Paolo Petroni
Visto al Teatro Argentina di Roma

I figli di Saturno

Un bellissimo testo dell'australiano Andrew Bovell, una raffinata regia di Lisa Ferlazzo Natoli e un gruppo di buoni attori: storia di un piccolo miracolo teatrale. Inseguendo una saga familiare contemporanea

Una storia famigliare tra Londra e l’Australia, tra il 1959 e il 2038 lungo quattro generazioni il cui quotidiano si tinge di noir fino a che il cerchio si chiude e nasce un finale di speranza, affidato al giovane Andrew e a suo padre che accetta di fare i conti con se stesso e la sua vicenda. Un lavoro sul tempo il suo passare e le sue illusioni, sulla difficoltà dei rapporti genitori figli, sulla solitudine e l’importanza delle parole, sulla banalità e ripetitività del quotidiano e assieme sull’imprevedibilità e l’inesorabilità della vita, segnata qui da una pioggia incessante come segno di un nuovo diluvio universale, fino a quando, come dice il titolo When the rain stops falling, smetterà di cadere. E la linea padre-figlio è quella rilevante, con non a caso un imprescindibile (visto come si sveleranno fatti e persone) richiamo di Henry Law, da cui tutto parte, a Saturno, che nel limpido cielo del deserto australiano si può veder di notte, pianeta come tale etimologicamente vagabondo e col nome del dio che divorò suo figlio.

La vicenda, nella sua sintesi, non può però assolutamente far capire come sia raro oggi vedere uno spettacolo di tanta alta qualità, raffinato nel testo modernissimo e dagli echi classici come nella regia, sottile e coinvolgente come questo dell’australiano Andrew Bovell, realizzato su progetto di Lacasadargilla e firmato da Lisa Ferlazzo Natoli, che ha visto il Teatro di Roma, l’Ert e Teatro Due di Parma mettersi assieme per sostenerlo, anche se poi la programmazione è stata vergognosamente breve (all’Argentina solo 6 giorni) e si spera in una lunga tournée la prossima stagione tutta ancora in via di definizione. Un titolo particolare e mantenuto in originale When the rain stops falling, un gruppo di ottimi attori ma non di gran nome, un autore sconosciuto e una regista poco nota al grande pubblico fanno sì che la gente possa scoprirlo solo con lunghe tenute e l’inevitabile passaparola di chi l’ha visto.

Si parte da una madre, Elizabeth Perry, che alleva da sola il figlio Gabriel, chiusa in un mutismo assoluto per tutto ciò che riguarda il padre praticamente scomparso, Henry Law, di cui gli nasconde anche le cartoline che invia a casa. Ma la strada di Gabriel con questo padre, che si metterà sulle sue tracce a ripercorrerne i viaggi, si incrocerà drammaticamente un giorno, segnando la sua vita e soprattutto, visto la sua più che prematura scomparsa in un incidente, quella di suo figlio che non vedrà nemmeno nascere e della madre e, infine, quella del nipote Andrew. Ma questo racconto forte non ha la sua forza nel contenuto, ma nel modo in cui tutto viene raccontato, nella costruzione stilistica e strutturale del testo, assolutamente unico nel far susseguire una serie di dialoghi e monologhi per 22 scene che appaiono come un continuum, pur avendo continui slittamenti temporali, in un andare avanti e indietro nel tempo che è tutto relativo e che si ripete in situazioni e richiami, con segnali a un altrove che riguarda le alluvioni in Bangladesh o l’arrivo dei carriarmati sovietici a Praga, nello spazio tra l’Inghilterra e il Coorong australiano, partendo dagli anni ’50 per arrivare a far coincidere lo sviluppo di questi diversi piani e aprirsi a un futuro prossimo, datato 2039, quando Andrew compie 28 anni e suo padre 50.

Una scrittura allusiva e sottilissima, fatta di continui rimandi interni, di ripetizioni negli anni di azioni, riferimenti e discorsi, senza che sia l’accumulo a creare profondità, ma la levità incisiva e poetica della drammaturgia e delle sue parole, come una trama che inspessendosi pian piano riveli un disegno, mostri un terribile segreto. Un testo difficilissimo da mettere in scena, ma Lisa Ferlazzo Natoli non è stata da meno dell’autore per lievità e scelta stilistico-linguistica, sostenuta dalla semplice e finissima scena praticamente fissa di Carlo Sala e dalle raffinate luci di Luigi Biondi, che fanno continuamente tutto traslucere, illuminarsi e spegnersi leggermente in un gioco di evanescenze e presenze, di sfondi, di fermi in controluce, di mettere in evidenza persone e cose (pochissime, essenziali) a seconda dei momenti temporali e narrativi, riuscendo a rendere sottilmente chiaro e intenso il complicato e tenue sviluppo dell’azione e la forza dei sentimenti non detti.

Un gruppo di buoni attori che è giusto citare tutti senza sottolineare differenze, in questo caso in cui l’equilibrio generale è essenziale: Caterina Carpio, Marco Cavalcoli, Lorenzo Frediani, Tania Garriba, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Emiliano Masala, Camilla Semino Favro, Francesco Villano (non si capisce come mai coadiuvati da microfoni, ma tarati con grande maestria), che danno vita a due ore di stupefacente spettacolo teso che, a Roma dove l’abbiamo visto, ottiene l’attenzione e il silenzio più assoluto sino ai lunghi e calorosi applausi finali.

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