Nike Gagliardi
In margine alla premiazione/2

Paura da Oscar

Il documentario di Skye Fitzgerald sulla Sea-Watch e uno di Ed Perkins su un caso di cronaca del 2000 hanno portato una realtà diversa alla notte degli Oscar. Quella dominata dalla paura dell'altro. Che produce mostri. E forse per questo non hanno vinto...

In un periodo in cui da un capo all’altro dell’Atlantico il clima politico appare dominato dal riemergere di una demagogia di stampo nazionalista, rispolverata per fornire facili punti di riferimento ai naufraghi causati da quella che Augé definisce surmodernité, e in cui si assiste, a fronte di tanto parlare delle barriere visibili – vecchie o da costruire –, a un ispessimento di quelle invisibili, un seme di speranza arriva inaspettatamente dagli States sotto forma di due interessanti candidature al premio Oscar, nella sezione cortometraggi di genere documentaristico: Lifeboat e Black Sheep. Alla fine, ha vinto Free Solo di Jimmy Chin e Elizabeth Chai Vasarhelyi, ma il fatto che due pellicole così significative siano arrivate fino alla ribalta di Hollywood resta comunque un fatto significativo.

Lifeboat di Skye Fitzgerald è un toccante e crudo documentario sull’attività della Sea-Watch nel Mediterraneo centrale: testimonianza senza orpelli delle operazioni di recupero e salvataggio dei rifugiati da parte di un equipaggio di volontari: a sfilare sono le immagini di uomini, donne e bambini abbastanza disperati da affidare la propria vita e il proprio futuro alla labile speranza rappresentata da un gommone sovraffollato o da un’imbarcazione a rischio di affondamento. La mano del regista si fa invisibile, lascia parlare i volti, i racconti concitati dopo il soccorso, lo sfinimento dei corpi. La crisi umanitaria alle spalle di ogni migrante diviene tangibile, assume nuovamente la misura delle singole esistenze, del confronto dell’umano con l’umano.

Black Sheep è invece il nuovo lavoro di Ed Perkins, neanche ventisette minuti magistralmente girati che ci rimandano indietro al 27 novembre del 2000, il giorno in cui Damilola Taylor, un bambino nigeriano di dieci anni, viene accoltellato a morte a poca distanza dalla sua scuola. Per Cornelius Walker, protagonista del documentario, si tratta di una data spartiacque: sua madre, preoccupata per l’incolumità del piccolo Cornelius, della stessa età e della stessa nazionalità del bimbo ucciso («that could’ve been one of you, guys»), decide di trasferirsi con lui nell’Essex.

Paradossalmente, ci racconta il Cornelius adulto – gli occhi intensi, i particolari del volto stretti in un primo piano che non lascia scampo alla dissimulazione delle emozioni – le cose qui prendono una piega impensata. È proprio qui, infatti, che il giovane Walker si trova per la prima volta alle prese con un corpo sociale in cui il suo colore della pelle viene avvertito come causa di disprezzo. Presto, il ragazzo diviene oggetto di episodi di bullismo, ma la sua reazione, in un clima di isolamento anche familiare, è quella rabbiosa e disperata di ogni adolescente: cercare con tutte le sue forze di essere accettato dai suoi coetanei. La soluzione è una sola: diventare bianco. O, almeno, il più possibile rassomigliante ai membri della gang di bulli che lo vessa. Alla ricerca di omologazione del giovane fa da contraltare il suo sentimento di frustrazione che si concretizza in coazione a ripetere, nella trasformazione del vessato in vessatore in una escalation di violenza.

Una confessione scomoda in forma di documentario, la cui ricostruzione dei fatti inerenti alla vita di Walker nell’Essex è affidata ad attori non professionisti, e in cui il punto di forza è costituito, oltre che dalla delicatezza della narrazione, dalla particolare prospettiva, volta ad anatomizzare la violenza, a suggerire una riflessione su come da ogni abuso possa germinare ulteriore abuso, sulle spaventose forme che possono assumere la solitudine e la rabbia.

Insomma, anche senza Oscar, questi due corti testimoniano, da parte dei loro creatori, uno scopo encomiabile: l’urgenza di spingere gli spettatori verso una non più rimandabile riflessione sulla società attuale. E meritano un’attenta visione.

Facebooktwitterlinkedin