensione di quelle parole. Per questo si dice che la poesia è di chi sa ascoltarla è di chi sa attenderla, è di chi non ha paura. E solo un’attenta lettura porta alla comprensione del testo. “Ospitante” perché essa sa come rendere possibili molti luoghi, molte possibilità, rendendo evidenti e acustiche molte soluzioni. Nella poesia le parole, infatti, si posizionano per raccontare/accennare un’emozione, un sentimento, un dolore, una sorpresa. La parola poetica dunque si rende ospitale perché fa spazio ai molti significati, alle molte interpretazioni che il lettore opera leggendola. Ma soprattutto fa spazio alle possibilità dei mondi e dei modi per dirla, rendendo le parole portatrici di molteplici significati. In una poesia una parola può dire contemporaneamente più cose, può rendere contemporaneamente più immagini. La parola poetica è ospitale perché fa spazio alle interpretazioni.

Abbandono – «Anche una data è un abbandono, una parola rifugiata, una paura persa tra le mani di qualcuno, che da vicino resta a dirti quanto lontana sia la vita e fuori sono solo brani di case a cadere, a sentirsi lasciate stare dai soffitti, dai fili che si spezzano, dalle lampadine che scoppiano nel buio che si sventra contro un cielo, che si ferma e che racconta di chi è sceso nelle cantine a tremare, tra i respiri messi male. “Guardami da vicino, guardami come si annusano i cani tra le gambe per capirsi. Questo buio che sento piomba. Teniamoci fino a dove potremo vederci ancora, come questo corrimano che sale solo per poche scale senza muro”. Me lo dici mentre le feste degli anniversari finiscono e sono sempre qui le tue parole tolte dai rifugi, imparate a memoria anche dalle case». Così Il cane di Giacometti. I luoghi dell’abbandono sono posti dove poter “leggere” ancora delle storie, “ascoltare” ancora dei racconti, “intuire” ancora dei fatti che vi sono accaduti, successi, inventati. L’abbandono è la traccia di questo “ancora” e di un lavorio sedimentato dal tempo e dai passaggi umani che vi hanno saputo come radicare e innestare le loro vite e le loro esperienze. Individuare un luogo dell’abbandono – sia esso esteriore che interiore – è segnalare la presenza di una “traccia testimoniale” che sa come renderci ancora più legati alla sua memorialità e accadimento.
Il lavorio dell’abbandono è dunque un “fare” che proprio dal suo luogo abbandonato deve sapersi “narrare” nuovamente, facendoci recuperare quelle evidenze che ancora hanno l’energia e la lucentezza di una “vera presenza”. Il luogo diventa così mappa di un passaggio umano di storie da raccogliere e da raccontare e da questa tracciabilità, da questa mappatura d’esistenze, il paesaggio diventa anch’esso “narrante”, perché “dicente”. In un luogo si trovano lo “stare”, il “fare”, l’“andare” e il “ritornare” dei tempi del vivere di chi vi è transitato e questi “reperti/respiri” fanno di questo luogo, una pagina da rimparare a memoria, facendoci portatori noi stessi, di memorie territoriali e deambulanti di chi ci hanno preceduto e ci hanno fatto “passare”. E queste tracce, queste evidenze nella poesia sono i calchi delle parole, scelte e trascelte dall’attenzione dell’esperienza. Ma un luogo abbandonato non è sempre un luogo dell’abbandono. Qui l’eccezione dell’abbandono vuole essere il risultato di un’accentuazione positiva del termine. Anche la parola stessa contiene un’altra parola celata al suo interno che ne rivela la grandezza: “dono”: «Ci sono abbandoni che non tengono / ma lasciano andare. Da lì / iniziano le vie, gli incontri / le stellate tenute dai balconi». Qui abban-dono è sinonimo dunque di possibilità “altra” di nascita e ri-nascita, sapendo che esso non è solo un “lascito” ma anche la “preservazione” di una condizione che, nonostante tutto e nonostante il tutto, è rimasta evidente e presente al mondo. Sarà dunque la possibilità di ridare a un luogo/parola la sua ri-nascita (far nascere due volte) a essere la sfida di ogni parola in poesia.

www.iltempodelceppo.it

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