Giovanna Cristina Vivinetto
Il Ceppo in tre parole /6

Nome Madre Corpo

L’affermazione della propria individualità, la coincidenza tra l’io poetico e la sua creazione… E la poesia che si incarna in un corpo lirico. Con Giovanna Cristina Vivinetto che si racconta attraverso “Dolore minimo” si concludono gli autoritratti dei poeti finalisti al Premio Ceppo Poesia 2019

Nome – “Dolore minimo” (Interlinea, 2018) è la narrazione in versi di una vicenda singolare rappresentata dalla transessualità ma, contrariamente a quanto si potrebbe pensare a prima vista, il termine “transessuale”, oltre ad apparire quasi a metà raccolta, ricorre pochissime volte, risultando perciò poco significativo sul piano del discorso critico-estetico. Il nome è invece l’abito che ci portiamo addosso, la dimensione entro la quale ci muoviamo insieme alle nostre azioni. Darsi un nome significa innanzitutto darsi una direzione, tessere legami con la realtà circostante; in qualche modo sottolineare il proprio posto nel mondo. Avere un nome, inoltre, vuol dire anche “esserci”: perpetuare, cioè, la propria eccezionale individualità in una moltitudine spaesata che ha perso la propria identità. Parafrasando Martin Heidegger, allora, si potrebbe dire che «il nome è la casa dell’Essere», il luogo dove l’io si muove a suo agio trovando in esso la sua più alta espressione. Eppure in Dolore minimo avviene un processo simile e contrario a quanto descritto: nella poesia La verità è che i nomi, infatti, ribadisco l’importanza dei nomi e della nominazione come dato naturale e spontaneo per ogni individuo: «La verità è che i nomi ci scelgono / prima ancora di pronunciarli». Senza la definizione dei nomi saremmo privi di identità: «E chi fugge dai nomi sappia / che non si sfugge alla nominazione / perché i nomi legano in nodi / di verità strette da calzare, / costringono in sillabe da pronunciare / a detti stretti. Da far male». Tuttavia, si arriva a rovesciare questo postulato sostenendo, invece, la necessità di rinunciare a definizioni asfittiche al fine di ricercare la verità al di là delle etichette, che costringono come scarpe strette, e impattare sulla realtà circostante senza mediazioni: «Ci rinunciai e con loro / all’arroganza della definizione. / All’insensatezza di attenersi / alle parole per vedere la realtà. // La verità è che la realtà / dormiva a un palmo dal naso / sepolta da un cumulo muto / di nomi». Il nome, allora, diviene fondamentale nell’esatto momento in cui si trasforma in atto di liberazione per riappropriarsi, mettendola a fuoco, di una realtà travisata dalle parole, confusa da una sterile nominazione.

MadreDolore minimo offre al lettore una versione innovativa, e sostanzialmente inedita, del tema della madre. Essere madre significa nutrire un profondissimo senso di cura e accudimento nei confronti di un altro da sé amato e generato col proprio corpo. Questa è, a mio avviso, la forma d’amore più alta, non solo poiché disinteressata, ma perché presuppone una fiducia, un accorato desiderio di piena realizzazione e benessere nei confronti del figlio – quasi un’ansia benefica, una presenza costante – che raramente si può riscontrare in altre forme di affetto. Allora ho cercato di fare mia questa preziosa convinzione sovrapponendo l’idea di maternità a quella del cambiamento generato dalla transizione. In Dolore minimo, infatti, l’io poetico, che subisce gli effetti del transito e li sublima in poesia, diviene madre di se stessa, che si auto-partorisce e rimette al mondo. Madre e figlia, quindi, arrivano a coincidere: la stessa nuova persona contiene in sé l’amorevole cura di una madre e lo stupore innocente di una figlia che scopre la realtà per la prima volta. La madre, inoltre, diviene una figura mitica che àncora la storia presente a un’ineluttabile predestinazione, la voce ancestrale di quella oscura verità che si è poi rivelata negli anni con un taglio doloroso e pieno di luce, al punto da far affermare: «Solo ora comprendo, / a ventidue anni e un nuovo nome, / quanto male avrei fatto / a rinnegare l’antichissima voce / che mi ha fatto salva la vita». E confessare infine con commozione: «Amatissima figlia / ritorno a te per farmi madre / di un’altra sconosciuta, / amatissima me / che mi è nata dentro quando / tutto il resto poteva mancare». (Nella foto Giovanna Cristina Vivinetto).

CorpoDolore minimo è pervaso letteralmente dalla dimensione del corpo: in esso troviamo a profusione occhi, mani, bocche, profili che si indagano allo specchio, organi riproduttivi che mancano e si ricreano, grovigli di muscoli e nervi che si perdono e si conquistano, sensibilità a fior di pelle che commuovono: si può dire addirittura che è la poesia a incarnarsi in un corpo lirico fatto di carne viva. Le radici di questa poesia, quindi, affondano in un materiale terroso, concreto e plastico rappresentato da una corporeità soggetta al continuo mutamento, esposta a un dolore identitario cronicizzato da cui deriva, come sofferto riscatto, la conquista di un corpo nuovo: «Da quando il corpo ha cominciato / a mutare, ogni punto è una parete / sfondata. Non ci sono più angoli / inviolati a contenerti». Una poesia-corpo, allora, spia di un dolore accolto come forma ineluttabile della necessità di vivere, come stupore per le possibilità che si hanno ancora. E, nonostante il corpo non sia più quello di una volta, uno iato rimane sempre, una porta aperta, un indizio di ciò che è stato e, attraverso la grazia della parola materializzata, si ostina sempre a restare: «Non esisti più, Giovanni, / perché non basta una lama di sole / a riportarti nel pulviscolo vorticoso. / Non esisti, mi convinco, tamburellando / sulle guance le dita. Quelle stesse dita / che un tempo furono le tue».

Facebooktwitterlinkedin